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Il mondo come prigione e la prigione come mondo

di Antonio Sparzani

«Ora che, passati gli anni, ho smesso d’arrovellarmi sulla catena d’infamie e fatalità che ha provocato la mia detenzione, una cosa ho compreso: che l’unico modo di sfuggire alla condizione di prigioniero è capire come è fatta la prigione.» Così, nella puntigliosa e certo non filologica ricostruzione di Italo Calvino della narrazione di Dumas della saga di Montecristo, conclude Edmond Dantès riuscendo in qualche modo a ricostruire appunto un senso e uno scopo alla propria situazione così drasticamente costretta (dalla raccolta Ti con zero). È singolare che quasi nello stesso tempo Marguerite Yourcenar faccia pronunciare al suo Zenone, il colto e sottile protagonista di L’Œuvre au noir una frase assai simile:

«“Quel est le prisonnier qui consentirait à mourir sans avoir fait le tour de sa prison ?” demande Zénon».

Quest’idea dell’esplorare almeno la propria prigione sembra rinunciataria, sembra un accontentarsi, un trovare il bello e l’interessante comunque e dovunque, ma io credo invece che quella cui entrambi gli scrittori del Novecento vogliono alludere, il vero oggetto del loro disegno, sia l’esplorazione del mondo, del mondo che, dai tempi di Giordano Bruno in poi ― sì, quel Giordano Bruno che per primo intuì l’importanza dell’universo infinito e pieno di infiniti mondi ― l’uomo tende a sentire come limitato, come frutto di un’ingiusta costrizione, come prigione da cui non riesce ad evadere. Il precedente più illustre che io conosca di questa intuizione è l’Amleto shakespeariano, quando si dilunga nella sua conversazione con Rosencrantz e Guildenstern (Amleto, atto II, scena II), che egli peraltro giudica soltanto due «tedious old fools» (v. 219):

Hamlet:
. . . . . Let me question more in particular: what have you,
my good friends, deserved at the hands of fortune,
that she sends you to prison hither?

Guildenstern:
Prison, my lord!

Hamlet:
Denmark’s a prison.

Rosencrantz:
Then is the world one.

Hamlet:
A goodly one; in which there are many confines, wards and dungeons, Denmark being one o’ the worst.

Rosencrantz:
We think not so, my lord.

Hamlet:
Why, then, ‘tis none to you; for there is nothing
either good or bad, but thinking makes it so: to me
it is a prison.

Rosencrantz:
Why then, your ambition makes it one; ‘tis too
narrow for your mind.

Hamlet:
O God, I could be bounded in a nut shell and count
myself a king of infinite space, were it not that I
have bad dreams.

L’interessante di questo scambio è non solo la percezione della Danimarca, e dunque di tutto il mondo, come di una prigione, ma questa battuta finale, che appare in controtendenza, di Amleto: potrei essere confinato in un guscio di noce e pensarmi re di uno spazio infinito; soltanto moderata dal ricordo dei cattivi sogni, s’intende cioè dell’apparizione del fantasma del padre che lo ha spinto a vendicarne la morte sul regnante zio Claudio.
Ci sono vari accenni in Shakespeare alle speranze di un mondo nuovo, di nuovi cieli e nuova terra, come nel celebrato dialogo iniziale dell’Antony and Cleopatra (atto I, scena I):

Cleopatra:
If it be love indeed, tell me how much.

Mark Antony:
There’s beggary in the love that can be reckon’d.

Cleopatra:
I’ll set a bourn how far to be beloved.

Mark Antony:
Then must thou needs find out new heaven, new earth.

Shakespeare nasceva a pochi mesi di distanza da Galileo (1564), e sedici anni dopo Bruno; e l’aria che si respirava cominciava ad avere un profumo nuovo, il profumo del Seicento. Secolo maltrattato dalla storiografia letteraria italiana, dati i non troppo eccelsi rappresentanti nostrani di una invece grande letteratura europea, anche se non andrebbe dimenticata, tra le altre cose, la nascita della commedia dell’arte, vero elemento di rottura del costume rinascimentale, con l’inaudito ingresso delle donne nelle compagnie di attori (il primo contratto con una donna di cui si sappia risale al fatidico 1564!).
La volontà di liberarsi da una prigione invade intensamente il Seicento, con la perdita di centralità della Terra, timidamente ipotizzata da Copernico pochi decenni prima, ma ora sostenuta e propagandata da Galileo con l’ostinazione che sappiamo, e resa poi trattabile nei termini di una nuova scienza da Newton: nuova scienza essenzialmente quantitativa e predittiva.

La dialettica tra la ricerca di sfuggire a una prigione da un lato e una sempre nuova definizione dei suoi confini dall’altro è quella che segna l’abbandono della tranquilla cultura rinascimentale e si avvia invece nel mare tempestoso dell’età moderna: e l’immagine posta qui all’inizio è appunto il frontespizio dell’opera Instauratio magna (1620) di Francis Bacon e mostra una navicella che si appresta a varcare le colonne d’Ercole per affrontare un mare sconosciuto.

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7 Commenti

  1. Credo invece che il nostro problema sia innanzitutto quello di identificarla, la nostra prigione. Dopodiché rendersi conto che un limite, una prigione appunto, è pur sempre un limite fisico. Perché mai dunque dovremmo vedere dei limiti fisici per cose che non hanno fisicità, come l’immaginazione, la mente e il desiderio?

    • condivido l’ottima domanda, Jacopo. Certo, dati gli indubbi legami tra i limiti fisici e le “cose che non hanno fisicità”, uno dovrebbe andar cauto a dire che sul quel versante non ha limiti, no?

        • sì, certo, ho ben apprezzato che la tua non era una critica, ma, andando appunto avanti sul tuo filo, intendevo che la tua domanda “Perché mai dunque dovremmo vedere dei limiti fisici per cose che non hanno fisicità, come l’immaginazione, la mente e il desiderio?” parte forse da un’ipotesi azzardata: “cose che non hanno fisicità” però possono essere fortemente agganciate alla fisicità (problema mente-corpo e via discorrendo).

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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