Libri italiani nel mondo – L’immaginaria patria degli edonisti infelici
di Cristiano de Majo
Sul Corriere della Sera dell’8 ottobre, un articolo di Ranieri Polese, riportando dati e chiacchiere con agenti letterari ed esperti del settore alla vigilia della Buchmesse, attestava una sorta di spread alla rovescia – di dimensioni molto più ridotte in realtà – nel rapporto tra autori italiani di narrativa tradotti in Germania e autori tedeschi di narrativa tradotti in Italia. Le ragioni di questo successo del, direbbe Montezemolo, romanzo made in Italy sono, a sentire gli intervistati: “l’elemento folklorico, pasta, un bel paesaggio, un intreccio giallo, magari un thriller fra i vigneti del Chianti con un ispettore simpatico e un morto con un coltello nella schiena”, oppure “un immaginario arcaico femminile, la Sardegna. Per un po’ di anni anche mafia camorra e ‘ndrangheta hanno funzionato bene”. Insomma un grande amore per le storie che non tradiscono l’immagine del Belpaese vagheggiata dai nordeuropei (una mescola di tradizioni, crudeltà, passione e gioia di vivere), anche se, in verità, in questi anni l’editoria tedesca, come quella francese, non è stata del tutto disattenta alla nostra letteratura cosiddetta di ricerca.
È ancora più difficile farsi un’idea di quali siano le logiche che guidano la pubblicazione di romanzi italiani in lingua inglese, un mercato storicamente poco attento alla narrativa straniera, e forse per abbondanza di prodotto interno oltre che di sciovinismo letterario. Su Amazon.com si trovano edizioni in inglese di Piperno, Ammaniti, Veronesi, Avallone, Giordano; c’è una notevole invasione di crime novel nella patria del crime novel (Camilleri, Carofiglio, Carlotto); ma sono anche annunciate per il 2013 di due romanzi complessi, non proprio dei best-seller, Storia della mia purezza (Pacifico) e Il tempo materiale (Vasta); mentre sono del tutto assenti i nomi considerati più alti e influenti della nostra letteratura contemporanea: Siti, Moresco, Nove, Trevi; Tommaso Pincio che, forse superficialmente, potrebbe sembrare lo scrittore più in sintonia con quell’immaginario, è presente, e per motivi credo più musicali che letterari, con Un amore dell’altro mondo e basta. Se ne potrebbe trarre la conclusione che la forma romanzo compiuta abbia maggiori garanzie di riscuotere attenzione e che lo sperimentalismo sia visto con diffidenza, con le eccezioni di Pacifico e Vasta, che però scrivono di due temi molto sentiti in America: il problema dell’identità religiosa e il terrorismo.
Un altro dato interessante viene dal Premio Alassio 100 libri, che ogni anno incorona un “libro per l’Europa” a opera di una giuria composta da italianisti stranieri. Vincitrice di quest’anno Valeria Parrella, che segue Michela Murgia, Margaret Mazzantini. Tutte a vario titolo rappresentanti di una letteratura che verrebbe da definire normale.
Qualche giorno fa mi è capitato di leggere sulla Los Angeles Review of Books un lungo articolo su una edizione bilingue dei Canti di Leopardi curata da Jonathan Galassi, celebrato traduttore di Montale, oltre che poeta e presidente di Farrar, Strauss & Giroux. Alan Williamson, l’autore della recensione, si soffermava sulla difficoltà di tradurre Leopardi, citando Calvino – “oltre i confini dell’Italia, Leopardi non esiste” – e, attraverso qualche esempio, riconosceva a Galassi la buona riuscita in un’impresa così difficile. La parte finale del pezzo era dedicata, invece, a un ragionamento interessante sull’immagine degli italiani. Per quale ragione, si chiedeva l’autore, gli italiani, percepiti da nordeuropei e americani come un popolo caldo, amichevole ed edonista, hanno nel loro pantheon letterario scrittori cupi come Leopardi, Montale, Pavese?
Le risposte che ipotizzava Williamson non convincono del tutto: un passato troppo più glorioso del presente (pessimismo storico); condizioni di vita estremamente dure fino al Ventesimo secolo. Ci vorrebbe forse una maggiore conoscenza dell’identità italiana e della sua letteratura per concludere che la profonda cupezza di cui parla Williamson è un elemento tuttora presente nei nostri venerabili maestri letterari, e anche una caratteristica rimossa nella nostra autorappresentazione. In quanto a cupezza, proviamo a tracciare una linea che unisca i puntini Leopardi e Pavese, appunto, fino a Pasolini e Moresco… Se è vero che la nazione italiana è una costruzione letteraria prima che geografica (Carducci, Volponi) – tema tra l’altro approfondito ne L’Italia letteraria di Stefano Jossa, uscito qualche anno fa per Il Mulino – bisognerebbe forse abbandonarsi alla letteratura per scoprire qualcosa di più su noi stessi; la cupezza dei nostri classici potrebbe indicare che il modo in cui amiamo rappresentarci e odiamo essere rappresentati sia una falsa pista, che sole pizza e mandolino siano specchietti per le allodole per dissimulare un antropologico mal di vivere.
Nelle Lezione americane Italo Calvino dà una definizione magnifica di Leopardi dipingendolo come un “edonista infelice”. Ed è bizzarro come questa stessa definizione si possa applicare a molti prototipi di arci-italiano, veri o solo scritti, dai personaggi di Alberto Sordi a Silvio Berlusconi. Leopardi, a ben vedere, non sarebbe come vuole il luogo comune, il mostro, l’alterità, l’anticorpo, ma l’incarnazione di un elemento ben presente nel nostro DNA. La cupezza è in noi e nel nostro spirito, sotto la maschera di Pulcinella.
[Questo articolo è stato pubblicato su Orwell]
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“Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell’aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell’alma generoso ed alto,
Non chiama se nè stima
Ricco d’or nè gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma se di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando. apertamente. e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest’orbe, promettendo in terra
A popoli che un’onda
Di mar commosso, un fiato
D’aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s’ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte”
Giacomo Leopardi
un articolo bellissimo, che abisso che c’è fra de majo e i suoi colleghi di orwell.
Un articolo molto denso e ricco di spunti di riflessione sul rapporto tra rappresentarsi e autorappresentarsi, percepirsi ed essere percepiti, vedersi percepire e accettare i modi in cui si è percepiti. Il groviglio degli stereotipi! Ogni identità culturale (si basi sulla lingua, sulla letteratura, sull’arte, sulla cultura popolare, sulla politica, etc.) proprio perché si appella a un concetto di identità – è sempre parziale. Così come parziali (tra loro differenti, intendo) sono i soggetti che percepiscono la cultura italiana: a uno piacciono gli spaghetti all’altro gli omicidi, a questa il paesaggio e all’altra la saggistica storica, etc etc.
Ma vorrei chiedere a de Majo (sempre che gli arrivi la domanda) se davvero crede che le note di cupezza dei letterari italiani (ma ne abbiamo anche di realmente tragici, apocalittici e al contrario di genuini sbarazzini e addirittura comici) siano un carattere così nascosto agli italiani stessi. Non so se possa rientrare il fatto che così pochi si dicano felici o almeno soddisfatti o appena sereni.
Ma forse non ho capito qualcosa della sua posizione.
caro effe esse, la risposta al tuo quesito è tutta qui:
“Mettiamoci forza, energia, e mettiamoci anche un po’ di allegria che è un tratto del nostro popolo.” (pierluigi bersani, ieri).
personalmente non ho mai sentito parlare dello stereotipo dell’italiano triste o cupo.
chissà cosa direbbero di noi gli americani se potessero leggere Morselli. anche se Morselli il noi lo ha dissipato fino alla radice.
(Morselli chi? – disse Calvino, e non solo Calvino)