“Se uno fa il mediatore culturale”

 

di Alessandro Portelli

Annalucia Accardo mi ha chiesto di fare questa lezione e capita che sia l’ultima volta che faccio ufficialmente lezione all’università. È una felice coincidenza anche perché l’argomento della lezione è lo stesso con cui ho cominciato: musica e movimenti negli anni ‘60. Perciò ve lo racconterò come una testimonianza, una storia personale di formazione in cui queste canzoni sono state cruciali, perché senza queste canzoni sarei una persona diversa, non avrei fatto questo mestiere.

Avevo 16-17 anni, non avevo alcuna idea politica in testa eccetto che la politica era una cosa sporca, che erano tutti uguali, eccetera. E al telegiornale vedevi cose come quei nove bambini neri dell’Arkansas che passano in fila tra sputi, sassate, bastonate, per entrare a scuola e rivendicare il diritto a un’istruzione comune a tutti. Questa scena, per un ragazzino di sedici anni di allora è un’illuminazione: ‘Ma allora la politica è questo, la politica è un luogo nel quale le persone si muovono per dei valori, per dei principi, per l’uguaglianza…’ Il movimento per i diritti civili afroamericano ha avuto un impatto del genere su tutto il mondo – la rivelazione di tutta un’altra dimensione, dell’azione collettiva, della pratica solidale, della morale nella politica, dei diritti di tutti. Io già bazzicavo la musica americana, il rock and roll e il resto, in cui mi riconoscevo come generazione. Così un elemento di fascino ulteriore fu che questo movimento dei diritti civili si esprimeva in primo luogo attraverso la musica. Ascoltiamola: una registrazione fatta in una manifestazione di massa in Mississippi, nel 1953: ‘libertà, libertà su di me, e prima di essere schiavo sarò sepolto nella tomba, andrò a casa dal mio Signore e sarò libero’. È uno spiritual che risale almeno dalla Guerra Civile, attorno al 1860. Come in tantissimi spiritual c’è l’espressione di un desiderio di libertà, che non si può esprimere se non in immagini bibliche: dentro il canto religioso c’è un’idea di liberazione che può essere mondana o ultramondana ma comunque un’idea di liberazione.

Il movimento si esprime grazie a una grande cultura musicale. Da un lato, le radici africane, con un rapporto molto stretto tra ritualità, musica e danza, che viaggiano persino nelle navi degli schiavi, perché sono un linguaggio del corpo e i linguaggi del corpo sono gli ultimi a venire cancellati. Dall’altro, in tutti gli Stati Uniti, fin dal ‘700, i culti metodisti, battisti, evangelici, sono fondati sulla musica collettiva – sia per l’influenza afroamericana, sia perché forma di comunicazione col divino e uno strumento di coesione della comunità. Pensate alla scena di Moby Dick in cui Father Mapple, predicatore, inizia un canto e le persone sparse si raccolgono e diventano congregazione, comunità. L’altra cosa importante di questo brano è la forma: una strofa che si ripete sempre uguale, cambiando solo una parola all’inizio. Quindi tu puoi anche non avere mai sentito questa canzone però dopo trenta secondi sei non solo in grado di cantarla, ma anche di reinventarla, perché immetti dentro il canto le tue istanze del momento. È uno strumento flessibile che ti permette di combinare memoria di cent’anni e più di storia con il presente, con la lotta in corso; e di improvvisare collettivamente, combinando comunità ed espressione individuale, perché si canta tutti insieme ma ciascuno si può inventare un sua strofa e condividerla con gli altri.

[…] Nel 1981, mi trovo in un posto che si chiama Highlander, una scuola di base fondata negli anni ’30 da giovani studenti di teologia, in mezzo delle montagne del Sud più reazionario, per formare i quadri del sindacato, e poi negli anni ’50 quelli del movimento per i diritti civili. Sto salutando il direttore, entra una segretaria e gli dice “c’è Rosa Parks al telefono”. Se mi avessero detto che aveva telefonato Karl Marx mi sarei emozionato di meno. Perché Rosa Parks ci è stata raccontata come una vecchietta con i piedi gonfi, stanca, che non ce la fa ad alzarsi e a cedere il posto a un bianco sull’autobus a Montgomery, Alabama – l’episodio da cui si fa partire tutta la vicenda del movimento. Mi bastò sentire che era in contatto con Highlander per capire una dimensione del movimento che nessuno ci raccontava. Prima di quell’episodio Rosa Parks aveva fatto un seminario di formazione proprio a Highlander: la sua era un’azione politica, consapevole, programmata e organizzata. Infatti a Montgomery c’era tutta una rete che non aspettava altro, era già pronta, e in pochi giorni organizza un boicottaggio di massa. Quindi non era una cosa nata sull’onda dell’emozione, ma da una intelligenza politica – cosa che raramente attribuiamo ai cosiddetti subalterni, ai quali si suole riconoscere magari sentimenti e virtù, ma mai l’intelligenza. È a Highlander che cambia l’uso della musica. Un musicista di nome Guy Carawan convince il movimento che questa forma musicale, di cui i giovani si vergognavano perché la identificavano con la memoria umiliante della schiavitù, è invece uno strumento di comunicazione di mobilitazione fondamentale. E la canzone che gli insegna è uno spiritual, che avevano sentito cantare anni prima dai braccianti del North Carolina in sciopero, e a cui adesso cambiano solo una parola: da “I’ll Overcome” diventa “We Shall Overcome”.

[…] Il movimento per i diritti civili cambia l’aria che si respira in America, e ha un impatto fortissimo su tutta una generazione – che è poi quella del ‘68, che comincia con la lotta per il diritto di parola all’università di Berkeley nel ‘64, condotta in gran parte da ragazzi che tornavano dall’aver partecipato alla “Freedom Summer” per i diritti civili in Mississippi. Gli studenti bianchi tornano alle loro università e scatenano una lotta che segna la rottura tra una generazione di ragazzi, magari privilegiati, ma che non si riconoscono più nell’insegnamento che li porta verso la carriera, il successo, i soldi, la competizione. Da lì partono i nuovi movimenti contro le guerre e gli interventi militari, da Santo Domingo al Vietnam. La voce in cui si riconosce tutta una generazione è quella di Bob Dylan. Lui poi si sottrarrà per tutta la vita dal peso di essere la voce di questi movimenti, ma in questa fase, tra il 1962 e il 1964, lo è davvero. E la canzone fondamentale degli anni ’60 è sua: “The Times they are a-Changin’”. È difficile immaginare il senso di eccitazione e di ebbrezza che ti dava una canzone come questa: sentivi davvero che “i tempi stanno cambiando” e che eri tu che cambiavi coi tempi e cambiavi i tempi. Questo erano gli anni ’60, la sensazione fortissima che si apriva una nuova strada, e che – come dice la canzone – politici, famiglie, intellettuali, istituzioni o si levavano di mezzo o ti davano una mano; o nuotavano con te o affondavano.

Risentendola adesso, però, mi colpisce il verso che dice “the present now will never be past”. Nel ’63 lui e noi diciamo: “voi siete il presente, tra un po’ sarete il passato”. Ma nel 2012, il passato siamo noi che eravamo il presente di allora; è lui che è sempre bravissimo ma non è più la voce dei tempi. Mi fa pensare al discorso che circola da noi, i giovani contro i vecchi, le rottamazioni – fra dieci o vent’anni anni questi giovani saranno vecchi, è la fallacia di ogni movimento su pura base generazionale. Dicevamo, “non vi fidate di nessuno che ha più di trent’anni”, e il giorno in cui compì trent’anni Bob Dylan fu un trauma per tutta una generazione, che non si poteva fidare più nemmeno di lui, e di se stessa. Però in quel momento una canzone come questa ci diceva una cosa che è molto più difficile dire oggi: e cioè che c’era un futuro, che c’era una strada, e che eravamo noi a crearli.

[…] Abbiamo ascoltato le canzoni del Black Power (“Oginga Odinga” dei Freedom Singers), quelle di Pete Seeger e Phil Ochs contro la guerra, quelle dei soldati che rifiutano di andare in Vietnam, quelle delle lotte proletarie (i corridos dei braccianti messicani in California). Alla fine, come scrive nel suo ultimo libro Bruno Cartosio, tutti questi movimenti scompaiono, vanno in crisi, eccetera, e quello che tira le fila di tutto e che sopravvive e cambia tutto è il movimento delle donne. Nel 1972 viene a Roma Barbara Dane, grande cantante di blues e di canzoni di lotta, e organizzo un incontro con il collettivo del Manifesto. Barbara canta un po’ di canzoni delle lotte in corso, e poi le chiedono: ‘Che cosa succede adesso di importante in America?’ Lei risponde: ‘La cosa più importante è il movimento delle donne’. Avreste dovuto vedere la faccia dei presenti, che non solo non ci avevano mai pensato ma che da questo movimento si vedevano mettere in crisi i paradigmi di una lettura un po’ dogmatica della storia attraverso la sola categoria del conflitto di classe. La novità con la quale si chiude questa stagione e se ne apre un’altra è questa scoperta, che il pianeta è limitato e che l’aria a un certo punto finisce, e che oltre i rapporti di razza, di classe, eccetera, al centro di tutto stanno i rapporti di genere.

L’ultima cosa che ascoltiamo l’ho sentita per la prima volta proprio a casa di Barbara Dane. Un giorno arriva una sua amica, una giovane musicista che si chiama Beverly Grant, per farle sentire un po’ di sue canzoni nuove. Con mio grande entusiasmo – per un intellettuale non c’è gioia più grande di scoprire una cosa alla quale non avevi pensato prima – scoprii l’importanza, la forza, l’intelligenza, l’eloquenza, di questa nuova realtà delle donne. Non mi dimenticherò mai che lei aveva una bambinetta di due anni, totalmente autonoma che si gestiva il biberon… Questa sua canzone è la storia di come una donna trova se stessa liberandosi di una subalternità instillata fin dalla nascita. Finisce dicendo “Mi chiamo Janie e sono io – non Janie di papà, non Janie di mio marito, ma Janie di Janie”. Come dire: “io sono mia”.

[…] Infine. Queste musiche ci dicono, su uno dei momenti più straordinari del ‘900, più di tutti i romanzi scritti in quegli anni e di tutti i film fatti dopo. Riconoscere l’intelligenza e la passione di questi movimenti passa per l’ascolto di voci non autorizzate, antagoniste, marginali che proprio perché non autorizzate sono portatrici di una spinta liberatoria che sta già nell’atto stesso di prendere la parola. Per capire un tempo, per capire anche noi stessi in rapporto a quel tempo, ascoltiamo voci non autorizzate, ascoltiamo chi erano questi militari che cantavano andando a protestare contro la guerra, ascoltiamo questi musicisti messi sulla lista nera e fuori mercato, questi afroamericani che cantavano rischiando la vita a Birmingham o Selma. Noi in questa facoltà, che siamo tecnici della parola, dobbiamo tenerci molto stretta questa competenza, questo privilegio, questo diritto, perché non solo abbiamo la parola ma siamo destinati ad aprire spazi di parola agli altri. Se uno fa il mediatore culturale, questo fa: apre spazi di parola e di ascolto, e allora ecco che la musica, i racconti, le storie, arrivano, e non li ferma più nessuno.

 

*

Barbara Dane, “I’m on my way”

*

[apparso, con il titolo “Musica e movimento negli Stati Uniti – una lezione finale”, su http://alessandroportelli.blogspot.it/, il 22 Novembre 2012]

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renata morresi
Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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