Su “Dal rumore bianco” di Mariano Bàino
di Andrea Inglese
Dal rumore bianco è la terza prova narrativa di Mariano Bàino, poeta della sperimentazione linguistica incessante, esordiente nella collana Tam Tam di Spatola, animatore con Cepollaro e Voce di “Baldus”, rivista-laboratorio del plurilinguismo e del post-moderno critico, autore di diversi libri di poesia, tra cui nel 2000 Pinocchio (moviole), un’efficacissima riscrittura in versi di Collodi. Nonostante questa multiforme e consapevole esperienza letteraria, Bàino si è inoltrato con passo obliquo nell’universo della narrativa, dapprima adottando la forma dello zibaldone in Le anatre di ghiaccio (2004) e poi rivisitando in modo critico un romanzo-matrice come il Robinson Crusoe in L’uomo avanzato (2008). Questo libro, apparso nella collana “Fuori formato”, costruiva un suo labile intreccio per frammenti, andando a raccogliere intorno alla figura del naufrago isolato una costellazione di epifanie del soggetto corporeo. Dal rumore bianco segna, però, non solo la piena adozione del romanzo, ma anche di quel romanzo rigidamente codificato, che è il poliziesco. E dall’armamento del genere, Bàino trae con zelo apparente il necessario: un poliziotto-investigatore, un crimine da delucidare, una città come la Napoli degli anni Cinquanta, a fare da sfondo continuo all’azione. Fin dalle prime pagine, però, il protagonista del romanzo, il vicecommissario Ottone Ingravoglia, si profila sotto le insegne di un avo illustre, il Ciccio Ingravallo del Pasticciaccio. Ce n’è abbastanza per immaginare che il dispositivo etico-conoscitivo che costituisce il poliziesco sia messo irrimediabilmente in crisi: dall’impianto logico-deduttivo dell’indagine al risarcimento simbolico costituito dallo scioglimento dell’enigma criminale e dall’identificazione del colpevole.
La vulgata vuole che il giallo, per via della sua matrice positivista, sia ormai obsoleto rispetto allo spirito – e specialmente allo spirito italico – del tempo, così poco propenso a scioglimenti chiari e distinti, ai trionfi del bene e del vero. Sarebbe, insomma, il noir il genere più idoneo a sondare, senza eccessive mistificazioni la realtà contemporanea, palude terminale di tutte le ambiguità, le contaminazioni, gli abomini. Bàino, però, non va in questa direzione tanto celebrata: se alcune atmosfere e motivi del noir sono riscontrabili anche nel suo romanzo, non vi è traccia di quel compiacimento e di quella banalizzazione della violenza, che costituiscono due degli ingredienti più fortunati del genere. Neppure vi è grande rispetto per il cosiddetto “ritmo narrativo”, che sulla falsariga dell’odierno montaggio cinematografico, deve governare il succedersi degli eventi e agganciare l’attenzione del lettore, sostituendo dosi di surprise all’attento dosaggio della suspense. Il modello gaddiano permette a Bàino di sfuggire all’antinomia tra giallo e noir, e di perseguire una strategia paradossalmente basata sull’indugio e sull’erranza. La vera protagonista della vicenda è Napoli, che viene esplorata con l’attenzione intermittente e divagante del flâneur. L’intreccio è portato da un’indagine sghemba, costruita a partire da un crimine ipotetico e che rimarrà tale fino alla fine, mentre il vicecommissario è costantemente coinvolto su altri fronti, in operazioni poliziesche di varia natura, alcune grottesche e inutili, altre più movimentate e pericolose. (E l’unico successo investigativo di Ingravoglia, più che alla sagacia del metodo indiziario, è dovuto ad un’intuizione sciamanica.) In definitiva, l’operazione di Bàino consiste nel sortire il poliziesco dal binario dell’azione per farlo scivolare su quello più meditativo e descrittivo della lingua. È soprattutto una lingua difforme e densa, ricca di strati, a rivelare la città e la sua popolazione, producendo un continuo altalenare tra il tragico e il comico, tra l’ineluttabile meccanica collettiva e la quasi incomprimibile testardaggine del singolo. Laddove incombono gli inevitabili stereotipi del genere, la lingua di Bàino li complica e rovescia, li strappa all’ovvietà, li riconduce a un’interrogazione soggettiva coriacea e beffarda, che non si limita mai a magnificare il fango del mondo, perché comunque sia, come mostra il protagonista del libro, in quel fango ci si deve stare con decenza, invece che ignobilmente, e pure godendo fino in fondo di quel poco che vale.
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Mariano Bàino, Dal rumore bianco, ad est dell’equatore, Napoli 2012.
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Da “alfabeta2”, n° 23, ottobre 2012.
adoro Mariano Baino, questo, sicuramente bel libro, me lo procurerò. Andrea mi presti la tua copia?
effeffe