Avuto, visto 12-14 / Vincenzo Ostuni
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tratto da Faldone zero-venti : poesie 1992-2006 di Vincenzo Ostuni, Ponte Sisto, 2012
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questa è poesia contemporanea, altro che quella del mio blog
buone davvero
Dunque, oggi mi è capitato di leggere alcune poesie-tipo, diciamo – senza alcunissimo intento valutativo – poesie di formato tradizionale: poesie lunghe venti-trenta clic di barra spaziatrice, poesie da concorso, che si leggono in un minuto, aprono a un universo parallelo, squarciano un velo, illuminano un preciso nodo storico o psichico o emotivo, pongono un problema, una impasse, una contro-intuizione, ecc. Poesie efficacemente portatili, ché le puoi far girare bene in rete, per esempio, e sortire un effetto immediato. Belle o meno belle, non importa in questo momento: quel che sottolineo per adesso è come di solito esse, anche a ragione delle dimensioni, si costituiscano in un rapporto col lettore che è alimentato dalla subitanea sospensione dello scetticismo. La taglia ‘small’ giova. Esse credono nella possibilità di uno scarto, di uno scatto dalla lingua alla visione, senza mediazioni / immediata. E chi legge è chiamato a credervi, a “vedere”, appunto.
Lette vicino ai faldoni di Ostuni mi sembra ne rivelino un tratto importante: laddove quelle vogliono darsi, non importa quanto complesse, sofisticate, ermetiche, come sgorgate da una riserva originaria, divenute oggetti incidenti sul vero, questi, all’altro capo del cline dell’autentico (letterario, s’intende), formano un corpus imponente che si comporta da anti-illuminazione, da universo rovesciato su se stesso, insieme da cui non c’è scampo perché ogni passo è re-inscritto in un insieme ulteriore, inghiottito nell’orizzonte degli eventi senza mai giungere ad impatto, procedendo in lento dislocamento infinito. Come per aggiustamenti costanti, consecutivi, si procede a riempire un faldone che non sarà mai pieno, che non crede all’effetto reset della poesia illuminante, crede semmai che essa sia altra cosa tra le cose e non faccia altro che alimentare il buco nero piuttosto che colmarlo (vedi la “speranza infinita, ma [che] non è per noi”). Per osservarlo allora servirà una nuova concezione della fisica, o almeno un avvicinamento laterale. Lo scetticismo, qui, è nutrice. Innesco per quei dialoghi morali pazzeschi (divertentissimi) tra l’ex-musa (donna-lingua) e il soggetto, dialoghi calati nel registro disteso (ma mai sbracato) di un logos domestico, qua e là picchiettato dalle scariche di una fortissima coscienza del ritmo (cosciente persino delle sue trappole, delle sue infatuazioni).
Insomma, la cosa mi intriga. E, detto questo, mi vien da chiedermi se la distanza sia dopotutto dall’autentico, quando forse molto fedele a questo tempo è la consapevolezza d’essere a bagno in lingue e meta-lingue mai superabili, e non semplicemente dal patemico (che a quell’autentico vuole ancora aspirare).