L’anomalia Ponge
Parrebbe che nella ricezione della poesia straniera gli automatismi intellettuali, le limitatezze di corporazione, le miopie critico-teoriche si palesino ingigantite e facciano “sintomo”. Per questo vale la pena decifrare questo particolare sintomo: l’assenza o l’estrema scarsità di Francis Ponge, nell’editoria italiana. Sì, perché è ben strano che un autore morto alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, la cui intera opera è stata raccolta in due volumi nella Pléiade, tra 1999 e 2002, non conosca ad oggi un’ampia traduzione nella nostra lingua. Quando appare, la traduzione di un poeta ha come premessa il variegato interesse che la sua opera ha suscitato presso altri poeti, specialisti della letteratura in questione, critici militanti. Per conseguenza, la mancata traduzione indica un vasto fronte di disinteresse. Ed è senza dubbio il destino di Ponge, in Italia.
Henri Michaux, ad esempio, belga naturalizzato francese, anche lui nato come Ponge nel 1899, comincerà ad essere tradotto nel corso degli anni Sessanta, e grosso modo conoscerà un’attenzione costante, dimostrata anche recentemente dalla casa editrice Quodlibet che ha proposto la traduzione di diversi libri ancora inediti in Italia. Nel caso di Ponge, bisogna attendere una prima traduzione in volume nel 1971. Ironia della sorte, ne è responsabile uno dei capofila dell’ermetismo fiorentino, Piero Bigongiari, che dimostra, da buon conoscitore della letteratura d’oltralpe, di apprezzare un’opera ormai imprescindibile nel panorama della poesia francese, nonostante sia molto lontana dalla sua sensibilità di autore. La traduzione successiva, a firma di Jacqueline Risset, appare solamente otto anni dopo. E mentre in Francia, a partire dagli anni Ottanta, l’interesse anche accademico per l’opera di Ponge cresce in maniera costante, producendo un numero sempre maggiore di studi critici, convegni e monografie, in Italia non accade più nulla di significativo, se si eccettua l’uscita di due volumetti tradotti dallo scrittore Daniele Gorret per la piccola casa editrice l’Obliquo: Testo sull’elettricità (1997) e Il sole in abisso (2003).
Il misconoscimento di Ponge sembra andare di pari passo con l’entusiasmo per Yves Bonnefoy, intronizzato nel 2010 nei Meridiani. Non è qui in discussione la considerazione che l’opera di Bonnefoy riscuote in Francia, ma da noi essa acquista l’ulteriore vantaggio di confortare una certa idea di poesia, come antitesi del pensiero concettuale, aspirazione alla pienezza e all’unità dell’essere, culto della bellezza. Bonnefoy, insomma, grazie al suo talento e alla sua fama, permette di perpetrare la fede in una poesia dai confini ben riconoscibili: la poesia come altro sia dal linguaggio ordinario che dal linguaggio scientifico. In quest’ottica, non si può negare che un autore come Ponge risulti particolarmente indigesto. (Lo è ovviamente già in Francia, prima ancora di esserlo per noi.) Ponge pretende, infatti, di dismettere il titolo di “poeta” e, simultaneamente, il genere “poesia”. Non si tratta di un vezzo né di una provocazione, ma dell’inevitabile conseguenza di una pratica di scrittura, ancora prima che di un partito preso teorico: egli si sente più familiare con l’universo della ricerca scientifica che con quello della meditazione metafisica o della trasfigurazione poetica. Più che all’opera, come traguardo di compiutezza formale, è interessato al processo di elaborazione di una forma. In esso, infatti, si manifesta appieno la postura ad un tempo positiva e scettica del ricercatore, che avanza per tentennamenti e prese parziali.
Ponge ha portato alle estreme conseguenze due principi del modernismo nelle arti e nella letteratura: l’idea della convenzionalità dei generi e l’attenzione per i mezzi espressivi specifici di ogni forma d’arte. La convenzionalità delle forme poetiche non è da lui semplicemente sovvertita, ma abbandonata come obsoleta e inadeguata, a fronte di un lavoro costante di messa in forma imperativamente governato dall’oggetto che si tratta di evocare: “ogni oggetto deve imporre alla composizione poetica una forma retorica particolare”[1]. Questa tensione verso la materialità e l’oggettività del mondo rende Ponge estraneo ai giocolieri della forma, quali i seguaci dell’Oulipo o i neometrici di ascendenza avanguardista. D’altro canto, l’attenzione per il linguaggio non si limita a considerare la dimensione materiale delle parole, il loro funzionamento autonomo nella realtà del discorso scritto (autonomia del significante), ma accoglie di esse anche l’eredità storica ed etimologica. Tra la sensibilità individuale del poeta e l’idioletto a cui tende la sua espressione, s’inserisce un complesso dispositivo, in cui entrano a far parte come sue estensioni anche l’enciclopedia, i dizionari (il Littré), i trattati scientifici, oltreché certa letteratura, preferibilmente latina, ossia pre-cristiana (Lucrezio e Tacito). Anche il linguaggio, quindi, è percepito nella sua oggettività, come prodotto di sedimentazioni successive, in cui si esprime il genio collettivo delle civiltà. E se lo scrittore lotta contro il linguaggio ereditato, lo fa non in nome di una mitica interiorità individuale, che il parlare comune condannerebbe all’inespresso, ma in nome dell’“insurrezione delle cose contro le immagini che imponiamo loro”.[2]
Ciò che rende Ponge tanto anomalo nel catalogo dei poeti novecenteschi, è in definitiva questo partito preso non solo ateo e materialista, ma propriamente anti-cristiano, che lo spinge a spogliare l’umanità di ogni privilegio all’interno dell’universo naturale. (“L’uomo non è il re della creazione. No, per niente. Piuttosto il suo persecutore. Persecutore perseguitato.”[3]) Di qui il suo disinteresse per la “rappresentazione letteraria” delle vicende umane, di cui già esistono nutritissime biblioteche, e l’enorme sforzo, invece, per esprimere le qualità particolari dei singoli oggetti, a partire dai più futili e ordinari. L’oggetto, quindi, non è il mero supporto, l’occasione per rivelare la sublime e insondabile soggettività del poeta. Il soggetto, e il suo linguaggio, fungono piuttosto da cassa di risonanza dell’oggetto, colto nella sua estraneità originaria.
Bisognerebbe misurare, poi, la portata anche politica, di tale strategia di Ponge, che opera simultaneamente diversi spostamenti: spostamento dal paradigma formale e lirico della poesia, verso una forma di ricerca in continuità con l’impresa scientifica; spostamento, d’altra parte, nei confronti della scienza, in quanto per Ponge la ricerca della definizione-descrizione degli oggetti implica l’accettazione della dimensione corporea ed “erotica” del ricercatore, che non si pone quindi nella postura spassionata e neutrale dello scienziato tradizionale; spostamento, infine, rispetto a qualsiasi residua gerarchia dei soggetti della rappresentazione letteraria: dal sapone al bicchier d’acqua, dal fico secco al geranio. Ciò che esige di essere tratto dal silenzio e dall’insignificanza, è appunto tutto quanto la nostra assuefazione allo spettacolo considera banale e irrilevante, proprio perché cade ogni giorno sotto i nostri sensi.
[1] Francis Ponge, Méthodes, Gallimard, 1961, p. 37.
[2] Ivi, p. 304.
[3] Ivi, p. 202.
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[Per il numero 24 di “alfabeta2” ho curato un piccolo dossier sulla poesia francese contemporanea che include un’intervista a Henri Deluy sulla vicenda di “Action Poétique”, gli articoli di Eric Suchère e Luigi Magno, un’altra intervista a Julien Blaine, e una prima traduzione italiana di “Nioque de l’avant-printemps” realizzata da Michele Zaffarano.]
per esempio
L’huître
L’huître, de la grosseur d’un galet moyen, est d’une apparence plus rugueuse, d’une couleur moins unie, brillamment blanchâtre. C’est un monde opiniâtrement clos. Pourtant on peut l’ouvrir : il faut alors la tenir au creux d’un torchon, se servir d’un couteau ébréché et peu franc, s’y reprendre à plusieurs fois. Les doigts curieux s’y coupent, s’y cassent les ongles : c’est un travail grossier. Les coups qu’on lui porte marquent son enveloppe de ronds blancs, d’une sorte de halos.
A l’intérieur l’on trouve tout un monde, à boire et à manger : sous un firmament (à proprement parler) de nacre, les cieux d’en dessus s’affaissent sur les cieux d’en dessous, pour ne plus former qu’une mare, un sachet visqueux et verdâtre, qui flue et reflue à l’odeur et à la vue, frangé d’une dentelle noirâtre sur les bords.
Parfois très rare une formule perle à leur gosier de nacre, d’où l’on trouve aussitôt à s’orner.
F. Ponge, Le Parti pris des choses, 1942
Una volta detto che il confronto tra Ponge e Bonnefoy è davvero illuminante – grazie! – mi pare che oltre agli automatismi intellettuali, alle limitatezze di corporazione, alle miopie critico-teoriche vadano aggiunte ben più evidenti miopie (e impossibilità) editoriali. La ricezione della poesia straniera in Italia mi pare infatti vicina allo zero, se si accosta a quelle che sono le politiche di traduzione: se da una parte le cosiddette “grandi case editrici” (ma esisteranno ancora?) scelgono una rosa stringatissima di nomi, che da Bonnefoy va a Szymborska, stop, d’altra parte chi ha la capacità di portare avanti discorsi diversi porta avanti scelte che hanno il pregio di essere militanti (come nel caso di Ponge), ma che hanno il difetto – spesso – di riproporre in diversa lingua gli stessi schemi interpretativi adottati nel caso della tradizione italiana, aumentandone il provincialismo anziché diminuirlo. Non c’è, nè allo stato delle cose ci può materialmente essere, una visione articolata e completa (che potrebbe essere comunque fortemente militante). E credo che una ragione per questa desolazione critica e editoriale stia anche nell’abdicazione totale dell’accademia verso tutta la poesia straniera contemporanea, o anche solo della seconda metà del 900.
Perdonate ma (a parte il caso Szymborska, caso unico di successo editoriale in poesia (sarà il nobel sarà che era “facile”) non vedo questo grande entusiasmo per Bonnefoy preferito a Ponge. Preferito da chi? Temo che non serva metterli l’uno contro l’altro, nel frattempo anche Bonnefoy è scomparso dalla distribuzione
Io vedo che finalmente si è avuta a disposizione l’opera completa di un poeta che era per lo più misconosciuto dai lettori italiani se non fosse stato per i libri legati all’arte…
dall’altra parte ci sono invece solo due bellissimi libricini, di cui uno introvabile, lo stato di quasi tutta la poesia straniera.
A dare una occhiata ai miseri scaffali di poesia delle librerie italiane, anche le maggiori, viene da piangere: poesie dell’obbligo scolastico e un po’ di Neruda Hikmet per gli adolescenti innamorati che non leggono Moccia
Il resto, chi lo conosce?
E perchè mentre tutti cantano in inglese se propongo agli amici la lettura di un poeta straniero mi dicono: – Ah, no! la poesia in traduzione non si può leggere… Globe trotter estivi che svengono alla vista di un testo a fronte!
Raramente darei la colpa alla scuola (sorella insegnante) ma stavolta un po’ sì, eh..
Nel frattempo, magari, qualche editore potrebbe provare a ripubblicare “Vita del testo”: l’antologia pubblicata nel 1971 nello “Specchio” Mondadori – con traduzioni di Bigongiari, Ungaretti, Risset, Erba.
A Lorenzo Mari,
sono d’accordo sull’abdicazione accademica nei confronti della poesia straniera contemporanea. Non mi è facile capire fino in fondo perché. Ma è evidente che occuparsi di poesia contemporanea, anche all’interno dell’ambito universitario, risulti rischioso. Analizzare testi poetici è particolarmente difficile, e più difficile, in ogni caso, che analizzare testi narrativi. Di conseguenza, costruirsi una cartografia poetica non è facile: il margine di errore diventa maggiore che nei casi di cartografia romanzesca. Di conseguenza, molti studiosi rinunciano a considerare la poesia. Lo vedo nel caso che conosco un po’ meglio: l’ambito della francesistica. Sono pochi e rari gli studiosi che si avventurano sul territorio della poesia contemporanea francese. E anche del secondo novecento si tende a ripresentare ciò che è già ampiamente conosciuto in Italia.
I critici universitari potrebbero avvantaggiarsi, però, della critica militante, capace di prendere quei rischi che essi non prendono, in parte comprensibilmente. Ma non sembrano esistere dialoghi tra critica universitaria e militante. Il fronte è frammentato. Di qui anche il disinteresse della case editrici, che non sono sollecitate da progetti nati e radicati al di fuori di esse.
Il risultato peggiore è poi quello che tu indichi: mancando un quadro più ampio, una visione più articolata della poesia straniera, si finisce allora per andare in ordine sparso, ognuno alla ricerca di verifiche della propria idea di poetica. Invece di tradurre l’altro, si replica lo stesso. Un provincialismo ammantato di sguardo lungimirante.
Poi ci sono casi e filoni fortunati: la serie di antologie mondadoriane della poesia statunitense, curate da Ballerini e Vangelisti. Ci sono stati ottimi titoli nella collana “arte poetica” di Sossella. Detto questo, Ponge rimane un ingiustificabile buco.
A Giulio Mozzi,
perché Mondadori ripubblichi “Vita del testo” e Einaudi “Il partito preso delle cose”, ci vorrebbe qualcuno di sufficientemente autorevole (ai loro occhi) che spiegasse ai direttori di collana l’importanza di quei testi. Dubito che queste persone ci siano. O meglio ci sono, ma non sono quelle ai loro occhi autorevoli. E quindi: continuare con Bonnefoy e Jaccottet…
Grazie per questo illuminante saggio. Su Ponge (in relazione all’umorismo) ho letto qualcosa di veramente illuminante in Semiotica della poesia di Riffaterre (un accademico che certo non mancava di coraggio e rigore), e per me e’ stata una lettura entusiasmante. Aggiungo che Sereni, nelle sue Letture preliminari, parla di Ponge. E’ un peccato pero’ che – a quanto ne so – dalla sua posizione di manager editoriale della Mondadori non sia riuscito a farlo tradurre in Italia. I lungimiranti ci sono, ma non hanno scalfito la nostra spessa nebbia.
“Più che all’opera, come traguardo di compiutezza formale, è interessato al processo di elaborazione di una forma.”
Passaggio che sintetizza tutto, direi. Quando ho scoperto Ponge, è stato per me più che illuminante, forse il solo autore che esprimesse un certo modo di lavorare per come lo cercavo di intendere prima ancora di leggerlo. E spero presto di avere un’edizione più possibile completa e riedita in italiano, anche se, dati i presupposti già qui sopracitati, la vedo dura.
Grazie,
Bux, A.
Chez le pin, il y a une abolition de ses expansions successives (chez le pin des bois spécialement), qui corrige heureusement, qui annule la malédiction habituelle aux végétaux: devoir vivre éternellement avec le pois de tous ses gestes depuis l’enfance. – A cet arbre plus qu’à d’autres il est permis de se séparer de ses développements anciens. Il a une permission d’oublie. Il est vrai que les développements suivants ressemblent beaucoup aux anciens caducs. Mais qu’à cela ne tienne. La joie est d’abolir et de recommencer. Et puis c’est toujours plus haut que cela se passe. Il semble qu’on ait gagné quelque chose.
Francis Ponge, La rage de l’expression, 1952
“Più che all’opera, come traguardo di compiutezza formale, è interessato al processo di elaborazione di una forma.” (Inglese)
In effetti, “illuminante”. Ricorda un po’, come dire, una famosa sentenza di Giulio Carlo Argano su Klee e Leonardo Da Vinci:
“nella loro riflessione non hanno di mira l’oggetto dell’arte ma piuttosto il modo del suo prodursi, non la forma, ma la formazione come processo”
(Giulio Carlo Argan prefazione a Paul Klee, Teoria della forma e della figurazione, Feltrinelli, pag. X).
ave,
Lorenzo
Qualche anno fa, Andrea, Antonio Riccardi mi disse che pensava di riprendere “Vita del testo” negli Oscar. Ma chi s’è visto s’è visto.
“Vita del testo” negli Oscar, ecco un’operazione benefica da più punti di vista, economica e sicura per Mondadori, d’intelligenza editoriale, e di attualità culturale… troppo benefica probabilmente…