(D)istruzione pubblica. Una questione di linguaggio
di Vincenzo Fatigati
Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, «assurdo» non di buon senso.
P.P. Pasolini
Quando sei giunto al termine di un “ciclo di studi” parcellizzato in una quarantina d’esami, per conseguire una di quelle lauree come filosofia, allora ti viene da articolare una sola certezza. Hai – letteralmente – maturato una percezione diversa del significato reale della parole. Certo, anche sui giornali, sui vari volantini si leggono slogan del tipo “difesa dell’istruzione pubblica” o anche “ contro il governo”, siamo tutti “contro i tagli”, e “per la meritocrazia”. E probabilmente un qualsiasi lettore può facilmente immaginare come possa sentirsi una matricola che studia nozioni quantificate in crediti, e valutate con delle medie aritmetiche. Il lettore riesce, insomma, a leggere la deriva dell’università, in questo modello aziendale.
Ma se si vuole cercare di superare questa lettura testuale, e cogliere il senso reale di quelle parole, bisognerebbe davvero immergersi nell’apatia che si consuma in quei dipartimenti spopolati, in quei cimiteri che ormai seguono il ritmo di corsi e programmi ripetitivi e monotoni; e dopo, spinto da un quasi naturale senso di disgusto, provare a colorire quei termini con il lessico degli studenti, con la prospettiva di chi vive dall’interno quelle contraddizioni , completando la critica “al modello azienda”, con un altro termine, semplice e apparentemente innocuo: “ sistema feudale”.
Più che una questione di termini, è una questione di prospettive, quindi. Letture diverse: dipende un po’ da come la vedi. Prendendo ad esempio la scena tumultuosa degli scioperi che ci fu qualche anno fa, nel 2008: dall’esterno può sembrare che quei professori parteggiassero per un istruzione non asservita a logiche di mercato, poi dall’interno- dopo qualche anno- ti rendi conto che devi aver smarrito il vocabolario da qualche parte se la difesa dell’ “istruzione pubblica” viene sostenuta e appoggiata da chi crea master inutili, privatizza la sua didattica con proprie monografie, accetta il sistema delle cooptazioni e lottizzazioni, basa il metro di valutazione secondo le modalità con cui vengono erogati fondi; insomma in una parola accetta- a livello didattico- la stessa logica con cui si critica il Governo. In difesa del proprio feudo che si fa coltivare a chi pare e piace, in cambio di naturali “corvée”.
La gestione di un un sistema del genere, appare per certi versi “mafiosa”, ovvero da una parte si innesta nel fenomeno della globalizzazione e della modernità(modello-azienda), pur mantenendo al suo interno una struttura baronale, verticistica.
E per riuscire a comprendere questa contraddizione, bisognerebbe capire che certo analfabetismo dei lettori dipende proprio dall’incapacità di riuscire a immergersi nel lessico degli studenti. La prospettiva dello studente è l’unica chiave che può aiutare a comprendere ciò che sta succedendo nelle varie città italiane.
L’impossibilità di riuscire a leggere ciò che succede nel flusso di immagini che scorre in tv , dipende quindi solo da una questione di lingua: il telespettatore non riesce a tradurre la crisi in un discorso . La crisi non è solo quella che si misura con indicatori economici, ma quella degli studenti. La nostra. I padri non lo comprendono, perché forse non sono mai stati padri: sono figli cresciuti, contro i padri, che utilizzano il manganello perché non sanno più ascoltare. E titoli, ancora, raccontano la crisi con immagini sensazionali – da scoop- senza comprendere che il problema è in fondo di parole. Non ci leggono.
La crisi si interpreta negli occhi di chi non sa neppure per cosa protestare, di chi manifesta “meno tasse per tutti”, per reazione, per repressione più che per rivoluzione. La crisi di chi ha perso la speranza di pensare al domani, perché quel “contro” si è già totalmente istituzionalizzato ed è immutabile nel suo divenire, almeno così ti dicono. Una crisi d’identità che si misura con certi slogan antifascisti, perché c’è pur bisogno di disseppellire un nemico scomparso per identificarsi pur in qualcosa, per lottare pur per qualcosa.
Una crisi che viene fotografata da lanci di sassi, e non dal disagio di una generazione condannata con decreti a non crescere, costretta a vivere nell’eterno presente, in un sistema che, dalla riforma Berlinguer, ha cercato solo di “liceizzare” il sistema universitario, rendendoci eternamente immaturi. Lobotomizzati in un parcheggio didattico. Senza responsabilità . Un disagio che potrebbe essere letto nell’aridità dei nostri ridicoli manifesti catechistici , slavati, aridi e che non scalfiscono minimamente gli interessi dei baroni. Senza idee nuove. Senza che disegnano la radicalità di una posizione totalmente autonoma.
La condizione attuale è un po’ come quei test di valutazione che in questi giorni fanno compilare a noi studenti: ti pongono la finta scelta di valutare il docente, illudendoti di responsabilizzarti , ma indipendentemente dalla tua scelta, stanno conteggiando il numero di matricole che frequentano il corso, e in base a ciò erogano fondi. La finta scelta, la pseudo libertà di valutare il professore è il mezzo attraverso cui accetti questa logica mercantile.
L’unica scelta da fare sarebbe quella di non scegliere. Il rifiuto più che il dissenso funzionale.
E, quando in uno di quei giorni lacerato dalla crisi, ti trovi a prendere una lattina al distributore, mentre i soliti mezzi sorrisini ti sussurrano l’ennesimo “la filosofia non serve a niente”, comprendi che la banalità che consuma il presente è la causa dell’alienazione: l’errore è nel non aver accettato la radicalità del rifiuto, perché si è già in un certo senso all’interno; l’errore è di aver già accettato quella finta dicotomia. Si è già compilato quel test. Insomma, non si è lottato, fino in fondo, radicalmente per l’inutilità della filosofia, del sapere.
Quell’inutilità che si traduce concretamente nella dimensione del diritto, nella creazione di spazi pubblici, autonomi, liberi. Non utilitaristici. Ora minati da tecnici efficienti.
Non occupare, ma dis-occupare, rendere pubblici. Ragazzi.
La vera rivoluzione consiste nel rendere l’Università inutile, come lo è una biblioteca.
Ma questo significherebbe sgrammaticare le regole della Neolingua. In quest’errore di sintassi c’è la speranza. Mente sordidi manganelli seppelliscono il cambiamento. Eppure, basterebbe leggerci. Ascoltarci.
perchè inutile come lo è una biblioteca??
Appunto, è una questione di “registro linguistico”. Per certi imprenditori una biblioteca, o anche la scuola è inutile (non legata all’utile)
Come anche direbbe Aristotele: è proprio questa inutilità che rende la filosofia la regina delle scienze. Detta in altri termini, dobbiamo cambiare registro linguistico, pretendere quegli spazi pubblici, non legati all’utile, proprio perché lì si esercita davvero la pratica democratica e partecipativa.
un pezzo molto toccante, grazie
Cambiare il senso delle parole e cambiare così il senso del senso. Il senso di ascoltare, ascoltare un nuovo senso. È l’uno senso.
Bello.
Ma aggiunge solo un altro affluente al mio mare di impotenza.