In verità, in verità vi dico
di Giuseppe Zucco
È più brusco
trovarsi a tu per tu con le strutture tutto in una volta.
Elio Pagliarani
La parte migliore di me non avrebbe dovuto lasciarti andare. Sinceramente, la parte migliore di me non avrebbe dovuto neanche permettere che ti allontanassi di un millimetro.
La parte migliore di me avrebbe dovuto lottare – svenarsi, sgolarsi, certo – e cercare di convincerti: metterti al riguardo di quanto la stabilità sentimentale venuta a instaurarsi tra una cardiochirurga giovanissima ma molto promettente e uno dei più noti autori televisivi del momento fosse una tale rarità in natura, un tale evento nel più ampio sistema solare, che non restava altro da fare che preservarlo e custodirlo e consegnarlo come cartolina ai posteri che, un giorno, nel periodo più introspettivo della loro vita, vagamente illuminati da questa immagine di reciproca elettrica attrazione, avrebbero intuito cosa intendevamo noi per felicità – per appagamento, già, dei sensi o dei sentimenti – una specie di riposo del guerriero, il momento di stasi che precedeva o seguiva le grandi battaglie, l’attimo in cui le armature lucide o spaventosamente deformate posavano per terra mentre gli occhi della persona davanti diventavano uno specchio o un lago, qualcosa a metà tra uno specchio e un lago, un punto circoscritto dello spazio infinito in cui riflettersi e immergersi senza alcun tremore e spaesamento.
Eppure, la parte migliore di me ha infilato certe nebbie. Probabilmente, la parte migliore di me ha subito la temperatura elevata della sala autori mentre fuori infuriava l’inverno. La quantità delle sigarette e delle barrette proteiche e della taurina allo zero virgola quattro per cento contenuta nelle lattine durante la stesura delle scalette e dei copioni. I progressivi avanzamenti decimali dello share su cui scommettevo con gli altri autori e gli assistenti ai programmi – non cene, sfilare nudi sul balcone della sala autori che dava sulla strada era lo standard, se perdevi.
In fondo, In verità, in verità vi dico, il titolo nonché la formula di rito che apriva il nostro programma, la cronaca nera al servizio dei cittadini, come tu sai, aveva vagito sotto il sette per cento, da lì era cresciuto, nei primi tempi osservava la curva dell’indice di ascolto inerpicarsi per altezze irraggiungibili con un filo di struggimento – e anche se all’inizio eravamo un semplice gradino della più estesa scalinata del palinsesto, piano piano e poi di colpo eravamo diventati un punto di vista, un marchio riconoscibile, una presenza concreta e puntuale con cui la realtà doveva fare i conti, prova ne erano le telefonate ricevute, l’e-mail intasata dai commenti, la mezza stellina dei critici televisivi su riviste e quotidiani appuntata alla giacca come medaglia al valore, le promesse gaudiose del riposizionamento di In verità, in verità vi dico in una fascia oraria strategica e dell’inserimento di due pause pubblicitarie aggiuntive nel corso del programma, tanto che più volte, di notte, infilando l’indice nel nodo della cravatta, allentavo di poco mentre consultavo le ultime agenzie stampa, un gesto istintivo di cui avrei appreso in seguito la natura profetica.
Non credo che la parte migliore di me, prima di oggi, avesse chiaro il concetto di stabilità sentimentale. Non credo neanche che sapesse cosa farsene, sebbene, in definitiva, decidesse del mio umore e del mio stato d’animo, permettendomi di concentrarmi solo e unicamente sul programma, sul fatto che uno dei miei inviati dovesse per esempio fiondarsi in un paesino di provincia quando ancora la bambina non era stata del tutto conquistata dal rigor mortis per intervistare i suoi genitori e chiedere loro cosa provassero in quel momento, cioè cosa sentissero, quali parole riuscissero ad articolare guardando in modo confuso e cognitivamente ellittico la telecamera davanti al colore neutro della parete di una sala di attesa del reparto grandi ustionati.
Capirai senz’altro, la parte migliore di me non sta cercando di salvaguardare l’astrazione romantica della parola amore. La parte migliore di me ormai da tempo ha superato le più scontate convenzioni – l’amore, naturalmente: e la vita di coppia, il matrimonio, la rigidità asfissiante della monogamia. La parte migliore di me, come avrai capito, prospera proprio su un altro piano.
La parte migliore di me, per essere esatti, è convinta che per un autore televisivo e una cardiochirurga in ascesa, perlomeno in orbita verso la più scintillante delle carriere nei rispettivi campi di azione, la stabilità sentimentale sia tutto. Sapere che nonostante le noie e lo strazio delle grandi battaglie della vita quotidiana c’è sempre qualcuno a casa disposto ad ascoltare senza giudicarti o degradarti all’ultimo livello delle categorie umane, lo stronzo, il pezzo di merda, la merda umana, è una di quelle certezze su cui posare la prima pietra della costruzione di una visione equilibrata della vita e del proprio lavoro.
Detto in altre parole, è chiaro che il simbolico allentamento del nodo della cravatta è stata responsabilità mia, soltanto mia, del tutto mia – e ancora oggi mi pento e mi dolgo di avere indetto quella festa a casa nostra in seguito alla registrazione del più alto picco di ascolti in prima serata non prevedendo che tu tornassi con un giorno di anticipo da un convegno sul futuro della cardiochirurgia, uno di quei elegantissimi rituali massonici da cui rincasavi con espressioni tipo decision making e il costo dei vari devices, piccoli tappeti linguistici sotto cui nascondevi la grande polvere di un problema ricorrente, cioè se per un’azienda sanitaria fosse sensato prima che economico prendere la decisione di operare vecchi catorci su per giù sulla settantina con speranze di vita inferiori all’anno, una percentuale considerevole della popolazione ospedaliera che risucchiava gran parte delle risorse finanziarie, allungando di colpo l’ombra dei cardiochirurghi sul viale del cinismo già ampiamente battuto dagli autori televisivi, un cinismo funebre, a dire il vero, cosa che appena veniva accennata ti faceva inforcare gli occhiali e alzare dal letto e andare in cucina e farti trovare con un bicchiere d’acqua in mano davanti alla finestra aspettando non che io ritirassi tutto, ma che muovessi i capelli e ti baciassi sulla nuca e facessi promessa di non svalutare la tua vocazione cardiochirurgica che di tanto in tanto ti destinava in una qualche località sperduta del nord Africa in un’altra mossa riuscita del capitalismo avanzato.
Ma se tu di punto in bianco non avessi deciso di porre fine alla nostra relazione, di troncarla, di farne cenere da disperdere al vento, probabilmente io non sarei caduto in errore: o in un eccesso di realtà, per essere corretti, anche se tutti i commentatori continuano a designarlo come un vero errore, e dei più irrimediabili, a dirla tutta. La parte migliore di me, in effetti, proprio allora, ha registrato una relazione proporzionale tra la mia stabilità sentimentale e la mia concentrazione sul lavoro.
Se ci pensi bene, è un discorso tutt’altro che unilaterale. Se fai mente locale, tu eri ancora necessariamente al mio fianco quando il padre della bambina morta per ustioni ha rifilato un secco no alla richiesta del nostro inviato, un pugno in faccia e due tre calci nello stomaco, ma sono stato io stesso a sedare l’inviato al telefono invitandolo a scongiurare la vendetta o la denuncia, pena la sparizione del suo nome dai titoli di questo e di futuri altri programmi, e con tanto di frattura al setto nasale di proseguire il suo lavoro, intervistando la lunghissima sequela dei parenti della bambina, gli anziani, soprattutto, chiedendo loro cosa provassero in quel momento, come se non fosse più un pezzo televisivo, ma un inchino alla probabilità statistica, qualcuno alla fine avrebbe risposto con le lacrime agli occhi, umidità cariche di rassegnazione cosmica che avremmo deliberatamente sottolineato con la musica adatta, un tantino melodrammatica, a dire il vero – la stessa cosa successa mentre io ero ancora necessariamente al tuo fianco, e sotto la luce gelida azzurrina della sala operatoria il tuo respiro non approdava all’asma, la tua fronte non era imperlata di goccioline di sudore, la tua mano non tremava, il tuo bisturi non trovava inceppo né ostacolo, il tuo ago disegnava bene ogni sutura, e il bypass aorto-coronarico riusciva nonostante le mille e una complicazioni che di solito annodano il cartellino all’alluce tanto al paziente quanto alle quotazioni del cardiochirurgo di turno.
Chiaramente, se solo avessi avuto sentore, se solo avessi previsto gli esiti disastrosi della relazione ormai scientificamente dimostrabile tra stabilità sentimentale e concentrazione sul lavoro, la parte migliore di me si sarebbe guardata bene dall’indire seduta stante al picco di ascolti di In verità, in verità vi dico una festa a casa nostra. Vedere i tuoi occhi dilatarsi oltre misura sulla soglia della nostra camera da letto mentre due ispettrici di studio completamente svestite vagavano sulla landa desolata del mio corpo emettendo tutta una serie di esoterici balbettii, aveva cancellato di colpo dalla mia memoria il numero complessivo di puntate che aveva tenuto il pubblico incollato al televisore. È vero, uno dei miei inviati, rovistando nel sottobosco intorno alla casa della donna scomparsa, aveva ritrovato il frammento superiore di un femore, e noi, principianti Sherlock Holmes in erezione, di quel femore ne avevamo fatto un cadavere, la prova che il marito aveva scombinato la disavventura della donna scomparsa in mille piccole disavventure sotterrate con estrema cura e perizia, ma a quel punto io avrei restituito la risoluzione del caso piuttosto che smarrire la stabilità sentimentale e quindi la concentrazione sul lavoro. Se mi sono spiegato bene, non è esattamente amore, ma neanche egoismo, il mio. Se ti sto tortuosamente ma ufficialmente chiedendo di tornare al mio fianco, riguadagnando in modo più contemporaneo e disinvolto i vantaggi di un’efficiente stabilità sentimentale del tutto preclusa alle tradizionali coppie monogame, è per scongiurare di farti incorrere in un qualche errore capitale – errore che peserebbe su una vita intera e su un’intera carriera.
La parte migliore di me, infatti, non ha retto. La parte migliore di me, già abbastanza annebbiata da lavoro scommesse taurina, quanto tu sei andata via, è caduta nelle spire dell’instabilità sentimentale, seminando errori a catena sul lavoro. Per esempio, chiedendo la testa dell’inviato che non era riuscito a raccogliere neanche una microscopica fluidità salina sul volto di un qualsiasi lontanissimo parente della bambina morta ustionata, essendo i parenti rinchiusi nel più stretto riserbo. Per esempio, caricando me stesso su una macchina di redazione e precipitandomi nel paesino della bambina morta ustiona. Per esempio, aspettando sotto casa il padre della bambina, due ore tonde, se non ricordo male, e poi notandolo uscire da casa, scagliarmi addosso, stringergli le mani al collo e urlare chi si credeva di essere, proprio così, che titoli e quali argomenti avesse lui per mettersi di mezzo tra le telecamere e la verità. Per esempio, introducendomi nell’obitorio, con la telecamera a tracolla, dopo avere corrotto un paio di infermieri, cercando il numero della cella frigorifera associato al nome della bambina morta ustionata.
Non ti sto pregando, ora, in questo istante, dovunque tu sia, di ritornare. Non ti sto dicendo tra le righe di prendere le tue cose e venire a ripiegarle nei cassetti di questa casa nelle prossime ore. Non è questo.
La parte migliore di me sta solo tentando di farti immaginare quale abisso di rimorso e risentimento potrebbe spalancarsi sotto i tuoi piedi nel momento in cui troveresti le pareti domestiche sguarnite di una figura che in modo molto disinvolto e contemporaneo ti assicura una duratura stabilità sentimentale e di conseguenza una tenuta nel mondo del lavoro. Pensa solo a tutti i casi di infezione o di sanguinamento post-operatorio che potresti incidentalmente causare ai tuoi pazienti se le rigorosissime procedure sanitarie di cui sei fedele devota fossero messe a repentaglio da tutta un’altra qualità di pensieri instabili e sentimentali. Pensa solo a quanta disperazione stia bruciando per riemergere dal fondo di un errore o, ci siamo capiti, di un eccesso di realtà, che mi è costato prima le proteste, poi un’interrogazione parlamentare, quindi la soppressione istantanea del programma.
La parte migliore di me, se solo avesse trovato qualcuno a casa disposto ad accogliere le mie ragioni senza darmi preventivamente contro, con una qualche certezza non si sarebbe precipitata nel paesino né avrebbe aggredito il padre della bambina ustionata, non avrebbe corrotto gli infermieri né sarebbe entrata nell’obitorio, non avrebbe aperto la cella frigorifera né avrebbe messo in spalla la telecamera e ripreso gli arti ustionati della bambina, le gote ustionate, le dita ridotte a miseri carboncini consumati, montando poi quelle immagini nel servizio mandato in onda.
Non sto affatto dicendo che tu non possa frequentare chiunque tu voglia, con una prossimità tra i corpi che declinerai tu di volta in volta: siamo troppo adulti e democratici e contemporanei per compromettere la nostra stabilità sentimentale cioè la nostra carriera per questo genere di cose – anche se ammetto che deve essere stato sufficientemente traumatico farsi trovare addosso due ispettrici di studio, peraltro svestite, con le labbra appaiate sul bottone rossastro dei miei capezzoli.
Sto solo dicendo che noi due, una volta seduti abbracciati davanti al tramonto di questa trascurabile incomprensione, facendo tesoro della nostra rinnovata stabilità sentimentale, potremmo diventare due esseri umani migliori – migliori e pacati, più retti, particolarmente in sesto e misurati, capaci di prevedere quanto sfuggire gli errori e i fallimenti e le capitolazioni.
Anche perché la parte migliore di me, come quella di ogni singolo spettatore che ha composto il pubblico dell’ultima puntata trasmessa di In verità, in verità vi dico, riesce a stento a prendere sonno dopo avere allestito l’oscurità nella propria stanza o a cercarsi nello specchietto retrovisore durante una pausa al semaforo o a riempire in altro modo l’attesa di completamento del download illegale di un film americano.
Il sorriso ustionato della bambina ustionata denuda i denti e continua a espandersi tra i pensieri sebbene in principio apparisse definitivamente rigido, e annerito.
[Questo racconto è stato pubblicato nell’antologia Storia di martiri, ruffiani e giocatori, edita da Caratteri mobili, a cura di Vicolo Cannery]
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“La parte migliore di me” è un concetto che fa riflettere.
A guardarsi dentro, a guardarsi allo specchio, a sentire il proprio cuore battere, il proprio respiro in affanno dopo le tante rampe di scale che la vita ci obbliga a salire si fa una fatica del diavolo a trovarla.