Sebbene l’inverno

di Mirfet Piccolo 

In ufficio hai detto che non saresti stato reperibile per tutta la giornata; sei un capetto che ha accumulato due anni di ferie e non devi spiegazioni. Dalla tua casella di posta un messaggio automatico avvisa che sei fuori ufficio e dispensa gli indirizzi di chi contattare: per problemi di stock lending; per problemi di Express II – RRG; per trasferimenti titoli. Hai omesso la data del tuo rientro, e nessuno ti ha fatto domande.

Nell’ascensore dell’ospedale non hai osato specchiarti: hai avuto vergogna di leggere nel tuo viso riflesso il verdetto clinico della tua stessa paura. In un tentativo magro di guardare oltre, con le braccia tese lungo i fianchi e gli occhi immobili sulla porta della cassa metallica che ti stava riportando al piano zero, hai pensato che, dopotutto, eri fortunato: in ascensore eri solo e quindi nessuno avrebbe visto attraverso la tua pelle, e capito, come se quella temporanea e del tutto casuale inesistenza umana potesse fare la differenza. Ma quando le porte del cubicolo si sono aperte davanti a te c’era una folla di persone, e in quella folla hai rivisto la fotografia retroilluminata di quel male che fa di te un caso raro alla scienza: un grumo disarmonico pronto ad avanzare e a ostruire lo scorrere della tua vita.

Fuori faceva caldo sebbene l’inverno fosse una certezza da calendario (al bollettino meteo, quella mattina alla radio, avevano parlato di un’insolita perturbazione d’Africa e tu, mentre in piedi bevevi il tuo caffè nero senza zucchero, nella tua mente solida avevi registrato l’informazione come un dato che avrebbe influenzato i mercati). Ti sei messo in coda per pagare il parcheggio: un Euro per due ore di sosta; la donna in fila davanti a te era giovane, aveva i capelli ricci e gremiti come un vitigno raboso e un profumo schietto di polpa agra. In coda, hai pensato che anche lì e in quel momento, con la tua paura incastrata tra le parole stampate sul foglio A4 di una diagnosi definitiva, avresti potuto mettere in pratica una nuova variante della tecnica seduttoria che ti ha sempre contraddistinto tra le tue frequentazioni dell’aperitivo metropolitano. Perché nel tuo smart-phone hai diviso le tue conoscenze in gruppi di appartenenza: ci sono quelle del campo di squash (giovedì), quelle dell’aperitivo (mercoledì e venerdì), e ci sono i colleghi tuoi pari e i colleghi superiori e di rango inferiore. Per le donne hai creato due sottocategorie: donne spritz e donne affrante. Sei sempre stato un uomo molto deciso. L’unica persona che non sei riuscita a catalogare è Claudio: il tuo migliore cosa? dai tempi del liceo. Solo lui, con la sua goffa semplicità e poche pretese, è in grado di farti dubitare, anche se questo non glielo hai mai detto e fai fatica ad ammetterlo pure a te stesso.

La coda, al parcheggio dell’ospedale, era lenta. Hai abbassato lo sguardo sulla mano sinistra della donna: le donne sposate ti hanno sempre eccitato (tranne tua madre, s’intende), sin da quando eri alto poco più di un metro e cinquanta e dal tuo banco cercavi uno spiraglio visivo tra le cosce pingui e umide della tua insegnante di scienze.
Persino il giorno delle nozze di Claudio, il tuo amico?, e Rachele, hai guardato la giovane sposa con occhi diversi, soprattutto quando, in un angolo buio di quel castello nuziale costato un’ipoteca sulla casa genitoriale, l’hai vista in lacrime e con la lingua disperata nella bocca di un’altra donna. Da quella tribuna d’onore, con una bevuta d’un fiato dal tuo calice sempre nuovamente colmo, hai deciso che sarebbe stato meglio – comodo e salutare, sensato e godereccio – rimuovere dalla scena appena vista le lacrime, e sei tornato al tavolo del tuo amico? e gli hai tirato una pacca sulla spalla e dalla tua bocca sono uscite parole di virile invidia.
La donna raboso se ne ha data ed è giunto il tuo momento di pagare. Hai nutrito la macchinetta del parcheggio con due monete da cinquanta centesimi e una moneta da un Euro, e ti sei chiesto se, visto il tuo personalissimo conto finale, valesse la pena mettersi in coda dietro speranze e attese litaniche e opache come un rosario di plastica da sgranare.

Con la ricevuta del parcheggio in mano sei andato verso la tua Audi A4, e hai pensato a ciò che non avresti voluto pensare, cioè a qualche notte prima quando tu, ancora convinto di possedere un corpo incapace di tradirti, hai detto a Monica che l’amore è essere liberi insieme, e hai ignorato col giusto garbo il tonfo gelato del suo cuore contro il tuo petto nudo e levigato con minuzia bisettimanale. Non hai detto a nessuno, neppure al tuo amico? che per un attimo hai avuto il sospetto quel tonfo potesse essere il tuo. E a volere dirla tutta, ti sei ben guardato dal dire che Monica non ci sarebbe più stata e che in fondo non eri stato tu a decidere.

Hai acceso il motore. Nell’autoradio hai infilato il cd dei Rage Against the Machine e hai chiuso bene i finestrini nonostante quell’insolita estate invernale che sarebbe stata ricordata per decenni, e, per tutta la strada dall’ospedale al tuo appartamento al nono piano di uno stabile metropolitano d’avanguardia, hai urlato le parole delle canzoni come al mercato urla chi vuole vendere al miglior prezzo, pur non sapendo per chi, esattamente, il prezzo sia il migliore, se per chi vende o per chi compra.

Hai aperto la porta di casa e ti sei fermato sulla soglia ad aspettare il suono di voci o passi di qualcuno felice di riaverti a casa – finalmente sei tornano, com’è andata la giornata -, ma hai trovato solo dei fantasmi senza testa.

Ti sei sfilato la giacca madida e pesante del tuo sudore caldo, e con in mano la giacca madida e pesante sei andato in soggiorno. E nel soggiorno bianco, seduto sul divino bianco e circondato da pareti bianche e mobili bianchi di gran design, hai tirato fuori dalla tasca della giacca quel programma fatto a tua misura, un elenco di colorate e compatte illusioni da ingoiare ogni ora; ti hanno detto che il dolore sì che si può ammutolire, ma tu sai che sarebbe solo una verità truccata.
Hai posato il foglio sul tavolino bianco laccato e fissato lo schermo nero del tuo nuovo televisore 55 pollici 3D Led con Bluetooth sync, navigazione internet e full web browser. Per prendere tempo, hai ingoiato saliva; per non pensare troppo in fretta, hai inspirato ed espirato lentamente dal naso e hai scrocchiato le dita delle tue mani una ad una.

Hai acceso il tuo smart-phone. Nella rubrica del telefono hai aperto la cartellina riservata alle tue donne da catalogo sperando di afferrare in uno di quei nomi senza volto un tuo sussulto d’affezione. Alla emme di Monica hai sfiorato con il dito l’icona standard, e d’un tratto hai dubitato di ricordare il colore dei suoi occhi e non hai premuto. Nelle cartelle ‘squash’ e ‘ape’ hai cercato nomi e voci familiari, ma hai trovato solo immagini vuote e numeri buoni, forse, per esser giocati al lotto se tu non fossi convinto che la fortuna esista solo nella forma e consistenza di oppio dei poveri. E tu sei sempre stato un uomo di sana e robusta costituzione, al netto di qualche occasionale striscia della cocaina più onesta sulla piazza.

Hai chiamato il numero del tuo amico? Il telefono ha suonato libero a lungo e hai pensato di riattaccare. Poi dall’altra parte hai sentito la sua voce e hai ingoiato in fretta la paura. Col tuo solito tono spavaldo – soffocando ogni cosa, ogni parola più vera, annientando l’odore sterilizzato di camici e di farmaci e palliativi alla morfina, oscurando il freddo stetoscopio e le mani esperte che quel giorno avevano stimato con avidità scientifica le fattezze di quella rarità nel tuo corpo – gli ha detto, ciao vecchio che si fa stasera. Il tuo amico? ti ha risposto, non posso stasera Rachele non sta bene forse per via del caldo anomalo. E tu gli hai detto, sei il solito stronzo, e lui non sapeva, ma tu sì, che quello sarebbe stato il tuo miglior saluto.

Hai spento il cellulare e sei andato in cucina. Dal frigorifero hai tirato fuori un cartone di latte e l’odore acido era anch’esso un verdetto. Nel lavandino in granito nero della tua cucina con mobili in legno massello, hai gettato il denso liquido bianco striato di un sangue giallo, e hai ripensato a tua madre e al latte che da bambino ti versava freddo nella tazza ogni mattina e che prima di sera ti avrebbe rinfacciato come se ogni goccia di quel latte fosse zampillata da un taglio feroce del suo stesso clitoride. Quando è morta non hai sentito la sua mancanza.
Dalla dispensa hai preso uno dei cartoni del latte a lunga conservazione che ogni mese compri al centro commerciale a pacchi di venti unità. Hai tagliato l’angolo di cartone e versato il latte in un bicchiere lungo e lo hai bevuto a piccoli sorsi sfogliando una copia del Sole 24 Ore vecchia di un giorno. Quando hai finito di bere, hai messo il cartone in frigo dimenticandoti, ancora una volta, di comprimere e ripiegare verso il basso l’angolo mozzato.

Sei tornato in soggiorno e hai guardato fuori dalla finestra. Il sole era ancora acceso e c’era troppa gente. Un via vai di donne e uomini, e una scolaresca con la maestra che richiamava l’ordine delle coppie della fila. Hai visto una donna secca con la minigonna leopardata che puntava l’indice in rimprovero davanti al muso del suo cane senza pelo; non sei riuscito a vederle il viso, ma hai avuto la sensazione che fosse vecchia, sgualcita.

Ti sei allontanato dalla finestra. In camera da letto, con nove ore di anticipo, hai iniziato a preparare la borsa di squash ma poi, senza chiudere la cerniera, l’hai lasciata scivolare ai piedi del letto.
Ti sei spogliato e hai guardato il tuo corpo riflesso nello specchio dell’armadio curandoti di non alzare lo sguardo sui tuoi occhi. In uno sforzo d’immaginazione, hai cercato di osservare quel corpo come se non fosse stato il tuo per vederlo ancora sano e fedele alla volontà umana, ed hai fallito.
In mutande e maglietta ti sei disteso sul copriletto e hai chiuso gli occhi. Ti sei voltato sul fianco sinistro e hai sollevato le ginocchia al petto e portato i pugni chiusi davanti alla bocca. Avresti voluto piangere ma non ci sei riuscito: un insuccesso per il quale per anni ti sei quotidianamente esercitato.
Non avevi sonno ma ti sei addormentato lo stesso, e hai sognato di perdere un braccio, poi l’altro, poi il naso e la lingua: strozzati dal sangue striato di giallo cascavano ai tuoi piedi come a chiederti pietà.

Quando ti sei svegliato era buio e ti sei alzato dal letto. Hai aspettato di sentire una voce, anche un fantasma senza testa sarebbe andato benissimo – hai fatto solo un brutto sogno, torna a letto che ti porto un bicchiere d’acqua –, ma hai sorriso al nulla.

Sei andato in soggiorno e non hai acceso la luce. La strada era vuota e il marciapiede dormiva ancora, e tu hai aperto la finestra e sei scomparso in un attimo leggero come una lucciola all’alba di un giorno di vera estate.

 

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9 Commenti

  1. Un testo perfetto per questa mensilità lugubre.
    Mammamia che viaggi che mi fa fare questa Mirfet Piccolo…adesso anche nella marciescenza.

  2. Si la Piccolo è proprio brava, ha la capacità di farti vedere tutto , dettagli compresi, pur non citandoli direttamente; poi di lei ho letto 3 cose e tutte e tre qui su N.I. e sembrano scritte da persone diverse… e poi è bravissima ad entrare e uscire da se. Ho come l’impressione che sperimenti ogni volta, come se stesse cercando, chi sa cosa…

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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