Quando

di Fabio Franzin

Il cassintegrato culla la sua emicrania
vestendo il nulla delle ore con la pelle
rossa del divano, contando con l’alluce
destro le stecche oblique della tapparella.
È tutta nelle tempie, oggi, l’angoscia,
un pulsare ovattato dall’analgesico,
soffuso dalla penombra. È tutta esterna

alla realtà, adesso, in un torpore che è già
sonnolenza e altrove, un imbuto d’assenza
dove il futuro, scivolando via, si ingorga,
crea un tappo di melma e paure, segatura
e rimorsi ormai lontani. Quando ora è solo
un avverbio di tempo, una colpa innocente.

Dice che alle sedici torna a casa la moglie,
e un po’ prima deve tirarsi su, sciacquarsi
il viso, farsi trovare indaffarato, magari
con l’anta in cucina, quella con la cerniera
che non tiene, tenersi stretto il presente
con le viti degli occhi, prima che esploda.

*

Quando sogna, nei suoi sonni brevi e fragili,
vive lunghe storie incasinate in cui è ridicola
comparsa nella bolgia di officine piranesiane.
Sotto le volte infrante dei lucernari, clangori
e boati e grida umane, in quella penombra
istoriata dai fumi, abbagliata dalle colate
e dagli sprizzi di scintille, deve imparare
un nuovo mestiere, conquistarsi il posto

tanto agognato. Ma non gliene va mai bene
una. O non riesce a sollevare l’incudine per
portarla sopra il banco, o le placche cadono
dalle rastrelliere prima che possa afferrarle.
Nessuno poi viene in suo soccorso, e il capo
reparto passa lì davanti scrollando la testa,
oppure gli chiede il cambio di turno proprio
per la sera che suo figlio ha la recita all’asilo.

Il sudore che inzuppa la tuta non è di fatica,
ma l’ansia dell’imbranato che non sa niente,
che non sa più come dimostrare perlomeno
la sua buona volontà. Quando si sveglia ha
ancora l’eco dei richiami incavolati dentro
la testa. Le mani che avvitano il filtro della
moka, tremano come prima, nel girone che
continua ogni giorno nell’inferno della sala.

 

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8 Commenti

  1. tenersi stretto il presente
    con le viti degli occhi, prima che esploda

    Tutta la tensione divorante dell’essere immobili che trasuda dalle tute di normalità che ci imponiamo per non dover ammettere la disfatta: eccezionale. Ed eccezionale la combinazione tra i versi ed il ricordo fisico personale, e tra questo e l’opportunità avuta qualche mese fa di sentire la viva voce di Franzin rotta dall’indignazione.

    Grazie davvero

    mdp

  2. Ringrazio di cuore per i gentili commenti al mio testo. E ringrazio l’amica Renata per averlo postato. FF

  3. C’è una vicinanza al patire di chi-non-riesce-a-lavorare in questi versi che ne sa replicare la paura di essere ridicolo, la paura del lamentarsi più del dovuto, la paura di non saper riconoscere quanto è responsabilità propria e quanto è conseguenza di fattori esterni.

    Il pallore davanti alla minaccia di un niente.

    Non so se farli leggere a chi so che sta attraversando questa fase potrebbe essere per loro più di riconoscimento o più di disperazione accertata.

    Un saluto,
    Antonio Coda

    • chissà, Antonio, pensandoci, forse sì, forse dovrebbe, ché più dello sconforto qui, a mio avviso, può la condizione condivisa, insieme a una coscienza piena, senza scusa, della fragilità.

      direi che trovare una espressione così eloquente alla propria deriva genera forza, piuttosto che disperazione – valgano le parole di Saba: “Niente consola più di un bel verso disperato…Un verso come ‘Abbi pazienza, in breve riposerai anche tu’, di Goethe, può addrittura salvare dalla disperazione.”

      perché? non ne sono certa, ma, da disoccupata e precaria cronica, direi che si tratta di una forma di resistenza alle forze annichilenti attorno.

      così la voce tiene, la voce racconta, in un atteggiamento poetico quasi romantico, quasi delegittimato dai tanti tradimenti dell’io novecenteschi. proprio perché tanto investe nella corrispondenza con la vita, tanto vi crede, al lettore scafato non sembra possibile credere a questa voce impunemente. eppure, raccontando la debacle essa procede all’inverso, alla decostruzione di ciò che sembra ‘naturale’, financo del suo naturalismo descrittivo.
      mi pare che sia in tale tensione la forza sorgiva di questa poesia, che può venir scambiata per retorica, quando la sua intimità con il franare psichico e sociale di cui siamo testimoni forse non fa che smascherare la retorica da salotto à la fazio (continuo a chiedermi perché nelle sue trasmissioni continui a far leggere le brutte lettere e i brutti appelli dei disoccupati e non le belle poesie dei disoccupati).

      mi è capitato di vedere briatore che recita se stesso in quel suo deprecabile programma televisivo, il modo in cui col ditino alzato verso il cielo ‘licenzia’ gli aspiranti non-so-cosa. “sei fuori”, dice, con tutta la retorica schifosa della pubblicità, della riduzione della crisi presente a ‘gara’. che cosa opporre a quella roba?

      ho letto molte cose di franzin, alcune amate di più, altre meno, ché le nostre vie di ricerca poetica sono evidentemente diverse, ma la sua capacità di tessitura, i suoi racconti caldi, e certi guizzi immaginifici (vedi in questo testo le viti negli occhi, l’immersione nell’incubo) mi rendono il suo lavoro assai caro

      grazie, e un caro saluto
      r

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renata morresi
renata morresi
Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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