Possiamo sbarazzarci dei classici italiani?
di Matteo Di Gesù
«Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire». Ogni tanto accade l’incresciosa evenienza per cui la citazione di circostanza, che dovrebbe ratificare una tesi, serva piuttosto a negarne i presupposti, ribaltandola e rivelando la fondatezza del suo contrario. Probabilmente la celebre sentenza calviniana, che, come un meccanismo a molla, scatta inesorabile a suffragio di qualche ciarla mondana sull’irrinunciabile necessità di leggere (di rileggere, ci mancherebbe) i classici, rientra in questa casistica. È possibile, insomma, che invece i classici, specie quelli italiani, abbiano finito di dire quello che avevano da dire, quantomeno per ora.
Sembrerebbero perpetuarsi, a dispetto dei tempi e dei costumi, e le notizie editoriali parrebbero confermarlo: una sontuosa raccolta Utet fresca di stampa, curata magistralmente da Carlo Ossola, Letteratura italiana. Canone dei classici, per la libreria del salotto; una collana Bur di classici italiani, edita in collaborazione con l’Associazione degli Italianisti, con nuovi commenti e apparati aggiornati, per lo zainetto. Libri che però permangono sullo scaffale come un complemento d’arredamento o durano in borsa il tempo di preparare l’esame di Letteratura italiana I. Sarebbe pure un fenomeno collaterale, nel lento collasso della nazione, ma resta il fatto che la nazione stessa abbia contratto con la propria tradizione letteraria un debito fondativo: se l’Italia è «un’invenzione letteraria», la marginalizzazione della sua letteratura dovrebbe riguardare una cerchia più estesa degli ultimi clienti della rateale Einaudi.
L’ultima apertura al pubblico del Sacrario della Letteratura Nazionale, in occasione del Centocinquantenario, d’altro canto, ha avuto i caratteri di una cerimonia memoriale funebre, piuttosto che quelli di una riscoperta vivificante. Questa voga monumentalizzante (proprio nel senso di pietrificare e rendere inerte qualcosa di mobile e accessibile), tipically italian, sembrerebbe rimandare a una delle cause storiche di questo processo, ovvero alla micidiale attitudine accademica di museificare i testi della tradizione, rendendoli inaccessibili direttamente e contemplandone soltanto una ricezione parcellizzata e mediata dall’autorità preposta, quella del professore sciamano, il solo in grado di divinare il testo e di restituirlo alle plebi incolte. Si tratta di un discorso del sapere le cui dinamiche di potere sono evidenti e non richiedono supplementi di indagine in questa sede.
Tuttavia, per una volta, non è il caso di prendersela con l’accademia (se non magari per deprecare la sciatteria deprimente della routine universitaria, speculare, e analoga negli esiti mortiferi, al culto per gli iniziati): troppo facile, specie di questi tempi. Anzi, a dirla tutta, molte delle interpretazioni meno conformiste e più innovative delle opere canoniche italiane le hanno elaborate proprio corrucciati professori universitari, confezionandole in robusti e minacciosi saggi accademici: possiamo pure trovare intrigante la lettura degli Appunti queer sui Promessi sposi, recentemente pubblicati, col titolo Aria di braveria, da Tommaso Giartosio su «Le parole e le cose», giusto per fare un esempio; ma andrà ricordato che a restituirci un Manzoni assai diverso da quello compitato svogliatamente al liceo avevano già provveduto tempo Ezio Raimondi e Salvatore Silvano Nigro, tanto per dire. O si pensi ancora a una recentissima Introduzione alla Divina Commedia, sempre di Ossola, che si legge come una passeggiata attraverso dieci secoli di letteratura occidentale. Come aria nuova circola finalmente in alcuni manuali di italianistica (la collana diretta da Battistini per Il Mulino, per dire). E non vale neppure avviare la solita tirata sulla scuola che ammazza la lettura: per quanti professori di lettere necrotici e necrofori affollino le aule cimiteriali italiane (scrivendo magari nel tempo libero appassionati pamphlet contro lo stolido studio della poesia in classe), ce ne sono altrettanti che spacciano Leopardi originali, senza tagliarli con l’anfetamina del cazzeggio paratelevisivo, con grande competenza e qualche successo didattico.
Ecco, a proposito di televisione et similia, ci sarebbe da chiedersi, semmai, se quell’antico, esiziale, ruolo del professore-sacerdote non sia stato devoluto, mutandosi in una versione pop ma conservandone inalterate le logiche di trasmissione escludenti e autoritarie, ancorché occulte, agli intrattenitori da festival letterari e letture di massa. Se, in altre parole, a dispetto della qualità degli show letterari e delle ottime intenzioni delle operazioni di divulgazione spettacolare, il pubblico-lettore non preferisca delegare il Benigni di turno a leggere e a comprendere al posto suo, come faceva un tempo con l’austero docente.
Poi ci sarebbe la questione della lingua (in Italia c’è sempre aperta una “questione della lingua”): ogni tanto qualcuno tira fuori questa storia della necessità di tradurre le opere del canone italiano, per agevolare gli italofoni del ventunesimo secolo: un pretesto per piallare la prosa di Machiavelli e Alfieri, fino a farla aderire a quella del Bruno Vespa saggista. Finalmente, spezzato il giogo dei tiranni parrucconi, il Carofiglio di turno non dovrà più imitare Petrarca: sarà semmai questo che dovrà adeguarsi a quello (un discorso diverso andrebbe fatto per il Busi “traduttore” di Boccaccio e Ruzante, nonché per le imperdibili Novelle stralunate dopo Boccaccio, curate per Quodlibet da Elisabetta Menetti e riscritte, tra gli altri, da Celati e Cavazzoni).
E se, interpellati da «Nuovi argomenti» a proposito del loro sentimento identitario nazionale, gli scrittori italiani sentenziano che la loro patria è solo la lingua, nondimeno i classici italiani non dicono più nulla alla gran parte di loro, specie agli autori dell’ultima generazione, che ne ignorano proprio la lingua, oltre che storia e tradizione. È bastato un ventennio di bulimia contemporaneistica e di sovradosaggi di best seller anglosassoni per far dimenticare, tra le altre cose, che proprio il nostro Novecento è una ininterrotta rivisitazione del canone nazionale. Calvino lo sapeva bene, ma ormai nemmeno lui lo si legge più: è un classico.
[Questo articolo è stato pubblicato su Orwell]
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Da almeno tre decenni in Francia editano classici della letterarura francese in una lingua “ringiovanita” e con ampi tagli per renderli di più agevole e rapida lettura.
Questo non li ha resi più familiari o più vicini ai lettori ma certo ha reso più facile cavarne fuori citazioni da esibire come fumo negli occhi nelle conversazioni. Teniamoci i nostri classici così come sono. Banalmente: un bel repulisti tra i manuali dei licei, un po’ di idee nuove, un occhio più “moderno” per fare il racconto della nostra storia letteraria.
non precipitiamo(anzi si:
“Il 71% della popolazione si trova al di sotto del livello minimo di lettura e comprensione di un testo scritto in italiano di media difficoltà: il 5% non è neppure in grado di decifrare lettere e cifre, un altro 33% sa leggere, ma riesce a decifrare solo testi di primo livello su una scala di cinque ed è a forte rischio di regressione nell’analfabetismo, un ulteriore 33% si ferma a testi di secondo livello. Non più del 20% possiede le competenze minime per orientarsi e risolvere, attraverso l’uso appropriato della lingua italiana, situazioni complesse e problemi della vita sociale quotidiana. Ce lo dicono due recenti studi internazionali, ma qui da noi nessuno sembra voler sentire”.
Tullio de Mauro )
http://vimeo.com/24491206
eppure certi “sciamani” che intendo io, potrebbero trasmettere un certo fascino e coinvolgimento ad una classe annoiata
Matteo, sei proprio sicuro che esista qualcuno che vuole “piallare la prosa di Machiavelli e Alfieri, fino a farla aderire a quella del Bruno Vespa saggista”?
Penso per esempio a un’edizione tascabile del Principe, assai diffusa, con discutibile “traduzione” in italiano contemporaneo (sì, un po’ alla Bruno Vespa) a fronte, a certe operazioni editoriali di Baricco, ad alcune parafrasi che da utilissimi apparati di servizio tendono a sostituirsi al testo, o ancora a certi appelli a pubblicare edizioni semplificate dei testi. Giulio, spero si comprenda dall’articolo che non intendo proporre approcci elitari ai classici, riservati ai pochi eletti. Al contrario: se fa bene diamonds a ricordarci lo stato di semianalfabetismo in cui versa gran parte della popolazione italiana, non vedo perché si debba rinunciare a lavorare, a lottare se vuoi, per invertire la tendenza. Non voglio rinunciare a credere che si possa vivere in un paese in cui i cittadini possiedano un bagaglio di istruzione che consenta loro di leggere un classico, in una buona edizione economica ricca di apparati indispensabili a comprendere una lingua e un immaginario sicuramente diversi e lontani da quelli odierni. Le proposte di “traduzioni” e riduzioni mi pare che rinuncino a questa possibilità e vadano nella direzione opposta.
Complimenti, una bella chiave di riflessione su una questione -deo gratias- sempre aperta.
Coltivo anch’io la non troppo vivace speranza di cittadini capaci (e desiderosi) di leggere un classico fornito dei convenienti apparati.
Trovo infatti poco convincenti, con tutto il rispetto, le operazioni “alla Baricco”che peraltro mi sembrano in crescita. Mi riferisco alla filosofia in pillole: “pedanti” speculatori ammanniscono, sforbiciati e compressi ad usum insipienti, consolatorie sinossi sul vivere felici.
Magari andrò fuori tema (nell’articolo stesso scrivi d’altra parte che “non vale la pena avviare la solita tirata sulla scuola che ammazza la lettura”), ma credo che una riflessione sulla momentanea necrosi dei classici della letteratura italiana non possa prescindere da una riflessione sul modo in cui questi classici vengono studiati, o meglio veicolati, nelle scuole secondarie superiori. Nel pezzo ci si concentra soprattutto sull’istruzione universitaria, per di più ad indirizzo umanistico; però, se vogliamo considerare l’importanza della tradizione letteraria italiana quale causa generante di un sentimento di identità nazionale, dobbiamo per necessità soffermarci sull’istituzione che, rivolgendosi democraticamente (almeno si spera) a tutti i giovani cittadini, dovrebbe più di ogni altra farsi veicolo di un’italianità che affonda le proprie radici nella storia letteraria del Paese. Quanto influisce il modo di insegnare la letteratura italiana nelle scuole superiori sul rapporto che gli studenti, futuri membri attivi di una comunità culturalmente definita, instaurano con i classici? E ancora: quanto sono responsabili i docenti di licei e istituti vari della lenta agonia di questi testi? Me lo chiedo perché di recente, per esperienza personale, mi è capitato di constatare che l’insegnamento della letteratura italiana nella scuola superiore è sempre più aridamente sottomesso alle logiche aziendali di una programmazione ministeriale ipertrofica, in ossequio alla quale viene di norma “spiegato” ai ragazzi un determinato autore e viene poi assegnata come compito per casa la lettura integrale della sua opera più nota. Di solito i ragazzi hanno un mese di tempo per portare a termine la lettura, poi dovranno consegnare una recensione che, se gli va bene, potranno rivendersi anche per l’imminente compito in classe. Inutile stare qui a calcolare quanto grande sarà l’influenza di Wikipedia sugli esercizi che verranno consegnati. Ma se la lettura di un classico smette di essere uno strumento che ci permette di comprendere la realtà e diventa soltanto l’ennesimo compito da svolgere per ottenere un voto qualsiasi, non dovrebbe stupire più di tanto il fatto che il dialogo con i classici risulti attualmente interrotto. Ecco, forse se i classici hanno smesso di parlarci è perché sono sempre meno le persone che, a scuola, ci insegnano ad ascoltarli. Persone che si mettano lì, pazientemente, a raccontare che dietro ad ogni classico c’è stato un uomo, con una storia personale e un modo di vedere il mondo che lo hanno portato a scrivere in una certa maniera l’opera che adesso ci guarda minacciosa dallo scaffale più alto della libreria. Magari rassicurando gli allievi circa il fatto che non è obbligatorio trovarsi d’accordo con il pensiero di un determinato autore si eviterebbe anche l’effetto Corazzata Potemkin, ché non sarebbe male. Quindi, al di là della constatazione di una situazione culturale desolante, ti chiedo: esiste la possibilità di aprire un dialogo che ci permetta di guadare il pantano nel quale stiamo lentamente affogando? E se sì, che ruolo ha o dovrebbe quantomeno avere la scuola secondaria superiore, pubblica, laica e soprattutto italiana?
vi segnalo qui un articolo di claudio giunta che tocca alcuni temi proposti da matteo e entra in fitto dialogo con il commento pubblicato da marta riccobono:
http://www.leparoleelecose.it/?p=7577#more-7577
Grazie per la segnalazione dell’articolo di Giunta! Quanto al mio commento, non volevo affatto unirmi al coro delle voci di scherno contro la presunta inutilità degli insegnanti di lettere, anzi: trattandosi di una categoria di cui probabilmente mi troverò a far parte (sempre che riesca a sopravvivere agli anni che mi separano da un’abilitazione che ormai è una specie di gioco a premi), mi chiedo e chiedo a chi ha molta più esperienza di me quale sia il modo migliore per non ritrovarsi complici di un impoverimento culturale che proviene, secondo me, dal fatto che ormai si dia molta più importanza alla trasmissione di nozioni che ad altro. Dover conoscere una determinata opera ”per saperne parlare”, è questa la cosa che mi lascia perplessa. marisa salabelle pone giustamente l’accento sul disamore dei giovani per la lettura o comunque per tutto quello che non sia immediatamente e visivamente fruibile; ma credo che stia proprio qui la sfida di un insegnate, nel trovare una cura valida a questo disinteresse. E, per ripetere quanto dicevo nel commento precedente, non credo che obbligare gli alunni a leggere un classico come compito per casa, in un tempo risicato, giusto perché poi ‘devono consegnare la recensione’ sia la via migliore per suscitare il loro interesse (con questo non voglio dire che TUTTI gli insegnanti di lettere lavorano in questo modo. quelli che ho conosciuto io però sì!). La mia insegnante del liceo sosteneva che se non veniamo obbligati noi giovani non leggiamo; io le rispondevo che mi sarebbe bastato un consiglio perché le mie letture avevo il piacere di scegliermele da sola. Questo per dire che mi sento molto più legata e riconoscente a un Garcia Marquez scovato mea sponte in libreria e apprezzato parola per parola, che a un Verga fagocitato in un mese per esigenze di programma scolastico, e da allora vivamente detestato.
cara Marta, come tu stessa hai riconosciuto, non tutti gli insegnanti sono uguali e non tutti appioppano ai loro studenti quelle letture casalinghe e quelle tremende relazioni che ti hanno tanto impressionata. Lo so bene, e tutti lo ripetono, che “la sfida dell’insegnante sta proprio nel trovare il modo… eccetera eccetera”. E tuttavia, non basta essere appassionati della propria materia,non basta parlare con passione dei libri che si amano o dei capolavori della letteratura, non basta venire incontro agli interessi degli studenti, ovvero, forse basta per alcuni, ma ormai non basta più per la maggior parte. Non voglio far la solita vecchia prof lamentona, ma è un fatto: la lettura non è percepita come piacere se non da pochi, la lettura come obbligo viene unanimemente aborrita (chissà perché, poi: come se gli esercizi di matematica e le relazioni di chimica potessero essere assegnati solo su base volontaria, o come se un atleta potesse fare gli allenamenti solo quando ne ha voglia). Insegno da molto tempo, conosco molte strategie, se dico (e non sono certo la sola) che si incontrano sempre maggiori difficoltà, forse non è solo perché sono una vecchia parruccona che non sa far divertire i propri alunni. In ogni caso, pochissime persone leggerebbero “spontaneamente” Dante o Petrarca o Leopardi, e se non vi fossero un poco introdotti rischierebbero di non capirli o apprezzarli, quindi che facciamo, possiamo anche decidere di cestinarli definitivamente, oppure, se vogliamo che i nostri classici sopravvivano e non rimangano un appannaggio di pochi eletti ma siano una ricchezza di tutti, dobbiamo pur forzare un poco i nostri alunni…
Ci sono ancora molti professori, universitari e non, che riescono ad appassionare gli studenti e non credo che i classici vengano ormai snobbati da editori e lettori: basti pensare al successo della collana Mammut della Newton. Il problema, semmai, è che i docenti non sono più messi in condizione di lavorare serenamente e le operazioni editoriali di recupero dei capisaldi letterari si preoccupano molto del marketing e poco della curatela…
Sarebbe l’ora di finirla con questa solfa (sia detto senza offendere nessuno in particolare, ma volendo stigmatizzare un modo di pensare diffuso e abbastanza stereotipato) che “la scuola ammazza la lettura”, “la scuola ammazza il piacere di leggere” e così via. La scuola, o almeno la parte più viva e appassionata di essa, si batte come meglio può per l’incoraggiamento alla lettura e per la diffusione della conoscenza dei classici, trovando grossi ostacoli nel disamore dei giovani verso tutto ciò che richieda pazienza, lentezza, concentrazione e che interrompa la connessione continua con Internet e l’uso compulsivo del cellulare; nello scherno che tutta la società rivolge alla classe docente e soprattutto a quell’inutile categoria che è costituita dai docenti di lettere; nell’assoluta gratuità di una certa parte del lavoro scolastico che è appunto quella di leggere testi scritti da “gente morta” (come dicono gli studenti), cercare di capirli, di apprezzarli e di farsi insegnare qualcosa da loro. L’insegnante di lettere, oggi, ha tutti contro ed è costretto a giustificare la sua stessa esistenza perché “ruba le ore alle materie importanti”. Dico questo non perché io creda che la classe docente sia tutta appassionata, competente e meritevole, né perché io ritenga responsabili (se non in parte) i giovani del loro atteggiamento, ma perché sarebbe opportuno che si cominciasse a ragionare in termini diversi su questo nostro lavoro, tanto amato e tanto difficile.
Niente, i classici non si possono tradurre in italiano corrente. Siete matti? Sacri sono! Lasciamoli dormire, e continuiamo a lamentarci degli italiani caproni.
Ma che novità! Che aria fresca! Che progressismo all’altezza dei tempi!