Autismi 28 – Quando si è adulti

di Giacomo Sartori

Quando si è adulti bisogna fare gli adulti, anzi l’occupazione principale diventa proprio quella: si ha da manifestarsi adulti in ogni evenienza e circostanza, con qualsiasi mezzo e a qualsiasi prezzo, e anzi meglio si fa gli adulti più si è considerati e ci si autoconsidera davvero adulti. Il reale interlocutore di ogni adulto è lo specchio: è in primo luogo di fronte a se stessi che bisogna mostrarsi adulti, se si vuole convincere anche gli altri. Si fanno passi in avanti, ci si specializza e perfeziona, acquistando a volte uno statuario sorriso che ricorda la maschera ironica ma anche gioiosa di Ben Gazzarra. Quando si è davvero imparato, e si comincia a essere soddisfatti di se stessi, ci si accorge che si è ormai vecchi. Che si sta per morire.

Uno la tira più lunga possibile, tergiversa e strascica i piedi, ma poi finisce che si ritrova adulto. A me è capitato di notte, una notte ben precisa: era buio, la persona vicino a me dormiva, dal giroscale del caseggiato saliva un vuoto più risucchiante del solito, più geologico, e io mi sono accorto che era successo. Mi sono accorto che era finita. Non che mi fossi particolarmente divertito o entusiasmato, intendiamoci, ma era lo stesso finita. Dovevo cominciare a fare l’adulto. Ho subito sperimentato l’angoscia del neofita adulto.

Quando si è adulti si hanno un sacco di seccature: grattacapi di ordine sanitario, economico, legale, morale, famigliare, intimo, lavorativo: è incredibile quante beghe catalizzi lo stato adulto: come le merde le mosche verdi. Prima di diventare adulti non ci sarebbe mai immaginati di poter cumulare una tale mole di fastidi così vari e aggressivi, così surrealmente reali. E non è affatto casuale, ci si rende conto: non si sarebbe davvero adulti se non si sciaguattasse in tutti quei guai maleodoranti, e se non lo si affrontasse con quella risolutezza impaludata in un’uniforme di didascalico – seppur posticcio – stoicismo.

Quando si è adulti non si ha mai tempo, perché si è affaccendati giorno e notte a fare gli adulti, e anche se lo si trovasse mancherebbe agli altri adulti che si vorrebbe frequentare. Il tal amico lo si vorrebbe vedere a cena, in un posto magari pieno di gente sfaccendata – ogni tanto è bello avere attorno a sé persone occupate solo a lasciarsi vivere – e bevendo magari un pochino più del solito, per poi bighellonare senza una meta precisa per tutta la serata, cambiando magari via via i piani, per poi rifugiarsi in un baraccio ancora aperto, dove magari si incontrerebbe qualche altro relitto della notte, il tutto beninteso senza guardare l’orologio, senza fretta, è bello non avere fretta, e non avere l’ansia di divertirsi, e proprio per questo ci si diverte, come succedeva appunto quando ancora non si era adulti, finché appare l’alba, l’alba alla fine di certe notti finisce sempre per apparire, è esperienza comune, e allora uno comincia a fare gli ultimi discorsi, a bere i bicchierini riepilogativi, c’è una gaia solennità nella conclusione delle notti insonni passate con un amico, una sazietà di parole e di empatia, stordente ma anche tonica, e volendo si potrebbe andare a dormire nello stesso posto, non importa se non è tanto pulito, se c’è un’anatra fricchettona che becchetta sul tavolo disastrato della cucina, prima accadevano cose così, perché è bello dire buona notte agli amici, sparare le ultime cavolate fumando le ultime sigarette. Niente di tutto questo: ci si vede a mezzogiorno per un boccone in tutta fretta, con gli occhi tirati sui lati dalle rispettive preoccupazioni, il respiro in punta di polmoni a causa della compressione sulla cassa toracica, e poi ci si saluta, e ognuno corre per la propria strada piena di buche e tranelli. Senza bere alcolici, perché poi appunto ci sono le grane da affrontare, ci sono tante cose da fare: è più saggio evitare le sonnolenze. Qualche volta prima di lasciarsi si scrocca una sigaretta a qualcuno, ed è una trasgressione minuta e in fondo deludente, un impossibile omaggio al tempo passato. Quando ci si separa resta la fame di amicizia, come quando si deve interrompere un pasto dopo i primi stuzzichini, o troncare sul nascere un cosiddetto rapporto sessuale.

Quando si è adulti non si può dire niente a nessuno, intendo le cose un po’ delicate, perché ormai l’esperienza ha insegnato che le persone a cui confidano i segreti vanno a raccontarli alle consorti e queste a altri soggetti, i quali preavvertiranno altri ficcanaso ancora, e insomma ne conseguiranno solo immensi problemi. Una degli inconvenienti dell’essere adulti è proprio quello, la condanna al silenzio. Cercando bene negli occhi degli adulti si coglie l’anelito prorompente a schiantare l’omertà, a forzare con le corde vocali l’isolamento. Molti adulti pagano un terapeuta, che è un individuo remunerato appunto per stare zitto, per non spifferare a terzi nemmeno le peggiori nefandezze.

Quando si è adulti si ha l’esperienza. L’esperienza è un sortilegio malefico che toglie lo smalto alle superfici più seduttive, che fa vedere lo scheletro e i prodromi di putrefazione, che scippa ogni sorpresa del finale. Uno osserva una leggiadra ragazzina, e si vede davanti la matrona appesantita e pedissequa che diventerà, sente una frase, e avverte sullo sterno i supplizi e i cadaveri che soggiacciono o subentreranno, capta un sorriso appena incrinato su un lato, e penetra le faglie annesse e connesse, il destino tragico che le ammanta. Ogni adulto farebbe di tutto per liberarsi della propria esperienza, per essere di nuovo intonso e vergine, e invece l’esperienza lo segue dappertutto, come un’ombra che ghiaccia la schiena, come una letale zavorra.

Quando si è adulti si fanno le cene. Alle cene tra adulti ci sono anche le mogli insopportabili degli amici, o i mariti insopportabili delle amiche, o anche solo insignificanti, o terrifici, e bisogna sorbirseli. Le cene si pianificano per tempo, come anche il lancio dei razzi e le esposizioni universali, perché si è tutti molto occupati, e di solito quando viene il momento non si ha più tanta voglia di cenare in quel modo lì, con quelle mogli o mariti lì, si vorrebbe piuttosto uscire a mangiarsi un panino con il primo venuto. Alle cene tra adulti si finge di non essere adulti, che è il modo migliore per essere davvero adulti. Si alza il tono della voce, si dicono stronzate, si ride fino alle lacrime, si beve più del dovuto, si è un po’ lascivi: è tutta una parodia, nel fondo si sa che si è saldamente adulti. A ricordarcelo ci pensano poi i piatti sporchi e la cucina da mettere a posto, l’esibizionismo della fattura del gas appesa al calendario.

Quando si è adulti si lavora per mantenersi, e sovente da soddisfare ci sono anche altre bocche, perché quando si è adulti si procrea. Si procrea per avere l’impressione di aver fatto qualcosa nella vita, visto che si comincia a prendere atto che questa è sprovvista di senso, per sentimentalismo, per condizionamento culturale, per plagio, per assicurarsi una copertura infermieristica nella vecchiaia, per bontà (per accontentare qualcun altro), o anche solo per ignavia, per etologico richiamo degli ormoni, assecondando la sete di futuro dei propri geni. I figli non possono concepire che si possa essere adulti, la vedono per la condizione incresciosa che è, ma nello stesso sono attirati e rincuorati, almeno in un primo tempo. Non possono immaginare che loro stessi un giorno saranno in quello stato patetico.

Quando si è adulti bisogna stare a osservare stoicamente il decadimento del proprio corpo, come un capitano che assista impotente all’affondare della propria nave. La carne inflaccidisce, i capelli si diradano e imbiancano, la faccia si raggrinzisce: è davvero molto spiacevole. Vengono poi malattie gravissime, quasi sempre mortali. Se la vita cominciasse da vecchi, o anche da vecchissimi, poi si avrebbe la soddisfazione di muoversi via via meglio, di vedere la propria pelle distendersi, di sentire che le energie aumentano, di essere più ottimisti: sarebbe una successione nello stesso tempo più razionale e più piacevole. Sul finire ci aspetterebbe una vacanza ludica e ben assistita, coronata da un auspicato rientro in un accogliente ventre materno. E invece si deve sottostare senza lamentarsi alla propria decomposizione, facendo finta di niente.

Quando si è adulti si ha paura. Si ha paura di diventare vecchi e di morire. E proprio per parare il terrore ci si imbozzola nell’oblio delle attività: si lavora, si corre, si arrampica, si pedala, si viaggia, si pianifica, ci si allena, si tramena, si lotta, si fa carriera, si litiga, si teorizza, si costruisce e si disfa, si rischia, si battono primati, si prega, ci si edifica, ci si immerge in apnea, si svolge attività di volontariato, ci si stressa, si scrive, si scoprono nuove leggi scientifiche, si cerca di distinguersi in modi anche minimi, anche grotteschi, si amoreggia, ci si droga, ci si annienta a piccole dosi, ci si racconta frottole. Quando si è adulti si rimpiange il tempo in cui non si era ancora adulti, senza considerare che a quell’epoca non si aveva cognizione della libertà che si sarebbe perduta, e quindi nemmeno allora si era felici.

Certe persone sono più dotate per fare gli adulti, altre meno, altre ancora hanno invitti corpi di bimbi, fieri spiriti fanciulleschi: non impareranno mai a fare gli adulti, e non ci provano nemmeno. Ma anche molti anziani, compresi quelli con un passato più talentuoso, smettono di inscenare la commedia, per fatica o usura gettano la spugna, e di punto in bianco tornano fanciulli. Alcuni neonati ancora afoni hanno per converso negli occhi saggezze e distacchi di adulto, hanno già bruciato le tappe: ci si domanda come abbiano fatto. Si dice che gli scrittori non diventino mai adulti, ma è una panzana: sono uguali agli altri, si sforzano solo un po’ meno, profittano con scaltre occhiate di ingenuità dell’aurea tardoromantica che avviluppa il loro ufficio.

(l’immagine: Carlo Zinelli, senza titoli, tempera su carta)

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8 Commenti

  1. Ho ripostato il testo sulla mia pagina facebook.
    Di sotto il mio commento:

    “Giacomo Sartori è uno scrittore italiano che ho conosciuto oggi e mi ha stroncato.
    In questo pezzo analizza in maniera profondamente introspettiva cosa significa essere adulti attraverso l’incoscio, i simboli e traendo spunto da situazioni
    reali, di vita quotidiana.
    L’aspetto più agghiacciante è che GS riesce a descrivere questa condizione complicata, in maniera lucida, scrostandola dalle barriere psicologiche che innalziamo quando qualcosa -qualsiasi cosa- è in grado di affliggerci.
    In una parola, GS, non rinuncia a fare i conti con la realtà.”

    • nella “vita” cerco beninteso di esserlo un po’ meno, conservatore (= con la scrittura vengono fuori strane cose)

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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