Jesi. La critica militante e la riflessione sull’uso politico del mito

(è in uscita FURIO JESI Mito, violenza, memoria, Carocci editore, l’autore ce ne regala un estratto, dal secondo capitolo, e noi lo ringraziamo. G.B.)

di Enrico Manera

Jesi muove dalla storia delle religioni allo studio delle sopravvivenze mitologiche nella cultura e del rapporto tra mito e politica; dopo aver metabolizzato la classicità con gli strumenti della filologia e dell’antropologia ha orientato la sua ricerca dall’antico verso la letteratura moderna e contemporanea. Attento alla porosità dei tempi e alle reciproche interazioni, ha inteso fonti e documenti come tracce di una storia culturale che è anche un’indagine antropologica sulle modalità di costituzione delle identità. In questo senso condivide le istanze più urgenti degli anni settanta, a partire dall’esigenza di un sapere vitale e antagonista delle scienze dello spirito tradizionaliste: la scelta della forma-saggio di sapore benjaminiano e il richiamo al metodo anacronico delle tesi Sul concetto di storia (1940) diviene strumento di discussione dello storicismo e di critica della razionalità tardo-borghese, in particolare della concezione del continuum spazio-temporale in cui epoche e avvenimenti paiono inseriti in una concezione lineare e statica del passato, quasi fossero le stazioni perenni di un percorso necessariamente orientato verso il progresso.

Nei suoi saggi Jesi pratica una fenomenologia della cultura che ha anche una funzione di critica politica, mettendo in atto una «decostruzione dei meccanismi di funzionamento […] operanti nelle culture moderno-contemporanee», dei loro «meccanismi performativi […] e in particolare del rapporto che esse intrattengono con la sfera del religioso e del sacro» (Bidussa, 1993, p. 100; 2009, p. 156). L’importanza, la validità e il fascino dei suoi studi risiedono nel sondaggio dei territori del sacro, della letteratura e del potere, condotto con un impegno di critica dell’ideologia radicalmente illuminista: la ricerca intorno al mito (e al culto della morte che esso sottende) è una critica della cultura che avviene nel segno di un marxismo eterodosso, intellettuale, rivoluzionario. L’indagine sul concreto «funzionamento dei meccanismi della macchina mitologica» è considerata «la necessità più urgente» che egli considera di grande importanza strategica (Jesi, 1973, p. 109).

I suoi libri più apertamente politico-filosofici sono il postumo Spartakus, scritto tra il 1967 e il 1969 e pubblicato solo nel 2000, e Cultura di destra (1979), ma bisogna menzionare almeno l’attività pubblicistica su «Comunità» e «Resistenza. Giustizia e libertà» e poi su «Nuova sinistra. Appunti torinesi», in cui mostra un pensiero politico caratterizzato da un marxismo libertario, radicale, iconoclasta e mondialista.

Compito degli intellettuali in una vera e propria battaglia culturale è promuovere il rovesciamento della tradizionale codificazione della mitologia, storicamente al servizio delle classi dominanti: studiare il mito significa smontarlo per compiere un’opera di smascheramento e demistificazione, emancipativa e pedagogica. L’obiettivo è la comprensione del rapporto dinamico che si instaura tra le forme discorsive del mito e le pratiche politico-sociali che ne sono la proiezione, mitologie vissute che si realizzano nella storia e che sono inseparabili da ogni forma di autorità, potere e violenza, le tre accezioni italiane del tedesco Gewalt. ‘Mito’ è uno «zero efficiente» (Jesi, 2002 a, p. 31), un nulla in termini ontologici che si mostra come sostanza e che si rivela capace di mobilitare masse e individui.

[…]

Mario Pezzella (1989, pp. 300 ss.) ha proposto un proficuo schema per interpretare complessivamente l’opera di Jesi. Il suo pensiero può essere definito come una «costellazione in tensione tra tre poli»: (1) una dimensione «festiva del simbolo» appartenente al passato che nella modernità risulta impossibile e tale da apparire solo nelle sue «polarizzazioni negative, intrise di morte»; (2) una concezione del «compimento del nichilismo» e del «muto confronto con il dio ignoto» per cui il presente è il tempo della desolazione e della inevitabile distruzione di ogni illusione mitica; (3) il «rinvio utopico al futuro» nei termini di un «idea regolativa di un agire politico» che ha l’aspetto di una sintesi tra marxismo e messianismo. Alla luce dell’intreccio tra le tre dimensioni (tempo delle origini, tempo del nichilismo, tempo utopico) la dimensione del mito inteso come utopia politica è l’altro volto della critica del mito metafisico.

Tutte le opere di Jesi mostrano questa duplicità di sguardo e si interrogano sull’importanza dell’utopia e sulla possibilità problematica di un ‘mito di sinistra’: il ricorso al mito da parte della propaganda politica rischia di diventare un elemento intrinsecamente reazionario anche quando le sue finalità sono progressiste. Servirsi di immagini dotate di forte impatto inconscio e capaci di suscitare forte emozione significa infatti neutralizzare la razionalità critica necessaria a una lucida azione di trasformazione della società.

 

Tutti i linguaggi propagandistici […] sono usati in modo moralmente condannabile là dove non si prevede il superamento dell’esperienza raggiunta entro l’evocazione tecnicistica del mito. […] Se cioè il linguaggio del mito tecnicizzato è considerato un linguaggio oggettivo e pieno di intrinseca verità, la reazione resta reazione. […] Com’è possibile indurre gli uomini a comportarsi in un determinato modo – grazie alla forza esercitata da opportune evocazione mitiche –, e successivamente indurli a un atteggiamento critico verso il movente mitico del comportamento? Tutto ciò non ci sembra praticamente possibile (Jesi, 2002, pp. 42-43).

 

A dispetto del fatto che ragione critica e uso del mito siano incompatibili, nella propaganda politica, anche di sinistra, il riferimento al passato in vista del futuro avviene costantemente. Si rende necessaria allora una «demitizzazione nella propaganda politica del mito tecnicizzato» e un rilancio del discorso artistico come esperienza ‘genuina’ capace di parlare alla collettività nel «rispetto per l’uomo».

[…]

La pratica sovversiva linguistico-letteraria prepara il momento rivoluzionario perché interrompe il rapporto di reciproca alimentazione tra produzione ideologica e strutture produttive: in questo modo una nuova scienza della letteratura, antistoricista, anticlassica e antidogmatica, deve produrre al tempo stesso la critica della ‘reificazione borghese’, il processo generato dalla cultura del capitalismo in seguito al quale gli uomini stessi vengono ridotti a oggetti e merci sottoposti alle leggi del mercato e dunque privati della loro umanità. Così Jesi ha condiviso con la sua generazione di intellettuali l’idea che «la scrittura letteraria porta insieme l’alienazione della Storia e il suo sogno. […] La moltiplicazione delle scritture istituisce una Letteratura nuova nella misura in cui questa inventi il proprio linguaggio solo per proiettarlo nel futuro: la letteratura diventa l’Utopia del linguaggio» (Barthes, 1960, p. 108).

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3 Commenti

  1. “Servirsi di immagini dotate di forte impatto inconscio e capaci di suscitare forte emozione significa infatti neutralizzare la razionalità critica necessaria a una lucida azione di trasformazione della società.”. Mi pare proprio ciò che innocentemente persegue la sinistra italiana laddove chiama spesso in causa, nelle proprie uscite, una “speranza” che sa fin troppo di provvidenziale. Se non erro, era il tema di un interessante articolo di P. Battista pubblicato poco tempo fa sul suppl. La Lettura.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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