La nonna di Lara

di Giovanni Dozzini

Non sarò io, pensava la vecchia donna, a mettere becco su una faccenda del genere. La stufa di ghisa e smalto, color fango, color fiume, occupava quasi un terzo della piccola stanza in cui nel tempo suo figlio e sua nuora erano riusciti a comporre una cucina degna di questo nome: e adesso era addirittura moderna, o almeno così avrebbero potuto definirla se solo si fossero dovuti ritrovare a parlarne con qualcuno. Ma la verità, e la vecchia lo sapeva, era che le poche persone con cui avrebbero potuto discorrere di questo tipo di cose – di come appariva, alla fine di tutto, la loro piccola cucina – avevano già visto coi propri occhi il progredire, anno dopo anno, delle sembianze di ciò che era ricompreso tra quelle quattro mura.

La vecchia se ne stava seduta sulla sua sedia di paglia, stretta tra la stufa e la pila di legname che suo figlio aveva preparato il giorno addietro, in basso i ceppi più grossi e in alto i pezzi più sottili, i rami più giovani dei faggi mutilati e abbattuti sui bassi monti vicini. L’uomo della legna era arrivato col suo camion, come ogni anno, e aveva scaricato una piramide odorosa di tronchi sul cortile, e poi aveva tirato fuori dal giubbotto quel suo taccuino bucherellato e aveva trafficato con una matita e strappato la pagina da dare a sua nuora. La vecchia aveva guardato dalla finestra, la stessa che adesso filtrava il buio della sera, e poi s’era rimessa a sedere senza chiedere, come invece faceva quando era giovane e quando era ancora vivo suo marito, quanta legna fosse e quanto fosse costata. Poi era arrivato mezzogiorno, e sua nuora le aveva chiesto di assaggiare il sugo finto e se per caso non avesse voglia di apparecchiare, e lei l’aveva fatto, l’una e l’altra cosa, senza per questo illudersi di potersi ancora rendere utile a qualcosa che non fosse far entrare in casa un po’ di denaro con quei due soldi della pensione e quelli della reversibilità di suo marito.

Serviva solo a questo, oramai, e lo sapeva e non se ne curava. Parlava poco, col suo fazzoletto verde e grigio scuro annodato alla testa e i suoi golfini di lana nera, perfettamente a suo agio nell’esercizio di una vedovanza attesa che non era stata né troppo precoce né troppo tarda, donna dell’Ottocento che era arrivata quasi a vedere i capelli del  secolo nuovo, del secolo nuovissimo su cui tutti stavano già fantasticando. Prima di suo figlio, quel giorno, era tornata a casa sua nipote, e l’aveva abbracciata e accarezzata senza farla nemmeno alzare dalla sedia, come fosse una bambola antica da preservare, e subito sua nuora s’era riempita di luce e di voglia di chiacchiere, ed erano stati abbracci ancora più forti, e baci, la madre e la figlia adorata, la madre e la figlia-salvezza. Quando furono tutti si misero a tavola e consumarono il pasto di sempre, con molte parole e la puzza di olio bruciato che emanava dalla tuta da lavoro dell’uomo, che fece in fretta per precipitarsi di sotto a demolire la piramide e a sistemare le scorte – quella grande nella rimessa sul retro, quella piccola laddove si trovava adesso, al suo fianco. Ancora non era il momento di accendere la grossa stufa, ancora novembre era lontano e i pettirossi non avevano cominciato a battere i davanzali e il cortile alla ricerca delle briciole sfuggite al lavorio delle formiche, ma tutto era pronto e niente e nessuno li avrebbe presi alla sprovvista: non il freddo, sicuramente.

Ora, con la cena che bolliva nella pentola grande, la vecchia non poteva fare altro che sperare che le alte grida provenienti dalla camera da letto della ragazza, pochi metri più in là, non arrivassero ad orecchie diverse dalle loro. I vicini, pensava, o chi passa per strada. Suo figlio, quell’uomo buono e lavoratore, non si tratteneva più già da qualche settimana, e nella rabbia la sua voce diventava tonitruante, spaventosa, animale. La nuora, madre innamorata, si metteva sempre in mezzo, e di certo i pochi tonfi che ogni tanto sentiva da di qua erano i colpi che lei parava col suo corpo, ma erano pochi davvero e mai forti, e infatti poi non c’erano mai lividi, tra le lacrime, non c’era mai sangue. I quattro piatti cupi di ceramica sembravano attendere l’evoluzione dei fatti come in una svogliata seduta spiritica: e forse tutti si sarebbero riempiti, o forse uno sarebbe rimasto all’asciutto, o forse sarebbero stati due e due. La vecchia sapeva che la ragione era dalla parte di suo figlio, che i tempi avevano corso molto ma non abbastanza da far essere buono ciò che buono non era, o perlomeno non quello, non quel genere di cose. E le botte, le botte c’erano sempre state, e quelle che aveva preso lei, sì, quelle erano botte che facevano male davvero. Non dirò niente, pensava la vecchia, a me non spetta intromettermi, e così in quei momenti cercava di dimenticare il viso dolce e le carezze della ragazza che le era cresciuta sulle ginocchia e appesa al collo, anche se in fondo più spesso le capitava di far stare insieme una cosa e l’altra, il bene che le voleva da una parte e l’educazione, la rettezza, dall’altra. Non andavano confusi.

Teneva una mano sulla ghisa mentre con l’altra stringeva i ferri di metallo appoggiati sulle sue cosce e sulla sua sottana e sulla sua lunga gonna a fiori blu di vecchia, e muoveva velocemente le labbra come in un vespro. In realtà parlava a se stessa senza far risuonare la voce: è quello che va fatto, ripeteva, è quello che va fatto. Però le cose non cambiavano mai, né con le buone né con le cattive, e quei piatti quella sera ovviamente non si sarebbero riempiti tutti, la minestra sarebbe stata di troppo per la figlia e probabilmente sarebbe stata di troppo per la madre, e l’uomo avrebbe mangiato una doppia razione, forse tripla, d’impeto e di rabbiosa frustrazione, e lei, la vecchia, si sarebbe sorbita le sue sparute cucchiaiate da uccellino, le sue briciole da pettirosso decrepito e senza più abbastanza ali. L’uomo urlava la sua vergogna e l’ignominia, urlava parole sconce da malaffare, e poi bestemmie, Iddio e la Vergine massacrati, scannati, schifati, oltraggiati. La ragazza piangeva piano, e a tratti rispondeva e a tratti taceva, e la madre piangeva forte e implorava di smettere, di smettere e basta. Forse già da qualche minuto, pensava la vecchia, quell’altro uomo stava aspettando nella sua grossa macchina all’angolo della strada, dove il catrame finiva e cominciava l’erba, il parco dei giochi dei bambini, magari fumando per ingannare il tempo, oppure scendeva e appoggiava le reni alla staccionata di legno e contemplava il cielo d’ottobre e ragionava sui suoi conti o sulla fragranza delle carni in cui presto avrebbe potuto affondare le proprie. E la moglie, la moglie a casa, sapendo senza sapere come fanno tutte le mogli, avvelenata, oppure scimunita, accontentata dalla vita, dal resto, dai soldi e dalla roba nel momento in cui non poteva essere dall’onore. Gesù Cristo, crocifisso sopra la porta che conduceva alle grida, s’affacciava immobile sul silenzio della stanza, con l’olivo secco d’aprile incastrato dietro le spalle, tra il legno e il cemento, arco senza frecce e senza linfa, amuleto senza forza, polvere compressa, in dissoluzione.

La vecchia lo guardò, e il suo nome del padre fu niente più che un saluto. Questa cucina così bellina, pensava, così moderna. Questa minestra che bolle e questi piatti vuoti. Le grida a quel punto si intensificarono, e la ragazza gridò più di tutti e disse non sapete, voi non sapete, voi non sapete. La porta della camera da letto, dietro di lei, sbatté fortissimo, e i passi sul corridoio scavarono impronte profonde, mentre i fianchi e le braccia e la borsa urtavano mobili e oggetti e le lacrime si schiacciavano sulla pelle delle guance portandosi dietro grumi di trucco. Quando fu al portone, prima di uscire, fu scossa da un singhiozzo improvviso e sentì gli occhi riempirsi e bruciare, e strusciandoli coi polsi del suo maglione fucsia sottile si voltò per guardare la figura minuta della nonna nascosta quasi per intero dietro alla stufa. La vecchia sembrava assopita, le palpebre asciutte velavano le sclere ingiallite e l’inchiostro delle iridi, la bocca era ferma, socchiusa, e l’unica altra cosa che spuntava oltre la ghisa erano le ginocchia fasciate dai fiori blu e dal nero. La ragazza ebbe un moto di tenerezza, sorrise, nonna nonnina, nonna nonnina. Fu tutto in un attimo, ed aprì, e si precipitò per le scale. Scomparve così nella sera, era attesa da braccia forti e dal destino. La vecchia spalancò gli occhi e vide il nulla, pensò al torto e alla ragione, e al tempo che li avrebbe mescolati, come sempre. Appoggiò i ferri sulla stufa spenta, fece forza con le mani sulla sedia e si alzò per andare a spegnere il gas, prima che i gorgoglii della minestra finissero per uscire dalla pentola, e insozzare i fornelli.

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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