Domani comincia “Reti” al Palladium, Roma
volentieri pubblico, per la cortesia di Canio Loguercio, la presentazione di Luigi Cinque dell’evento Reti, Roma – Palladium, 27-28-29 novembre 2012 e un contributo di Ruggero Pierantoni.
Le ragioni di un Festival.
RETI: incontri straordinari di Musica, Scienza e Poesia
Se l’universo, si riflette, come un grande pensiero e non solamente come puro meccanismo, a ragione si deve approdare ad un neoumanesimo che lo riconsideri e veda la conoscenza come una identità di nuovo multiforme e sempre di confine. Ed è proprio al confine che RETI fest, guarda e lo fa, (non è il solo, sia chiaro!) in funzione di una nuova drammaturgia delle arti la quale, oggi, non può nemmeno delinearsi senza il contributo paradossale, onirico e sovversivo che certa scienza contemporanea riesce a esprimere. Tre giorni di incontri straordinari dunque tra musica arte scienza e poesia. Tre giorni di cammino sul limite, che poi è la scoperta dell’altro, del corpo dell’altro, della successiva stazione, della prossima arte, della scienza come matematica e poesia, dell’ identità selvaggia tra significato ( della parola ) e significante ( del suono/musica ), del pensiero magico, della poesia come ritorno alla parola necessaria, formante pensiero, da cui tutto deriva.
Limiti, confini, oggi, oltretutto, in continua espansione tra le nuove semantiche del linguaggio verbale e internetico, le ibridazioni dell’arte visiva, la comunicazione digitale di massa e le ragioni della fisica quantistica che, almeno nell’estremamente piccolo, contraddicono e umiliano buona parte delle filosofie dominanti dal settecento ad oggi. E, aggiungerei, la sempre maggiore consapevolezza e conoscenza che abbiamo della sala macchine, del cervello. Le neuroscienze sono la condizione decisiva per uscire dalla modernità ed entrare in una sorta di futuro/passato, e RETI, qui grazie davvero alla consulenza di Viviana Kasam e dei suoi amici scienziati, dedicherà molta della scena al cervello in relazione alle arti e dunque al profilo, oggi fondamentale, della neuroestetica.
RETI è : la parola ( poetica ) e le altre arti che si misurano con la scienza mentre quest’ultima, nella sua parte migliore, ci racconta come viene ibridata, e si fa poesia, si fa filosofia, o risuona sulla stessa frequenza della musica e, talora, del grande – pure! – pensiero mistico. RETI, senza dimenticare il relativismo culturale delle discipline antropologiche del 900, rivendica, oggi, un’identità di confine per le Arti. Ma, va detto, non si tratta più di contaminazione. Oggi che siamo tutti contaminati, è la coniugazione che conta e le sintesi che ne possono derivare , non le declinazioni dell’identità.
RETI, Festival, numero zero, è dunque dedicato alla Drammaturgia ( intesa appunto come coniugazione, incontro ) delle Arti. E saranno incontri straordinari: perché i curatori, gli artisti, gli scienziati e i poeti di scena in RETI 2012 sono qualcosa di più di semplici portatori dei loro relativi ( sia pure alti ) “intrattenimenti” : sono tutti, irredimibilmente, dei viaggiatori della forma.
RETI 2012 è: Balanescu Quartet, Valerio Magrelli, Gregorio Botta, l’Opera Quartet, Andrea Riccardi, Pippo Delbono, Canio Loguercio, Ruggero Pierantoni, Alessandro D’Ausilio, Luisa Lopez, Marcello Sambati, Luigi Cinque, Giuseppe Vitiello, Osvaldo Ticini, Viviana Kasam, Marco Maria Gazzano, Carlo Infante, Gabriele Fedrigo, , Luca Francesco Ticini, Mario Sesti, Michele Cinque, Matteo Cerami, Maria Grazia Calandrone, Patrizio Fariselli, Sal Bonafede e molti molti altri.
Luigi Cinque
Inizi e fini
Etienne Jules Marey non era contento, le sue immagini fotografiche erano “laboriose e mediocri.” Quell’addensarsi di corpi, di arti, di ali, attorno all’ostacolo da superare lo considerava un “difetto”: lui li voleva “equidistanti”. Le immagini non apparivano uniche, perfette,”equidistanti”, come quelle di Muybridge: eterne. Esse sentivano l’evento, il suo avvicinarsi, il suo svanire e si addensavano, sfumando, una nell’altra. Perché, sia inizio che fine, non stanno, lì, fermi ad aspettare. Sembra, quasi, che un infittirsi di eventi, di urti determini un inizio e un loro improvviso disaggregarsi, una fine. E’ per questo che la transizione, alcune volte, è impercettibile, tanto da apparire all’ultimo momento, invisibile sino a pochi millesimi di secondo prima. La cavalla Frou Frou, amatissima da Vrònsky, sa già di dover morire prima ancora che l’uomo se ne renda conto perché percepisce una sottile asincronia tra il suo corpo e quello dell’uomo.
L’intervallo che separa, nel linguaggio comune, un inizio da una fine è segnabile, forse, come fa Pollicino, con il ciottolo, mezzo bianco, mezzo nero : sincronia. Un modello sociale assai semplice di questo concetto sono gli eventi sportivi che, almeno a livello di spettacolo pubblico, iniziano e terminano, in genere, in uno spazio che resta, nel frattempo, lo stesso. Non è un caso che, come ci ricorda Pindaro, le statue degli atleti avessero statura umana. La loro “disponibilità erotica” era parte del loro messaggio, li costringeva a mostrarli toccabili, adorabili, desiderabili. La loro omogenea grandezza li rendeva utilizzabili nella figurazione interna del desiderio e quindi della condivisione , anche se breve della sintonia, della “equidistanza” temporale con noi. E, il modello sociale più alto è certo quella forma sublime di atletismo che è la musica la cui vita breve e pericolosa si affida a pochi respiri di sincronia. E’ proprio questo il modello che mostra, con la più grande generosità, l’addensarsi degli eventi che precedono, spesso di centinaia di anni, la prima nota e che, spesso, dopo centinaia di anni, ne spengono l’ultima. Meno ovvia, sfuggente, appare la magia sincronizzante e, quindi gli orizzonti temporali degli inizi e delle fini, nelle percezioni e nel commercio con le strutture architettoniche. Certamente, la “porta”è un inevitabile elemento di sincronizzazione spaziale e non è un caso che, proprio al suo livello, sia nell’entrare che nell’uscire, gli accavallamenti, il toccarsi, lo spingersi, il muoversi tutti assieme e tutti con lo stesso vettore, creino le condizioni temporali degli inizi e delle fini. Ma è la vera e propria forma a dettare le sue leggi sincroniche. Chiunque abbia passato almeno un’ora nel Pantheon la cui forma, apparentemente priva di asse dominante, abbandona il suo visitatore ad un confuso vagare che assomiglia forse più all’organizzarsi dei liquidi in prossimità del foro di uscita e , almeno, finisce per inventare l’insorgere “spontaneo” del gorgo iperbolico. In tutto identico a quello, costruito e dissolto nell’aria dai milioni di pipistrelli ad ogni alba e ad ogni tramonto da milioni di anni attorno alla bocca della “ Bat Cave”, in Stati Uniti. La provvidenziale continua asincronia del nostro cervello ci informa, senza alcuna discrezione o gentilezza, che abbiamo ancora, davanti o dietro alcune fini, alcuni inizi su cui, un altro astuto meccanismo ci impedisce di concentrarci . In ogni caso, ci dicono, è il caso si seguire il buon consiglio di Frank Herbert che, proprio all’inizio di “ DUNE” scriveva : Un inizio è il tempo in cui occorre prendere massima cura dei più delicati equilibri”.
Ruggero Pierantoni