La resa della sera
di Luca Ricci
ai miei amici scrittori, bestie da macello
La mattina presto del giorno in cui uscì il libro del mio amico, verso le quattro o le cinque del mattino, la città venne messa in maschera da un acquazzone improvviso. Me ne accorsi da sotto le coperte e pensai che se fosse continuato a piovere la gente si sarebbe tenuta alla larga dalle librerie: tra scrittori succede sempre così, i libri degli amici sono accolti con un misto di curiosità e invidia. Quel sentimento ambivalente mi accompagnò anche durante la colazione, mentre notavo che il cielo si schiariva e le strade si asciugavano. Poco male, mi dicevo, una bella giornata non significa automaticamente una buona vendita. Mi vestii con sofferenza e decisi di fare una seconda colazione fuori. All’edicola comprai quei giornali dove ritenevo più probabile fosse uscita qualche recensione del libro, magari un’anticipazione o un pezzo concordato fatto da altri amici del mio amico. La sofferenza si tramutò ben presto in sollievo: anche se c’erano un paio di interventi molto elogiativi, in effetti se ne parlava poco o niente. Quando arrivò l’ora dell’apertura delle librerie non ebbi il coraggio d’entrare. Quello era il momento in cui i commessi aprivano i pacchi e sistemavano le novità sui banconi principali, quello era il momento in cui il libro del mio amico era incontestabilmente il libro più nuovo, l’appena nato. Me ne andai a contare le foglie dei platani lungo il fiume. Quante copie avrebbe potuto vendere, onestamente? Inviai un messaggino di congratulazioni al mio amico, e ancora camminai per cercare di svagarmi, di pensare ad altro. Verso mezzogiorno infilai l’ingresso di una libreria di catena e notai che il libro del mio amico, com’era prevedibile, se ne stava in un angolo oscurato dalle piramidi delle strenne natalizie. Pochi, pochissimi titoli occupavano la maggior parte dei metri cubi disponibili: proprio così, toglievano l’aria ancor prima dello spazio, e non c’era davvero modo di non notarli. Si trattava di quei libri che erano arrivati prima di quello del mio amico, e che con ogni probabilità sarebbero rimasti esposti anche dopo. Occupavano anche le vetrine ed erano gli stessi di cui avevo lungamente letto sui giornali. I soliti nomi, i soliti libri, nessuna sorpresa. Mi sentii un po’ meglio e rincasai per mettere qualcosa sotto i denti. Controllai la situazione su internet: chi non ha una visibilità immediata può sempre contare sulla remota possibilità di un passaparola in rete. Senza nascondermi un’oscura soddisfazione constatai che non stava succedendo nulla di particolare. Sì, del libro del mio amico si parlava ma entro margini del tutto accettabili: e in fondo di quale libro non si parla in rete? Non era scoppiato un caso, un interesse particolare, un’onda di commenti e feed-back e tweet anomala. Nel primo pomeriggio il sole venne di nuovo inghiottito da un cielo senza colore, e cominciò a fare freddo. Se fosse ricominciato a piovere la partita si sarebbe chiusa prima del tempo. Mi diressi verso un’altra libreria e chiesi al commesso una copia del libro del mio amico. Il commesso, vagamente disorientato, ci mise qualche minuto a ricordarsi dove mai potesse essere. E ancora non potei fare a meno di guardare allibito le torri di quei pochi titoli fortunati che la filiera editoriale aveva insindacabilmente scelto di vendere quell’autunno. Era divertente il fatto che la loro presenza aggressiva in libreria in genere fosse direttamente proporzionale alle opinioni piene di buon senso progressista della maggior parte dei loro autori. C’era parecchio intrattenimento e molta saggistica di denuncia. Mi venne da pensare, stavolta con inequivocabile malinconia, che dalle librerie era stato espunto il mistero della letteratura. Pensai proprio così, che certa narrativa ormai subiva lo stesso trattamento della poesia. Uscii con una copia del libro del mio amico sottobraccio, ma non ebbi il coraggio di cominciare a leggerlo. Mi sembrava già una concessione straordinaria, un fatto quasi inammissibile, che fossi stato proprio io a comprargliene una copia, a dargli quello scandaloso aiutino. In un modo o nell’altro comunque si erano fatte le cinque del pomeriggio, e la parabola della vita del libro era entrata nella sua fase discendente, il suo destino stava per compiersi. Forse il mio amico lo starà presentando da qualche parte, riflettei ironico. Sapevo che quella mossa sarebbe servita soltanto a rendergli meno amara la sconfitta. Mi chiamò qualcuno, un altro amico scrittore, chiedendomi a bruciapelo: “Allora quand’è che ti decidi a scrivere dei gialli seriali con un bel commissario che entri nel cuore della gente?”. Attaccai livido di rabbia e proseguii il giro delle librerie. Alle cinque del pomeriggio il libro del mio amico era stato spostato dal bancone delle novità agli scaffali. Alcune librerie l’avevano già parcheggiato in magazzino, segno inequivocabile di ciò che sarebbe successo tra poche ore. La cosa mi dette un tale sollievo che mi ripromisi di non pensarci più. Cadde ancora qualche goccia di pioggia, il che fermò diversi acquirenti nell’ora solitamente ritenuta di punta per quanto riguarda lo shopping. Con gioia – una gioia torva che poteva ben riassumersi nell’adagio “mal comune mezzo gaudio” – restai a guardare le strade un po’ meno affollate del solito. A casa poggiai il libro del mio amico sul comodino e ancora non ebbi animo di dargli un’occhiata: e se fosse stato buono? E se fosse stato molto buono? Mi cambiai velocemente e decisi che la mia giornata si sarebbe conclusa con un po’ di jogging. Fuori, il cielo era nuovamente tornato lindo. Tutta quella pioggia l’aveva pulito eccessivamente, e adesso soprintendeva le cose del mondo con la stessa indifferenza con cui, alla fine della corsa liberatoria, mi soffermai a contemplare le saracinesche abbassate di alcune librerie. Era tutto finito, per il mio amico. Tre lunghi anni per scriverlo e un giorno appena per venderlo. La novità del mattino si era trasformata nella resa della sera.
(Pubblicato su Orwell, l’inserto culturale di Pubblico, il 24-11-2012)
Meglio non immaginare, allora, i pensieri di chi amico dello scrittore non è…
molto divertente… :-)
a volte penso agli articoli di certi giornali talmente brillanti che viene da chiedersi che cazzo di mondo sia mai questo dove un tale dispendio di talento distillato nasce per essere rottamato nelle 24 ore successive(tranne che nel cuore degli appassionati,sia chiaro).E allora mi torna in mente una storiella zen(non troppo zen forse)che parlava di un’amante che aspettava fuori dall’uscio l’oggetto dei suoi desideri che faceva il prezioso coltivando l’arte della procrastinazione fino a quando decide che è arrivato il momento alla centesima notte decide di scendere in strada per il rendez-vous e trova solo l’eco della propria solitudine,ma subito mi accorgo che c’entra poco.E allora mi appello perché Sartori possa un giorno trovare una cura adeguata a questi autismi diversamente percepiti e regalarci una visione d’insieme in cui nulla vada veramente perduto
http://www.youtube.com/watch?v=gDFIpN6Bx3s
p.s. questo pubblico comincia a piacermi
Sartori? Autismi? Mi sono perso qualcosa? ;-)
“”E allora mi appello perché Sartori possa un giorno trovare una cura adeguata a questi autismi”… Ma anche no…
niente immagino.Tranne che negli anfratti(a proposito sei citato nel giallo su giallo di gianni mura come uno che avrebbe saputo fare un affresco della situazione narrattiva all’altezza.Non male)
La nascita di un libro si svolge durante la scrittura. Uscito in libreria se ne va nel mondo. Quando mi accade di scrivere, le parole mi tengono nel cuore, poi si distaccano, trovano fortuna o no. Sono nella vita, in un luogo, nel cuore o nella solitudine. Dimentico quello che ho scritto. Ho un talento per l’oblio, la scomparsa, l’invisibilità…
Invidia, non, solo meraviglia, quando leggo un libro fatto di bellezza.
Mi dà ispirazione, slancio per sfiorare quello che sogno.
Vedere un libro pubblicato
da un amico, mi mette gioia nell’anima. Lo prendo contro il petto, lo sento come amante, fa parte della mia vita durante ore, mi aspetta sulla tavola tra compiti e disordine. Lo guardo con felicità.
“je ne parle pas logique, je parle générosité” è il moto dei migliori(bravà veronique)
Mi accade quasi sempre così, coi tuoi.
Racconto iperrealista, invero.