Falling Man – Sulla quinta stagione di Mad Man
di Gianluca Didino
Tra una ventina d’anni, quando a qualcuno toccherà il compito ingrato di rovistare tra i frammenti di cultura pop di inizio Millennio per dare loro un senso, una serie televisiva come Mad Men giocherà un ruolo da padrone. E questo non solo perché la vicenda dei pubblicitari di Madison Avenue, tutta concentrata in una manciata di anni che vanno dal 1960 in poi, si sta candidando a diventare la serie tv più cool di sempre, e nemmeno per il realismo narrativo di qualità sopraffina che negli anni l’ha fatta accostare a nomi vertiginosi come quelli di Philip Roth o Richard Yates: ma anche perché la parabola del suo successo non è estranea a una forma sottile di sospetto. Matthew Weiner, il suo geniale e ossessivo creatore (il genere di persona, per capirci, che va al mercato a scegliere la frutta che dovrà comparire sul set per accertarsi che abbia l’aspetto più vintage possibile), ha detto una volta che Mad Men è un’opera di fantascienza al contrario, che utilizza il passato per parlare dei nostri giorni. La metafora è perfetta, perché invita lo spettatore diffidare del proprio sguardo. In altre parole: se vi innamorate di una ragazza che si veste come si vestiva sua madre quando aveva la sua età siate ben consci che state compiendo un’operazione mediata dallo spirito del tempo. Il passato è passato, e ogni ricostruzione è una rielaborazione. Fantascienza al contrario, appunto.
Che il presente abbia nei confronti degli anni Sessanta un debito culturale è cosa palese, ma altrettanto evidente è il fatto che la retorica della nostalgia ha la tendenza a spacciare versioni della storia recente edulcorate al limite della stucchevolezza. Uno dei principali meriti di Mad Men, fin dai suoi esordi nel 2007, è sempre stato quello di fornire di un decennio così carico di mitologia una lettura radicalmente alternativa. Niente musica rock, esperienze lisergiche di vario tipo dosate con il contagocce, rivoluzioni culturali relegate sullo sfondo. La trasformazione sociale è un fuoco d’artificio solo se vista a quarant’anni di distanza, vissuta sulla propria pelle più facilmente assume la forma del terreno che ti cede sotto i piedi giorno dopo giorno, un cadavere eccellente dopo l’altro (da Marilyn a Kennedy e oltre). Non è un caso che nella sigla d’apertura si veda una sagoma nera precipitare da un palazzo, circondata dagli emblemi del desiderio della (allora) neonata società dei consumi, né che questa sigla abbia attirato su di sé tante critiche perché ricorda le sagome umane in caduta libera dal World Trade Center il giorno degli attentati. Come dire: ciò che vedete crollare oggi sotto i vostri occhi ha iniziato a cadere molti decenni fa, e proprio nel momento in cui meno ve lo sareste aspettato.
Arrivata alla quinta stagione, lasciato il ghetto dei consumatori seriali della forma breve e annidatasi in ogni anfratto dell’immaginario collettivo, oggi Mad Men richiede una scelta di campo. Da una parte c’è l’hype più sfrenato, il draping virale che rimbalza per la Rete (draping = fotografarsi in posa alla Don Draper, il protagonista interpretato da Jon Hamm), il numero celebrativo di “Newsweek” dedicato all’estetica vintage. Dall’altro, più sobria e inquietante, l’immagine che quest’autunno ne pubblicizzava il ritorno sugli schermi, Don che in una metafora metafisica degna di De Chirico osserva un manichino esposto nella vetrina di un negozio, riflettendo la propria immagine sbiadita (verrebbe da dire: in via di dissoluzione). La presa di posizione è necessaria perché, con la cronologia narrativa arrivata a fine 1966, la tensione sottocutanea sta progressivamente venendo a galla, lo scontro generazionale è alle porte e i toni si sono fatti se possibile ancora più cupi. In quella che con ogni probabilità diventerà la scena cardine della stagione Don si chiede: «da quando la musica ha cominciato a diventare così importante per noi?». Quando la giovane moglie gli regala un disco dei Beatles e gli consiglia di ascoltare quel capolavoro dimenticato che è Tomorrow Never Know, Don interrompe l’ascolto a metà, si chiude in camera e improvvisamente diventa chiaro che da questo punto in poi la caduta sarà più rapida.
Tocca fare delle scelte. Se schierarsi dalla parte del vecchio che declina, ma che si è imparato ad amare, o del nuovo che avanza, con la consapevolezza che di lì a pochi anni la fiammata cupa degli anni Settanta si porterà via ogni sogno di cambiamento. Se mettere in primo piano la bellezza formale di un mondo che scompare o il lamento che produce disgregandosi. A ogni spettatore tocca il compito di estrarre la bellezza dal disfacimento, e viceversa.
[Questo articolo è stato pubblicato sul Mucchio Selvaggio, luglio 2012. La fotografia è tratta da Collider]
I commenti a questo post sono chiusi
L’unico merito di Mad Man é che mi son ben guardato di guardarla, un po’ per caso e un po’ per noia.
la chiave del vintage e della relazione con il passato regge certamente per la lettura di mad men ma la mia impressione è che la vera chiave sia nelle nozioni di simulazione e di simulacro, in termini quasi baudrillardiani. tutto il personaggio di don draper si basa su un rimosso ed una conseguente simulazione (per chi non ha visto la serie: [spoiler] don draper vive con una falsa identità che ha “rubato” durante la guerra di corea [/spoiler]) che, a sua volta, è la cifra del sistema della pubblicità e di un analogo processo che investe tutta la società americana uscita dagli anni ’50 con ancora i ricordi della grande depressione trascesi però nella vertigine consumistica del boom economico. è questo il nucleo di senso della sagoma che precipita in mezzo a patinatissime immagini pubblicitarie e allo stesso modo è il senso del consumo continuo e incessante di sigarette (e liquori, anche) da parte dei personaggi: la sigaretta diventa la merce per eccellenza ed il fumare l’epitome del consumo (e per altro la questione della pubblicità alle sigarette ha un ruolo non secondario nella trama). oltre a questo, secondo me, potentissimo tema, certo ci sono la cura filologica delle ricostruzioni d’ambiente, la distribuzione di note di colore storico (i primi concerti di dylan, la pubblicità della wolksvagen, etc.), l’ottima recitazione ed il fatto non banale che draper sia uno dei pochissimi personaggi di serial (l’unico, in effetti, a quanto ne so) che legge poesia (meditations in an emergency di frank o’hara)!
@ gherardo bortolotti
a proposito dei libri (di poesia e non) che vengono citati nella serie, guarda qui, è un articolo molto interessante:
http://www.rivistainutile.it/?p=2475
Grazie, molto interessante. Lo faccio girare sicuramente!