Dall’Ufficio Architettura Morbida

di Lisa Robertson 

 

Vogliamo una intelligenza che sia alta e argento, nera e obliqua, che faccia le fusa e amplifichi i suoi interni; una cosa sottile, una cosa lunga, un centinaio di video, una boutique. Essendo passivi e indipendenti, abbiamo bisogno di teoria. Studiamo la sintesi della sincerità, lo spazio dei sintetici, poiché sono contingenti e irriducibili. Dato che possiamo, schiviamo l’ansietà dell’origine. Vogliamo esercitare appieno il destino con cose estremamente normali come la nostra mente.

Una città è già una cosa piatta e colossale. Siamo laggiù, alla fine del vialetto, guardando verso sud con occhi normali. Questo è quanto sappiamo: la carne è adorabile e a noi ripugna il moralismo dei monumenti. Ma un padiglione è bene. Crediamo che un padiglione di sintetico sia cosa molto buona. L’accesso non sarà un problema visto che a noi le nostre menti divertono davvero. Qualsiasi cosa è qualcosa. Il popolare non è pre-esistente. Non è protocollo. Cerchiamo di ricordare che stiamo sempre diventando popolari.

Il sintetico spaziale irreparabilmente eccede la sua stessa struttura. Per esempio: guardando a ovest, guardando a ovest, guardando a est da nord-est, guardando a nord-ovest, guardando a nord-est, guardando a ovest, caricando lana, guardando a ovest, guardando a nord, guardando a est, guardando a ovest, guardando a nord, guardando a nord-est, guardando a nord-est, guardando a ovest, guardando a ovest, guardando a ovest, i binari sono antichi, guardando a sud, guardando a nord, guardando a nord, guardando a est, guardando a ovest, guardando a ovest da sud-est; e dunque, spazio. E soltanto attraverso il gestuale. Occhi belli. Correnti d’aria.

Ora l’intero scopo della nostra cognizione speculativa amplifica il principio del sintetico. Tutto brilla, delizia, sfuma, procede. Flottiamo attraverso tale cognizione con grazia eccezionale. Attaccati come siamo ai sensi, manifestiamo la pura porosità delle boutiques. Le boutiques sono categorie. Abbiamo tanto tempo. Il problema non è come fermare il flusso di artefatti e superfici al fine di stabilizzare il luogo, ma come articolare la politica del loro passaggio. Ogni cultura è il fiotto tremendo delle sue splendide forme esteriori.

Sebbene alcuni di noi apprezzino il suo fascino comune, a volte casual, l’identità, sinceramente, ci ha estenuati. Così sprofondiamo a terra e pretendiamo dell’intrattenimento. Vogliamo disegnare nuovo amore per voi, poiché siamo affamati di bellezza immodesta, sensazionale, pubblica, rivoluzionaria. Vogliamo dignità e grammatura e fontane. Qual è la struttura della libertà? È interamente sintetica.

L’oggetto più piacevole sarebbe la speranza erotica. Cosa c’è di più bello che compilarlo con le nostre menti, convertendo la complicità in una sintesi? Un sintetico dello spazio improvvisa una forma impensata. E se non la chiamassimo più identità? Il sintetico spaziale cessa di enumerare come abbiamo fallito. Basta coi balbettii dialettici. Proponiamo un congegno teoretico che amplifichi la cognizione delle soglie. Aggiungerebbe al corpo un vertiginoso impensabile. Ovvero, un padiglione.

 

*

 

da: Lisa Robertson, “Spatial Synthetics: A Theory” (2001), <http://jacketmagazine.com/14/robertson-lisa.html> , ora in Occasional Work and Seven Walks from the Office for Soft Architecture (Coach House, 2011). Trad. di Renata Morresi.

Foto: Brooklin Bridge (1914), di Eugene de Salignac

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3 Commenti

  1. Però, che bel pezzo, originale ma lieve, come se l’autore si prendesse sul serio ma, allo stesso tempo, non si prendesse sul serio affatto.
    Come se ogni periodo danzasse sull’orlo del precipizio e sorridesse intimamente del pericolo di lasciare le cose a metà.

    • sì, vero, anche a me è piaciuta molto per questo – sembra il pezzo di un architetto-accademico che si è appena fatto d’acido e in preda a possessione psichedelica (che un po’ fa ridere, un po’ fa stupore), addirittura scopre un nuovo linguaggio per lo spazio civico…

  2. Che bella pesca che hai fatto Renata, complimenti. Lisa Robertson e’ una scrittrice interessantissima e il suo “The Weather” mi accompagna da un po’. Grazie!

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Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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