Una critica in diretta : Luca Ricci, Mabel dice sì
di Francesco Forlani
Sono le 16 e 30 e alle 20 ho appuntamento con Giulia. Diciamo allora che mi rimangono poco più di tre ore per scegliere un libro, leggerlo e recensirlo qui su Nazione Indiana. Non me lo ha ordinato il dottore né commissionato un giornale ma devo dire che molte delle cose che faccio, per fortuna, non mi sono né ordinate né tanto meno commissionate. Entro alla Mood di Piazza Carignano, saluto Monica e Laura, e faccio un giro lungo i quattro lati del tavolo su cui sono esposte le novità. Tre titoli attirano la mia attenzione ma alla fine scelgo il romanzo di Luca Ricci, per tre ragioni: la prima è che si tratta di un volume di 137 pagine e dunque, tre ore dovrebbero bastare, la seconda è che costa 12 euro e 50 e in questo momento è una spesa sostenibile e la terza, non inessenziale, perché Luca Ricci è uno scrittore che mi piace. C’è anche una quarta ragione. Il libro comincia con la celebre frase, la formula secondo Gilles Deleuze, di Bartleby lo scrivano, di Melville: ” I would prefer not to “. Ed è curioso leggere incolonnati come sono, titolo ed esergo: Mabel dice sì, Bartleby, preferirebbe di no.
Ore 17:00
Sono a pagina 24. Il protagonista della storia, portiere di notte, pianista di giorno si sta raccontando per quello che era. Il secondo capitolo che si intitola Ieri attacca dopo le prime quattro pagine del primo, intitolato, Oggi. Nelle prime pagine sentiamo che qualcosa è svanito, si sente tra le righe un vuoto incolmabile. Il fraseggio è scarno, quasi ossuto, che se tocchi la pagina ti punge, e si ha come l’impressione che la voce narrante sia precipitata in quel vuoto. A un certo punto lui, che non ha ancora un nome, evoca le Variazioni Goldberg di Glenn Gould, come l’unico momento di vitalità, di vita della vita, di esperienza del ricordo, di memoria in un orizzonte percettivo interamente dominato dall’esercizio e dalla tecnica dell’oblio. Quello che è accaduto ieri ha un altro passo e l’unico nome che leggiamo “veramente” è quello della ragazza che lavorava con lui: Mabel. Dei colleghi sappiamo sì che uno si chiama Nicola, ma potrebbe chiamarsi anche Pietro, Mario, il suo nome è inessenziale. Non sappiamo invece il nome della città, il nome dell’albergo e soprattutto quello del protagonista. E non sappiamo ancora come va a finire.
Bella la considerazione che fa a un certo punto: ognuno finisce con l’assomigliare al lavoro che svolge. In una bella intervista sulla collaborazione con Lucio Battisti il maestro Pasquale Panella scriveva “È il come che arresta il lettore per furto di similitudine… come fosse una mela che somiglia a una guancia, e quello che tu figuri ha sfigurato un viso
(continua nei commenti)
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(pausa sigaretta)
effeffe
ore 17:40
Sono a pagina 57. La storia, un plot assolutamente chiaro si apre come su un’arborescenza. Ogni ramo ha un nome, ogni nome è un profilo professionale, uno stato civile, un desiderio e quasi tutti i desideri sembrano trarre linfa vitale proprio da Mabel. Si diceva della formula iniziale, quella del Bartleby ma ritroviamo proprio in pagina 57 quella del nostro protagonista. Si tratta di un motto, di un’ ambizione che recita le seguenti parole: Fare di sé un’opera d’arte”. la formula l’avevamo letta all’inizio e ora sembra svanire su una serie di passaggi che oltre a trasformare il protagonista, perfino fisicamente, come quando ci descrive la legnosità delle dita, le dita che furono di un pianista, capovolge i rapporti che intercorrono tra tutti, le gerarchie che li collega. Il passo è coinvolgente, lo stile assolutamente in fase con quanto si sta raccontando
ore 19:15
Sono a pagina 125. Della città sapevamo soltanto che non avesse il mare e intanto si precisa di più al punto da contaminare la vita stessa dell’autore. Quasi sicuramente si tratta della città in cui è nato e lo sappiamo per un dettaglio, anzi il dettaglio che rappresenta una città, un monumento, ovvero ciò che non si deve dimenticare. Eppure ognuno dei personaggi comincia a partire da una disparizione non solo a mantenere vivo il ricordo ma a tentare di ri comporre pezzo dopo pezzo la presenza dell’unica ragione di vita, vitalità che vale la pena di essere vissuta. C’è una sorta di avvitamento come quando si sale su una torre dall’interno e non sai se quello è un salire verso qualcosa che ci fa migliori o semplicemente la preparazione di un salto nel vuoto.
ore 19:30
Quando arrivi alla fine non te l’aspetti di essere giunto alla fine. Viviamo un’epoca in cui le narrazioni si vogliono aperte, incerto il finale, sospesa la vita dei personaggi,in una continua reversibilità dei ruoli e dei mondi che loro, i personaggi percepiscono e costruiscono sentendoli, e di noi lettori che in quelle esistenze possibili troviamo una parte del nostro possibile il più delle volte quello che ci è più necessario. In un moto che ha in sé qualcosa di sismico seppure impercettibile si compie quel tipo di rivoluzione così macroscopica, si pensi alla rotazione terrestre, che il micro-esistente nemmeno, quasi mai, se ne accorge. Così il romanzo si chiude con un bello e inaspettato colpo di scena, una volta e per tutte, su una favola che sembra scomparire nel momento esatto in cui la sua morale viene a piena consapevolezza. Bravo Luca. effeffe
ore 20:05
Lo compro. Ma ho la congiuntivite! Divieto di lenti a contatto. Occhiali rotti. Rientro a casa da ipovedente. La città era diversa. Un po’ bella, un po’ spaventevole.
Effeeffe, la prossima non è che recensisci un audiolibro?
molto pittoresca l’idea della critica nei commenti… di “animare” i commenti, farne un luogo interstiziale ma di pari rango, proprio perchè luogo “dell’altro”…
Livio io e te ce capimme
effeffe
ps
sto per recensire il tuo nuovo sito
Che ogniuno stia al suo posto…
ogni uno ogni tutti effeffe
Si,si .. ma io non posso mette una sveglia rossa al posto dell’orologio da taschino privato della sua catena d’oro…
sì, ce capimme – specie sulle cose nu poco sballate e pacciuotiche (per l’utenza nordica: leggi pazzotiche)….