Nuovi autismi 26 – La stupidità degli scrittori
di Giacomo Sartori
Personalmente adoro gli scrittori un po’ stupidi, e diffido degli scrittori intelligenti. Si presuppone che i grandi scrittori debbano essere senza fallo molto intelligenti, e che proprio questo li caratterizzi, e invece a ben vedere quello che amiamo in loro è proprio l’ottusità e la stoltezza. Non dico che gli scrittori debbano essere deficienti, e che più ebeti sono meglio è, come si potrebbe dedurre da certa narrativa attuale, ma insomma una certa dose di scempiaggine mi sembra difficilmente rimpiazzabile. Uno scrittore troppo intelligente è come una pietanza con gusti scontatamente ridondanti e servita con troppa prosopopea, un dolce con un eccesso di burro e panna montata, un paludato salotto che richiama alla mente una rivista di arredamento, dove ti siedi in punta di poltrona. Senza voler indulgere in incauti biografismi, e guardandosi bene da una retorica della devianza, a ben guardare Dante era un bigotto pedantone con il dente avvelenato, Stendhal un presuntuoso sempliciotto, Flaubert un tetro maniaco depressivo, Baudelaire un irresponsabile sotto tutela, Cervantes un mezzo deficiente, Dostoevskij uno psicopatico, l’Ariosto un candido (con la compulsione all’adulazione) patito di macellerie sanguinolente e virginali fichettine, Thomas Bernhard e Céline due deliranti e logorroici fanatici, Dickens un lacrimoso buontempone, Marguerite Duras una melensa sognatrice, Robert Walser e Dino Campana due minorati mentali, Marina Cvetaeva e Virginia Woolf due derelitte lucidissime squinternate, le Brontë e Emily Dickinson non ne parliamo, Svevo un pedissequo frustrato, Hemingway un vitellone vieppiù patetico allo scemare del testosterone, Gadda un prematuro inacidito vecchiaccio, e via dicendo. Se fossero stati così sagaci la maggior parte di questi personaggi lo avrebbero dimostrato nella vita di tutti i giorni, o comunque non sarebbero finiti a scrivere. Gli scrittori davvero intelligenti, qualcuno ce n’è, si salvano solo affogando il loro acume nei meandri di bizantine mangrovie, come fa Proust, o invischiandolo nelle ragnatele enigmatiche dell’angoscia, Kafka e Beckett insegnano, o di qualche altro nemico giurato del raziocinio. Ma in linea generale non c’è peggior sicario di testi letterari che la superiorità cerebrale. Il pessimo Umberto Eco, rimanendo ai giorni nostri, è forse il paradigma dei danni irrimediabili che può causare l’intelletto alla narrazione, come anche Claudio Magris, e l’intoccabile Borges, seppure a un tutt’altro e squisito livello, e scendendo di quota Sartre e Simone de Beauvoir, e Jorge Semprun, e René de Ceccaty, e nella poesia Octavio Paz e Alberto Casadei, ma per me lo stesso Celati è un po’ troppo intelligente, anche se finge sempre il contrario, proprio come Vassalli, e quatto quatto l’inconsistente Baricco, e tanti altri, a tratti perfino Michele Mari, in qualche pagina perfino il sensibilissimo Giorgio Vasta. Gli intelligentoni di cui parlo a rigor di logica andrebbero chiamati algidi habitué della letteratura, ingegneri specializzati nel riciclo narrativo, ragionieri dell’estetica, ironici giocolieri, virtuosistici funamboli, scafati fantini del cavallo postmoderno, pedanti docenti, pensatori, superdotati della tastiera, non certo romanzieri e poeti. In moltissimi casi l’eccesso di perspicacia riesce a sabotare talenti e ispirazioni davvero possenti: pensiamo per esempio a Arbasino o a Aldo Busi. Del resto è una calamità nazionale, molti nostri scrittori debuttano benino, e poi pensano troppo, si lasciano fuorviare da una scontata deriva di solito commercialmente populista, ma a volte appunto cerebrale. Ne consegue un’inflazione esibizionistica, un’ipertrofia delle frasi o dell’opera alla lunga stomachevole, o anche solo una zavorra di cinguettii d’erudizione e presunte argutezze che impedisce ai testi di volare alto. Forse la ricetta migliore per avere uno scrittore di razza è quindi un’intelligenza mediocre e marezzata di manchevolezze che la inclinino verso una qualche forma di idiozia, seppure sovvertita o anche soverchiata da non ben assestate originalissime intuizioni, spesso in eroica o sciagurata lite con i tempi, da solforose chiaroveggenze, e da una moralità zoppicante o asmatica, il tutto beninteso schiaffeggiato da bordate di furibondo invasamento (notoriamente ingegno-repellente). Quello che viene impropriamente chiamato genio è in realtà il pedissequo frutto di uno squilibrio, un riuscito dosaggio di doti e tare, a mio modesto avviso affatto involontario, e non necessariamente legato a una qualche saggezza, per buona pace del teleologico panzone americano e del suo panteon in retromarcia. Non è però agevole dire perché una supremazia dell’intelligenza sia così ostile alla riuscita letteraria, e non sarò io a risolvere questo dilemma (abbisognerebbero neuroni più fini). Certo presupposto per qualsiasi forma di buona letteratura è la cognizione della sconfitta, una premonizione di catastrofe, un rimbombare raccapricciante o anche ilare del nulla, mentre l’intelligenza è hybris che repelle, insopportabile autosoddisfazione, stucchevole baldanza, genocidio delle antinomie. L’intelligenza sgomita per dominare e sottomettere, violando i silenzi, imprigionando qualsiasi afflato letterario: è soprattutto artificiosa e inverosimile, falsa. Quando invece la stupidità nei giorni fasti sa essere affascinante e struggente, profonda e umanissima, si intride di verità e saggezza. Si potrebbe certo obiettare che anche la cosiddetta intelligenza razionale è una forma di stolidità, forse la più grave di tutte, come sembrerebbe provare gran parte della filosofia occidentale, e quindi come tale potrebbe contribuire al gioco, ma ha la pecca irredimibile di prendersi troppo sul serio, diventando letterariamente inutilizzabile e anzi nociva. Il vero genio della stupidità letteraria è beninteso Rousseau, che con la sua illuminata ottusità ha aperto la via a fiumane di autori purtroppo meno stolti di lui, e quindi minori. Stiamo parlando di un personaggio, tanto per intenderci, cui gli oggettivi limiti cerebrali hanno impedito di imparare i rudimenti minimi della scrittura musicale. Ai ragazzi molto brillanti che mi chiedono un consiglio, qualche volta capita, io dico di abbracciare la metagenomica applicata, la fisica delle particelle elementari, la lessicografia sumerica, non certo la letteratura. Purtroppo sei troppo intelligente per queste cose, mi dispiace molto, gli dico. In certe circostanze bisogna essere franchi. Molti bravi scrittori nei loro discorsi orali perdono la ritenutezza che hanno negli scritti, e lasciano incautamente libero sfogo alla loro non eccelsa intelligenza: tolto l’interesse etologico, la prestazione si rivela quasi sempre assai spiacevole. Come si è già capito queste riflessioni, certo esse stesse un po’ ebeti, non sono gratuite, sono anzi intrinsecamente interessate. Contagiato da una vocazione precoce per la scrittura, per anni ho pensato di essere troppo idiota per mettermi a scrivere. Aizzato dalla cosiddetta educazione scolastica, quella macchina concentrazionaria che fuorvia generazione dopo generazione dalla reale essenza della letteratura, per anni ho rifuggito la scrittura. Solo molto tardi ho constatato che gli scrittori intelligenti devono ingaggiare una lotta titanica con il loro intelletto, sono costretti a battersi fino a riuscire a debellarlo, sterminarlo. Ho capito che a me era risparmiata questa prova dagli esiti spesso fatali: partivo quindi avvantaggiato. Ho capito che potevo provare.
(l’immagine: Sam Doyle, “Fishing boat”, 1980 circa)
Purtroppo, non credo proprio che partisse avvantaggiato. Credo che non sia mai partito.
non so cosa intendi per “non sia mai partito”; ho scritto qualche romanzo, qualche raccolta di racconti, che possono piacere o non piacere, e qualche volta mi viene da rifletterci sopra, come ho fatto qui; non capisco il bisogno di denigrare a tutti i costi, e senza argomentare; da che pulpito parli, tu che neghi il mio?; detto questo puoi dire che non ti piace questo testo, come altri miei testi,liberissimo (anzi, spesso le critiche mi piacciono);
Mi dispiace, ma dopo l’appello pro-Ostuni (redazionale, dunque anche suo), non ha più senso richiedere ai commentatori di argomentare e di non denigrare. Ognuno è libero di esprimere il giudizio che crede più opportuno, e nel modo che ritiene più adatto allo scopo: in nome della libertà «di parola e di critica», of course.
Rammento la frase che anche lei ha difeso:
«un libro letterariamente inesistente, scritto con i piedi da uno scribacchino mestierante, senza un’idea, senza un’ombra di ‘responsabilità dello stile’, per dirla con Barthes».
bof, a me la frase in questione sembra molto chiara e esplicita(anche se certo sommaria e lapidaria), oltre che naturalmente del tutto legittima in un paese democratico (per questo ho aderito all’appello), mentre l’allusione di Laserta, spero di sbagliarmi, mi sembra un colpo basso e vagamente servile (quel servilismo per cui si attaccano le persone che si reputano prive di potere e influenza, e quindi non temibili); ma ripeto, se avesse detto esplicitamente che il mio testo fa schifo non avrei fiatato, ritenendo normalissima la sua reazione;
comunque non lo denuncerò, ho deciso!
Non c’è nessuna denigrazione. E’ solo una constatazione da lettore.
Altro vantaggio, Sartori, è che di Lei, con la professione che si è scelto, non si potrà mai dire che le Sue sono braccia rubate all’agricoltura.
beh, vedo che abbiamo entrambi un’alta opinione dell’agricoltura (non siamo in molti, di questi tempi), mi sembra già un punto in comune!
:) In effetti sì! Comunque spero si capisse che era una battuta, mi è piaciuto molto il suo testo.
P.S. D’accordissimo anche con il giudizio su Eco: quella non è narrativa, è manualistica condotta con altri mezzi.
ggesù in quanti terribbili avvitamenti
Ottimo, e anche profondo. Tra l’altro i bravi scrittori (alcuni almeno) oltre che scemotti erano pure dei pessimi oratori. Baudelaire faceva schifo nelle conferenze, e infatti teorizzava: “ottimo oratore pessimo scrittore”.
Beh, questa è l’era degli scrittori intelligenti nonché ottimi oratori.
Dobbiamo essere contenti?
giacomo, ma come: borges ha scritto due tra le raccolte di racconti più belle che io abbia mai letto, “finzioni” e “l’aleph”. è possibile liquidarlo in questo modo? e tutta l’influenza che ha avuto sugli altri scrittori fino ad oggi? non significa niente? anche loro – non ultimo, bolaño – si sarebbero fatti abbindolare da tutta questa intelligenza?
questo per dire che forse ciò che fa difetto in questo testo è proprio l’idea dell’intelligenza, qui ritratta in una versione riduzionista, una strana miscela di razionalità ed erudizione, e niente più. quando in sè e per sè l’intelligenza non esiste, esistono semmai le intelligenze, al plurale, per esempio un’intelligenza linguistica, o perfino un’intelligenza emotiva, ed è dalla loro combinazione che viene fuori parte della singolarità degli esseri umani.
che poi l’idea plurale di intelligenza, al contrario di quanto scrivi, va di pari passo alla comprensione dei propri limiti e/o dello spostamento in avanti di quei limiti. hemingway, per citare uno degli scrittori di cui parli, diceva, se non ricordo male, che leggendo i suoi racconti, dove gli altri vedevano lo stile, lui vedeva l’esitazione di fronte ai propri limiti. non ho mai sentito di scrittori che non scrivessero senza il fiato della sconfitta sul collo. quanti, pieni di sè, affermano il contrario, con la letteratura hanno scarsa parentela.
naturalmente no, non è possibile liquidare Borges così, Giuseppe (e quindi naturalmente mi aspettavo la reazione!); ma credo che valga anche per tutti gli altri scrittori citati, in realtà; non ti è certo sfuggito che i testi di questa serie hanno tutti una nota ironica/provocatoria …
(riguardo a Borges devo comunque confessare che pur riconoscendone la grandezza e l’enorme influenza, non lo amo dell’amore che provo per esempio per Bioy Casares – sul quale mia moglie ha fatto una tesi, e siccome l’ho un po’ aiutata l’ho bazzicato parecchio – scrittore certo inferiore, o Cortazar, che adoro …; credo che capiti a tutti riguardo a certi grandi, no?)
e certo come ben dici ci sono tante forme di intelligenza, almeno lì siamo d’accordo tutti da qualche decennio in qua, cosa che devo dire mi ha interessato molto fin dall’inizio proprio anche per questioni personali;
ma su quel passaggio dalle intelligenze alla “comprensione dei propri limiti” già sono meno d’accordo: credo che gli uomini – scrittori compresi – abbiano pur sempre una minuta parte cosciente, rispetto all’isbergone di inconscio che c’è sotto, e sono convinto che la scrittura attinga molto lì; questo non impedisce che i grandi scrittori siano coscientissimi del proprio stile (e di quello degli altri, certo più dei critici!) e dei limiti di questo; però mi sembra una “capacità tecnica” (anche se naturalmente è tutt’altro che solo tecnica, non foss’altro perchè ingloba anche la dimestichezza con le scritture precedenti, ma è per intenderci) che non riassume tutta la complessità/profondità di una singolare scrittura;
mi fa comunque piacere che un indiano dissenta (= esplicitamente): mi sembra molto sano e bello
La nota ironica di Sartori mi piace molto, la sua intelligenza sta nel parlarsi addosso e mostrarcelo da vicino. Come quelli che non fanno finta di parlare da soli. Un giorno, qui, su una spiaggia talmente lunga che passeggiando si può parlare da soli senza che nessuno se ne accorga, ho sorpreso un signore a parlare da solo e gli ho detto brav’uomo, ci divertiamo a parlare da soli? e il brav’uomo mi ha risposto: giovanotto, fa sempre piacere parlare con una persona intelligente.
Trovo ingenua l’idea che gli scrittori, per esserlo in maniera sopraffina, lo debbano essere ricorrendo a una stupidità tutta loro. Intanto, stupidi lo sono tutti, e l’intelligenza dello scrittore, casomai, sta nel ricavare dalla propria stupidità qualcosa di raccontabile sulla stupidità generale: questo non significa allora diventare intelligenti – per quanto intelligenti lo saranno comunque in qualche parte, non possono essere stupidi in maniera radicale, altrimenti non potrebbero scrivere affatto – ma significa: illuminare la propria stupidità.
Desumendo: gli scrittori eccellenti sono quelli che sanno trattare intelligentemente la propria stupidità e sono così intelligenti da non farla trasparire, la loro intelligenza.
Infatti Kafka è sicuramente più intelligente del pur bravo Borges e Thomas Bernhard è più intelligente del bravissimo Cortazar. Baricco intelligente? Ma se deve far di tutto per dare è vedere che non vuole sembrarlo: il modo migliore per non ammettere di non esserlo. Umberto Eco – che secondo me ha scritto bei romanzi, il Pendolo di Foucault in particolare, sulla stupidità dell’intelligenza – non ce la fa a scrivere della stupidità come ci riescono i linguisticamente giganteschi Arbasino, Busi e Moresco. Massimiliano Parente, per citarne un altro pure bravo, è un altro scrittore che lavora sulla stupidità, ma compiacendosi troppo di una intelligenza che, stringi stringi, non è così abbondante come vorrebbe far credere che non sia.
Per finire: uno scrittore, più stupido più, più la sua intelligenza deve esserne all’altezza, altrimenti l’opera che riuscirà a scrivere non sarà mai bella; al massimo: intelligente; ch’è il commento più stupido che si può darne.
Un saluto!,
Antonio Coda
Interessante argomentazione. Mi pare comunque che la cosiddetta intelligenza di cui si parla in questo articolo sia piuttosto definibile come salute mentale. Chi ha la depressione bipolare (tantissimi scrittori, uno dei quali è stato menzionato, ce ne sarebbero a bizzeffe però in passato questo disturbo non era ancora stato scoperto e non veniva riconosciuto), spesso è dotato anche di una grande intelligenza. Così come la Woolf ed Emily Dickinson, intelligentissime ma con evidenti problemi a socializzare e rapportarsi con gli altri – e con se stesse. Insomma, quando si definiscono tutti questi autori come stupidi mi piange il cuore. Nemmeno Campana era stupido. Una cosa è l’instabilità delle emozioni, dell’umore e del comportamento, altra cosa è comportarsi da imbecilli. Spero di essere stata abbastanza chiara. Saluti e grazie
Ho letto il brano di Giacomo Sartori sentendo la sua ironia. La lettura degli racconti dello scrittore pubblicato su Nazione Indiana propone questa doppia lettura. L’intelligenza di Giacomo Sartori chiede al lettore di non fermarsi a un senso di superficie, ma di intuire una proposta contraria- si parla di controlettura.
Sono d’accordo sulla stupidità degli scrittori. Pubblicare un libro passi, ma insistere a scrivere e pubblicare è proprio da stupidi.
Nooo. Da poEri illusi!
:-)
Non so.
Sia la stupidità dello scimmiotto-amleto sia la hybris dell’eroe hanno fatto grandi cose.
Credo sia semplicemente una questione di capacità e di contesto.
Oggi da noi l’una e l’altro non lasciano ben sperare.
Personalmente credo che il cuore del post sia nella definizione data degli “intelligentoni”. Abili conoscitori delle tecniche narrative, da loro stessi utilizzate con l’abilità di un campionissimo del Lego.
Parliamo di esercizi di stile.
E allora sono d’accordo sul fatto che in giro ci siano un po’ troppi “ragionieri dell’estetica”. E che le loro opere appesantiscano la testa come il tanto cibo appesantisce lo stomaco. E’ meglio alzarsi da tavola con un po’ di fame.
Ecco, forse spiegano troppo della storia, fino al dettaglio del dettaglio. Dovrebbero nascondere qualcosa in più. A chi legge, il compito di immaginare il resto.
come ho già avuto modo di affermare in un consesso adeguato,per valutare una prosa credo che ciò realmente conti sia l’intensità dell’ispirazione:”Diremo allora che sono pazzo”(cfr Poe in Eleonora)
http://www.youtube.com/watch?v=y7GXQEDzpxM
Questo post psicologizzante è molto triste oltre che inutilmente affetto da figaggine; sbaracca su una mitologia da pompe funebri; noi questi problemi non ce li poniamo, vogliamo andare avanti e, concedetecelo, spammiamo, visto che vogliamo farci conoscere, vogliamo varcare i cancelli del silenzio, la tundra del pisello.
“La superpotenza” di Giuseppe Cornacchia e Angelo Rendo, qui: http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=877260
Saluti e braci,
Ufficio Tampax Nabanassar.
Quella di Sartori resta una sorta di performance ironica e godibile che scorre veloce e lascia una suggestione.
Non sono parole scolpite da BABBIONI che si prendono troppo sul serio.
il ragionare per rappresentazioni dicotomiche-antitetiche della realtà concilia il delirio di onnipotenza e ostacola lo scambio di idee generando contraddittori impermeabili che sfociano in tifo calcistico/fideistico per questa o quella opposta fazione: intelligente/stupido, bianco/nero, scienziato/letterato, buono/cattivo, malato/sano, uguale/diverso e così via sono alcuni esempi delle semplificazioni generate dal linguaggio astratto.
e pensare che le sfumature di grigio sono infinite, mentre il Bianco e il Nero sono assoluti che esistono unicamente come parole!
: )
ciò per dire che nuovi autismi 26 è un brano divertente, che si legge volentieri e mostra una notevole capacità dialettica visto che ribalta specularmente la *presunzione* di intelligenza accordata dal luogo comune ai grandi scrittori. il fatto che l’incipit reciti “adoro gli scrittori un po’ stupidi, e diffido degli scrittori intelligenti” e che poi nello sviluppo della trama lo scrittore chiarisca di far parte della prima squadra a me è sembrato più autoironico che autoerotico/autoreferenziale (“Come si è già capito queste riflessioni, certo esse stesse un po’ ebeti, non sono gratuite, sono anzi intrinsecamente interessate.”)
la conclusione che né l’intelligenza né la stupidità sono ostili alla riuscita letteraria, in quanto non esistono, dovrebbe forse trarla il lettore, soffermandosi un attimo – qualora abbia capito di potere provare – a pensare.
: ))
d’accordissimo con malos, se non si coglie il tempo fisso dell'(auto)ironia presente in tutti gli autismi, si opera una sonora mislettura di questo lavoro di Sartori; sarebbe come leggere Bernard solo in un’ottica tragica, rimanendo ciechi al versante comico della sua scrittura.
Un testo che si legge a vari livelli, e che colpisce simultaneamente diversi obiettivi. Io amo l’insolenza di Sartori, e la sua capacità di essere impietoso (e per primo verso il proprio “io-personaggio”), ma sempre con una nota scanzonata, del tutto priva di eloquenza e superiorità.
Qui inoltre tocca un tasto fondamentale, che va ben al di là della semplice polemica con i contemporanei. L’idiozia è uno dei principali motori della letteratura. Questo vale anche per scrittori estremamente intelligenti come Beckett. Lui (Beckett) per primo lo ha riconosciuto: il suo capolavoro, la trilogia, è nato dallo sfruttamento della sua parte idiota, non certo dalla sua testa di universitario ultracolto e addestratissimo a compiaciute scritture neo-joyciane. Un altro – un poeta – fieramente avverso alla potenza delle idee nella scrittura, Ponge. Anche lui ha scritto elogi dell’idiozia. E il riferimento a Rousseau è davvero centrato a questo proposito.
Scendere nella nostra idiozia significa scendere nella nostra parte animale, priva di tutto il dispositivo razionale o razionalizzante delle nostre certezze: questa parte animale non è mai al riparo da terrori e presagi di catastrofe.
a me è molto piaciuto, avevo lasciato a commento un sorriso (forse troppo poco per essere pubblicato) ma era quello che era scaturito, un sorriso da cui partire per una messa in moto di considerazioni silenziose e personali, tutte giocate sulla scacchiera dell’ironia, dell’inutilità e della necessità della scrittura.
cruciale ironia di sartori, giacché questo l’è un bel pezzetto genialoide –
comunque, io litigo da anni con un mio amico che sostiene che uno scrittore deve essere anche una “brava persona” sennò anche la scrittura finisce per diventare infame. e invece no, protesto io, guarda quanti bravi scrittori stronzi ci sono stati. ma qui si parla d’intelligenza, pardòn, che è tutta un’altra storia…
anche questo sarebbe un tema mica da poco!
perchè certo gli scrittori sono molto spesso esseri schifosi, è noto dagli scritti (le preoccupazioni meschinissime di Thomas Mann subito dopo la morte del figlio …) e dall’esperienza personale, per chi ne conosce qualcuno o tanti, però in un certo modo la loro schifosaggine è connaturata alla loro attività, che consiste nel monologare pretendendo che gli altri gli diano retta e gli facciano dei complimenti (e magari gli diano anche dei soldi), il che non può portare che all’egotismo più sfrenato, è inevitabile; però se manca una “parte buona” la scrittura è infame, è indubbio (spesso pure a me mi capita di pensare, osservando certi scrittori, che se fossero meno infami forse i loro scritti sarebbero migliori); quasi-quasi sono d’accordo con il tuo amico!
[…] La stupidità degli scrittori (post di Giacomo Sartori da Nazione Indiana) […]
Il fatto è: lo scrittore intelligente è noioso mortalmente, e non ha alcuno spunto. Il genio si è fottuto la testa dietro l’aridità della bella prosa. Ecco, all’inizio Sylvia Plath scriveva con il vocabolario davanti, e nessuno se la cagava. Quando è impazzita…ah quando è impazzita!!!
[…] Sartori (https://www.nazioneindiana.com/2012/10/04/nuovi-autismi-26-la-stupidita-degli-scrittori/#comment-1961…) nel suo ultimo commento a questo post se la prende con gli scrittori […]
no, non me la prendo con gli “scrittori”! (ammesso e non concesso che abbia senso fare un solo fascio); e anzi trovo scusanti e attenuanti, come si fa quando sono coinvolti i sentimenti
Lo scrittore mezzo matto fa più audience, Bukowski docet.
Tu nemmeno gli pulisci il culo, a Bukowski.