La visione del vuoto – In memoria di Michelangelo Antonioni
(Oggi sono cento anni dalla nascita di Michelangelo Antonioni. Questo lungo saggio di A.G. Cassani, docente all’Accademia di Venezia e caro amico, è un modo per ricordarlo. G.B.)
di Alberto Giorgio Cassani
«GIULIANA. Ma cosa vogliono che faccia coi miei occhi?… Cosa devo guardare?»
Deserto rosso
Il Vocabolario Etimologico della lingua italiana di Ottorino Pianigiani, del 1907,1 uno dei più longevi ed autorevoli nel suo campo, alla voce «visione», recita: «Funzione sensoria per la quale gli occhi pongono gli uomini e gli animali in rapporto col mondo esteriore, coll’intermedio della luce; Vista o apparizione di cose soprannaturali in sogno o in momento di grande astrazione di mente». Sottolineerei tre punti chiave: «luce», «mondo esteriore» e «astrazione». Penso che queste quattro parole si adattino perfettamente anche al mondo poetico di Michelangelo Antonioni. Del grande regista ferrarese, di cui il 29 settembre di quest’anno ricorrerà il centenario della nascita, si sono sempre citati i temi dell’alienazione, della malattia dei sentimenti, dell’ambiguità del reale. Altrettanto fondamentale, nel suo cinema, è la presenza delle visioni. In particolare la visione del vuoto. Su questo punto, vorrei brevemente soffermarmi in questo testo.
Antonio Costa ha parlato per Antonioni di sguardo del flâneur. Se «lo spazio di Antonioni è uno spazio urbano»2 e se, di più, lo stesso «paesaggio extraurbano, “naturale”, è visto, indagato, interrogato dallo stesso sguardo che vede e interroga lo spazio urbano»,3 lo «sguardo di Antonioni è lo sguardo del flâneur», perché «la flânerie è la forma che organizza la visione dello spazio urbano».4 È lo stesso regista a confermarlo: «Ecco un’occupazione che non mi stanca mai: guardare. Mi piacciono quasi tutti gli scenari che vedo: paesaggi, personaggi, situazioni».5
Rifacendosi sempre ad un dizionario etimologico, questa volta il Larousse, Costa cita la definizione del verbo flâner: «errare senza meta fermandosi spesso a guardare»6 e ne conclude che il «reporter, figura emblematica del cinema di Antonioni, può essere considerato l’ultima incarnazione del flâneur ottocentesco».7
Il flâneur antonioniano, dunque, non fa differenza tra metropoli, parchi urbani – «i parchi-giardini sono un luogo fondamentale della mappa urbana di Antonioni»8 – deserti o giungle9 e non si limita al mondo che lo circonda, bensì immagina anche luoghi “altri”: in Deserto rosso Corrado pensa di trasferirsi in Patagonia; nella baracca di Ugo è presente un manifesto con una radura tropicale e delle zebre;10 Giuliana – se possiamo definirla una flâneur – immagina isole misteriose (nell’episodio della favola raccontata al figlio) o luoghi di un’impossibile felicità («Chissà se c’è nel mondo un posto dove si va per stare meglio. Forse no»).11 In conclusione, per Costa, la città si presenta come «crittogramma», per il flâneur come per Antonioni: «L’immagine come enigma e come «malìa» sembra essere l’ossessione attorno a cui si organizza il cinema» del maestro ferrarese.12
Il flâneur, dunque, è continuamente colpito da “visioni”. Ma quali visioni? Pascal Bonitzer,13 che è daccordo con l’idea della flânerie – «si cammina molto nei film di Antonioni»14 – parla di «una insistente fascinazione per l’informe, l’informale, la figura che si nasconde, che si cancella, che scivola verso l’indifferenziato».15 In un caso, nella celeberrima sequenza dell’esplosione della villa in Zabriskie Point, la “sparizione” delle cose avviene attraverso questa deflagrazione, creando delle immagini, dei veri e propri quadri, che si avvicinano alla pittura informale. Contrariamente a quanto ancor oggi una certa “vulgata” di Antonioni ama sostenere, «ciò che caratterizza il suo cinema è un positivo interesse per quei deserti di un genere nuovo, quegli spazi amorfi, sconnessi, vuoti, per quel tessuto de-differenziato del mutamento urbano».16 E in questi “deserti urbani” i «personaggi di Antonioni sono attirati fino all’estremo limite dal vuoto, dal freddo, dagli spazi astratti che assorbono e inghiottono la figura umana, il viso amato, le forme del simile. L’avventura che essi vivono è una scomparsa».17 È quella tecnica di Antonioni che i francesi chiamano del temps mort e che
consiste […] nello svuotamento dello spazio rappresentato, contenuto o tagliato dall’inquadratura, un luogo abitato fino a un attimo prima che acquista presenza formale – pienezza astratta, quasi pittorica, in virtù di un’assenza narrativa che si rivela allo sguardo dello spettatore.18
Basterà ricordare il dileguamento di Anna ne L’avventura – Roberto Chiesi ha parlato di «autocancellazione»19 –, dell’aereo nelle nuvole20 e di Vittoria e Piero nel finale de L’eclisse,21 della fabbrica nella nuvola di vapore,22 della nave “contaminata”23 e del gruppo di amici nella nebbia in Deserto rosso24 (ma la stessa Giuliana e il figlio scompaiono25 dall’inquadratura finale del film), del cadavere e di Thomas, nella famosissima sequenza finale, in Blow up; Niccolò, per un attimo, nella nebbia, in Identificazione di una donna, con Mavi che lo supplica: «Non sparire, ti prego». È significativo che sia spesso la nebbia a cancellare le cose e le persone – «è stata la nebbia a confondermi…»,26 si giustificherà Giuliana per aver sbagliato la direzione del molo – quella nebbia che Antonioni, nato a Ferrara, ben conosceva, e che gli fece scrivere che «poteva pensare d’essere altrove».27 Come la nebbia, anche il fuori fuoco: come in una sequenza di Zabriskie Point, in cui la cinepresa segue per un po’ Mark e Daria e poi«li lascia fuori campo per guardare le montagne azzurre, e poi la vista si annebbia, tutto il paesaggio va lentamente fuori fuoco».28 Sull’“azzurra lontananza” si leggerà più avanti. Ma, per tornare all’interpretazione di Bonitzer, vi è un elemento positivo in Antonioni, secondo l’attore-sceneggiatore-regista francese, che va di là di qualunque malattia dell’anima o disperazione esistenziale: il fatto di tendere ad
un universo non umano e non figurativo, una apoteosi astratta. L’universo si dilata, si dissemina, si raffredda, ma in questa entropia vi è una felicità segreta, la felicità informale delle macchie. Vi è un altro punto di vista, oltre a quello, semplicemente umano, incarnato dai protagonisti, vi è quello che esprime in modo non umano la macchina da presa, quel punto di vista astratto sui movimenti qualsiasi – esplosioni, nuvole, moti browniani, macchie – sullo spazio neutro riempito di movimenti qualunque, nel quale finisce il movimento dei film di Antonioni.29
Per Bonitzer si può parlare di una vera e propria ricerca della “bellezza” del vuoto, che non è il nulla,30 ma forse si avvicina al «Poco» di cui parla Walter Benjamin in Esperienza e povertà,31 un vuoto che è allo stesso tempo un pieno, come il Tao:
Niente è più bello (e ogni film sembra non essere costruito che per questa sola fine), in un film di Antonioni, del momento in cui i personaggi, gli esseri umani si cancellano per non lasciare sussistere, sembra, che uno spazio senza qualità, lo spazio puro, “lo spazio uguale a se stesso che si accresce o si nega”. Il campo vuoto non è vuoto: pieno di nebbia, di visi fugaci, di presenze evanescenti o di movimenti qualsiasi, rappresenta quel punto ultimo dell’essere alla fine liberato dalla negatività dei progetti, delle passioni, dell’esistenza umana.32
L’“estinzione” – il nirvana – non è uno dei concetti chiave della religiosità orientale? Non è un caso che Antonioni amasse così l’Oriente e che a quel mondo fosse così vicino, come Roland Barthes aveva così ben compreso.33
Semplificando forse troppo, non è forse questo il percorso che “insegnano” i film di Antonioni?: l’uscire dal proprio egoismo, l’imparare a guardare al di fuori di sé (fin da Le amiche), il saper riconoscere l’esistenza degli altri, il riuscire a guardare con gli occhi degli altri; infine, lo svanire nel nulla. L’essere capaci di “guardare il vuoto”. Sandro Bernardi, in un suo bellissimo libro che parla anche del cinema di Antonioni, ha fatto un confronto illuminante tra due scene di Professione reporter. Nella prima, Locke e Robertson guardano il deserto: «robertson È bello, non trova? – locke Bello… non so…»;34 nella seconda, Locke e Maria sono in auto nel deserto vicino a Osuna: «locke C’è un buco nella coppa dell’olio. – maria (seduta tranquillamente sullo schienale) Che bello qui, vero? – locke Sì, molto bello…».35
Bernardi commenta:
A dire il vero, non c’è alcun paesaggio da ammirare: solo polvere, vento e sole che confondono il cielo la terra e le piante. Le parole, visibilmente, sono le stesse del dialogo con Robertson; il luogo è molto simile, e anche lo stato d’impasse è completo. Tuttavia l’atteggiamento di Locke è maturato. Ha imparato a guardare il vuoto, e questo vuoto gli appare ormai pieno di cose. Giunto allo stadio etico [da quello estetico, da cui era partito, NdA], Locke capisce che questo non consiste nel guardare gli altri per trovare una conferma della propria identità […] ma, al contrario, nella rinuncia alla propria identità, per poter guardare il mondo.36
L’occhio di Antonioni ci insegna «a contemplare l’invisibile e con esso a riconoscere, anzi ad amare i [nostri] limiti, limiti del soggetto, della conoscenza e dello sguardo».37
Mentre la protagonista di La signora senza camelie, Clara Manni, nella laguna veneziana trova solo desolazione e disperazione, Niccolò, in Identificazione di una donna, «va in laguna per guardare il vuoto, per ascoltare il silenzio».38
«Ascoltare il silenzio», perché quest’ultimo, cifra quasi scontata della poetica di Antonioni, è in realtà pieno di suoni e di rumori: riferendosi al parco della villa del padre, l’ingegner Gherardini, una villa progettata dal celebre architetto verbanese Luigi Vietti – «il Vietti. Le piace?»,39 esclama l’ingegnere rivolgendosi a Giovanni – la figlia Valentina (Monica Vitti) lo definisce «pieno di silenzio fatto di rumori».40 Anche il cielo, è pieno dei “rumori” delle stelle e lo strumento per ascoltarli è il radiotelescopio di Medicina (Deserto rosso): «giuliana Di chi sono questi cosi qua? – tecnico Questi? Dell’università di Bologna […] – giuliana Ma a cosa servono? – tecnico Servono a formare un’antenna per ascoltare i rumori delle stelle. – giuliana Me li fa sentire?».41
E poi le “visioni”, appunto. A partire da L’avventura: «Claudia si avvicina a una panchina dalla vernice tutta sgretolata, ma non siede. Tiene gli occhi fissi, quasi sbarrati sul mare, sulle onde del mare che sono un mistero anche loro».42 Deserto rosso, poi, ne è pieno: dalle sequenze iniziali dei titoli di testa con la visione delle fabbriche inquadrate col teleobiettivo, che sembrano miraggi nel deserto, dalla nave che sembra attraversare lentamente la pineta (in realtà gli alberi nascondono il canale retrostante),43 a quando Giuliana si ferma a guardare il territorio intorno alle fabbriche: «Giuliana non si è mossa. È ferma sul bordo della strada, un po’ in disparte, e guarda verso la palude, in quel punto coperta di un’erba rossiccia: un paesaggio desolato. Corrado si avvicina a Giuliana. – corrado Cosa guardi?»,44 a quando, infine, dall’interno della baracca di Max, guarda incantata il mare: «giuliana Non sta mai fermo, mai, mai, mai, mai…»,45 fino a esclamare: «Io non riesco a guardare a lungo il mare, se no tutto quello che succede a terra non mi interessa più».46 Inoltre, in tutto il film compaiono visioni di macchie di colori astratte, frutto della “malattia” di Giuliana: «corrado Cosa guardi? Giuliana indica la parete e dice: – giuliana Lì. Si lascia andare sul letto. Il suo sguardo va al soffitto sul quale appare una macchia di vario colore. Allora si copre con la coperta per non vedere»;47 o ancora: «Attorno a lei tutto è viola»48 e infine: «Qualche tempo dopo Giuliana e Corrado sono nel letto completamente nudi, immobili in una luce rosa, irreale. Tutta la stanza è rosa, gli oggetti, i mobili, i vestiti, il pavimento».49
È ancora Giuliana a raccontare al piccolo Valerio la favola in cui viene descritta la visione più misteriosa di tutte, quella del veliero:
Una mattina dal mare spuntò un veliero. Le barche che passavano di lì erano diverse, generalmente. Ma questo era un vero veliero: di quelli che hanno attraversato i mari e le tempeste di tutto il mondo e anche, chissà, fuori del mondo. Visto da lontano faceva uno splendido effetto.
Da vicino invece diventava misterioso. A bordo non si vedeva nessuno.
Restò fermo pochi minuti, poi cominciò a virare e si allontanò, silenziosamente com’era venuto.
La bambina era abituata alle stranezze degli uomini e non si stupì. Ma appena tornata a riva, ecco che…
Una voce femminile incomincia a cantare una musica molto dolce.
voce di giuliana Un mistero va bene, due sono troppi. Chi cantava? La spiaggia era deserta come sempre, eppure la voce era lì, ora vicina ora lontana. A un certo momento le parve che venisse proprio dal mare… …era una caletta tra le rocce… tante rocce che… non se n’era mai accorta… erano come di carne… e la voce in quel punto era molto dolce…
bambino [Valerio] Ma chi era che cantava?
giuliana Tutti cantavano… tutti…50
Infine, una grande visione (allucinazione?) è anche la scena del love-in fra le montagne della Death Valley in Zabriskie Point.
Anche in un altro senso si può forse parlare di visioni in Antonioni. Quando si è messo a dipingere, Antonioni ha raffigurato spesso delle montagne.51 E montagne compaiono spesso anche nei suoi film: le isole Eolie e l’Etna innevato, nella scena finale, de L’avventura, le montagne della Death Valley, in Zabriskie Point. Come non pensare al racconto di Hermann Hesse, L’azzurra lontananza?
Negli anni della mia prima giovinezza ho sostato spesso, solo, sulle alte montagne, e il mio occhio indugiava a lungo nella lontananza, nella vaporosa foschia trasfigurante delle ultime delicate alture, dietro alle quali il mondo affondava in un’infinita azzurra bellezza. Tutto l’amore della mia fresca anima bramosa confluiva in una grande nostalgia e si mutava in lacrime, mentre l’occhio beveva con sguardo ammaliato la soavità del lontano azzurro. La vicinanza delle cose patrie mi pareva fredda, dura e chiara, senza alito e mistero; al di là, invece, tutto era accordato su toni soavi, traboccante di melodia, di enigma e di seduzione.52
La «vaporosa foschia trasfigurante» non ha forse qualche affinità con la nebbia di Antonioni? E al dubbio di Giuliana che esista nel mondo un posto dove si possa essere felici – l’azzurra lontananza di Hesse –, Corrado non risponde forse: «È probabile che tu abbia ragione. Uno gira e rigira e poi finisce per ritrovarsi com’era»,53 confermando, in qualche modo, il finale del racconto di Hesse.54
Bernardi ha scritto che il sole, metafora del «mistero stesso della luce», è l’«immagine con la quale [gli] piacerebbe pensare che termini il cinema di Antonioni».55 La visione del sole compare nel fotogramma finale de L’eclisse, sotto forma della luce abbagliante del lampione nella notte incipiente – un paradossale sole “notturno” – in Identificazione di una donna, inquadrato dopo la visione dello strano oggetto, sasso o astronave, posato sul ramo di un albero e metaforizzato nel “giallo” lampeggiante del semaforo che fora la nebbia) e nei due tramonti su cui terminano Zabriskie Point e Professione reporter (una delle più belle scene finali di Antonioni).56
Dicevo che sarei ritornato sul tema della sparizione. Un altro grande artista del Novecento ha fatto della dissolvimento delle figure umane il tema centrale della sua ultima, grande fase pittorica: Mark Rothko. Come sappiamo, Rothko e Antonioni si conoscevano e si stimavano.57 Uno dei maggiori studiosi del pittore lettone, ma statunitense d’adozione, Riccardo Venturi, ha scritto che, ad indirizzare le sue ricerche sono stati
due autori lontani dalla galassia degli storici dell’arte: il poeta Emilio Villa e il regista Michelangelo Antonioni. In un periodo in cui si disquisiva sulle squisitezze degli accostamenti cromatici delle sue tele, Antonioni scriveva una lettera all’artista in cui parlava, singolarmente, dell’acciaio di New York, di panico e di angoscia, di “quadri fatti di niente” o di “quadri sul niente”.58
Molti studiosi di Rothko – e non poteva che essere così visto che da artista che indaga sulla figura umana passa nella fase finale della sua vita a dipingere rettangoli di colore (qualcuno ha parlato di “tombe”) – hanno sottolineato il tema della “sparizione” come cifra della poetica del grande pittore statunitense: da James Elkins, secondo cui l’artista «ci mostra, nel senso più profondo e generale, che cosa sia la perdita. O, per dirla con le sue parole, i dipinti contengono “presagi di mortalità”. Sono insistentemente vuoti […]»,59 a Georges Roque, secondo cui Rotkho, “sacrifica” la figura, non la nega, la fa sparire,60 a Mario Dal Bello, che definisce l’artista americano «un cieco che si sforza di vedere ciò che è oltre, il non-visibile. La realtà “altra”».61 Ma è inutile continuare. Ci interessa di più sapere cosa vedeva Antonioni nei quadri di Rothko. E allora bisogna tornare alla lettera62 che il regista scrisse all’artista da Roma il 27 maggio 1962,63 l’ultimo giorno di chiusura della mostra, visitata ben quattro volte da Antonioni, allestita alla Galleria d’Arte Moderna. Ecco il passaggio chiave della lettera:
[…] in questi quadri che sembrano fatti di niente, ossia di solo colore, scopro qualcosa di nuovo, si scopre tutto quello che c’è dietro il colore, a dargli senso, drammaticità, insomma poesia. Sono stupendi, questi quadri, signor Rothko, e del resto è ormai pacifico che questo è il limite massimo a cui può arrivare la pittura oggi.64
Antonioni riesce addirittura a cogliere uno dei temi sottesi all’opera di Rothko: che il rapporto non è tra Rothko e l’osservatore, ma tra il quadro e quest’ultimo: «Ho dovuto cercare di isolarmi e di isolare i quadri, di considerarli non tanto in rapporto gli uni con gli altri quanto in rapporto a me».65
Avendo saputo, come scrive all’inizio della lettera, che Rothko aveva acconsentito a dargli uno dei suoi quadri, Antonioni prova ad indicarne alcuni. Due, in particolare, in ordine di preferenza: il N. 7 del 1960 (catalogo Anfam 673) e il N. 9, del 1958 (Anfam 632). Del primo, Antonioni scrive:
C’è un equilibrio portentoso in questo quadro, e tutto il quadro appare come fatto di luce, come se la luce venisse da sotto il colore. È assolutamente miracoloso, per me. È veramente quello che vorrei avere davanti agli occhi tutti i giorni.66
Un quadro fatto di luce, come il fotogramma di un film.
Del secondo:
Quest’opera è di una purezza e di una forza fenomenali. C’è tutto l’acciaio di New York nel colore del quadrato superiore, così isolato dal fondo scuro: ti dà il panico, un panico cosmico.67 Questa è l’angoscia dipinta. Straordinario. Anche questo è un quadro che vorrei avere vicino.68
Ma è nel finale della lettera che Antonioni “azzarda” un legame, una profonda affinità elettiva tra la sua opera e quella di Rothko:
Ebbi già occasione di dirle quanto io senta – forse presuntuosamente – la sua pittura vicina al mio lavoro, come esperienza fantastica se non altro. Ma dietro al nostro fantasticare, sappiamo tutti che c’è il mondo intero, come oggi lo vediamo: com’è nei suoi superbi dipinti.69
Su questa frase può forse terminare, provvisoriamente, vista la complessità e inesauribilità del tema, questa mia breve riflessione sulla “visione” in Antonioni. Che è al tempo stesso sì «fantastica», ma profondamente legata alla realtà, a questo mondo. Bernardi conclude il suo saggio su Antonioni proprio con questa rivendicazione di realtà:
La realtà, suggerisce il cinema di Antonioni, è uno di questi concetti-limite, che segnano i confini della conoscenza. Non sapremo mai che cos’è, ma guai se non ci fosse, saremmo perduti anche noi. Non potremo mai raggiungerla né toccarla, è sempre altrove rispetto a dove la cerchiamo. Come il sole, come la giungla o come la natura, essa si chiude in se stessa e si allontana nel suo stesso darsi, ma ignorarla sarebbe una grave sconfitta, una terribile mancanza. Solo conoscendo i nostri limiti possiamo ancora sapere chi siamo. Sostenere che la realtà non esiste o che qualunque cosa può prendere il suo posto significa perdere appunto la coscienza dei limiti, cadere dentro la vertigine di onnipotenza cui l’illusione del cinema postmoderno si avvicina.70
E cita una frase dello stesso Antonioni:
Il momento è drammatico, ma il personaggio può anche non guardare l’altro, conosce la sua faccia, sa perfettamente cosa pensa e perché, deve guardare altrove per capire, nel vuoto.71
«Guardare altrove per capire, nel vuoto». Come nei quadri di Rothko. Come Al di là delle nuvole. Non può essere un caso che le parole finali di questo film, co-diretto con Wim Wenders, citino nella sequenza finale – in cui la telecamera scorre tra le finestre di una vecchia casa di Aix-en-Provence, osservando per un attimo le vite delle persone che ci abitano – una delle riflessioni che Antonioni aveva inserito nella Premessa all’edizione einaudiana delle sceneggiature dei suoi Sei film:
Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà.
Il cinema astratto avrebbe dunque una sua ragione di essere.72
È quell’“astrazione” che Antonioni ha inserito, quasi subliminalmente, nei suoi film, come “scatti” di pittura informale, per farci forse intravedere, per la sequenza di un attimo, quella «realtà, assolta, misteriosa, che nessuno vedrà mai».
Note
1 Roma, Albrighi & Segati, cui fa seguito un volume di Aggiunte, correzioni e variazioni (Firenze, E. Ariani, 1926); è ripubblicato più volte in versioni praticamente identiche: Milano, Sonzogno, 1937, Genova, Dioscuri, 1998, La Spezia, Fratelli Melita, 1990, Vicchio di Mugello (FI), Polaris, 1993; attualmente è disponibile in rete all’indirizzo www.etimo.it (fonte it.wikipedia.org).
2 Antonio Costa, Lo sguardo del «flâneur» e il magazzino culturale, in Michelangelo Antonioni: Identificazione di un autore: Forma e racconto nel cinema di Antonioni, A cura di Giorgio Tinazzi, Saggi di Chatman et alii, Parma, Pratiche Editrice, 1985, pp. 67-76: 68. «Paesaggio “naturale” e paesaggio urbano sono intercambiabili: il primo non è altro rispetto al secondo; la sua alterità è puramente fantasmatica e illusoria; esso non rappresenta nessuna alternativa, ma riconduce sempre e comunque al medesimo luogo da cui prende avvio la quête dei personaggi», ibid., pp. 68-69.
3 Ibid.
4 Ibid., p. 69.
5 Michelangelo Antonioni, Prefazione, in Id., Sei film: Le amiche, Il grido, L’avventura, La notte, L’eclisse, Deserto rosso, Torino, Einaudi, 1964, p. xiii.
6 A. Costa, Lo sguardo del «flâneur» e il magazzino culturale, cit., p. 71.
7 Ibid.
8 Ibid., p. 70. Basterà ricordare il parco de La notte, il parco di Blow up e il Parc Güell a Barcellona, dove avviene l’incontro tra Locke e la ragazza.
9 Ci riferiamo al non realizzato Tecnicamente dolce (dal 1966).
10 «Una parete [della baracca di Ugo] è ancora coperta quasi interamente da un manifesto turistico raffigurante una radura tropicale con delle zebre: dà l’impressione di essere in un altro luogo, in un altro clima. Corrado si appoggia allo stipite della porta e guarda il manifesto», M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 456. L’Africa è uno dei luoghi “altri” che ritornano nel cinema di Antonioni, da Cronaca di un amore (vedi, sotto, la nota 34) a Professione Reporter. Ma compare anche il Venezuela e il Cile, citati da Gualtiero ne Il grido: cfr. ibid., p. 180.
11 Ibid., p. 491. Una delle rarissime volte in cui ci si trova “a casa” in un luogo è all’aeroporto di Verona ne L’eclisse, dove Vittoria sospira: «Si sta così bene qui…», ibid., p. 386. Paradossalmente, un posto dove si parte e si arriva, dunque, non si sta. Il senso di mancanza di radicamento emerge perfettamente dalle parole di Corrado in Deserto rosso: «Delle volte mi sembra di non avere alcun diritto di trovarmi dove sono. Sarà per questo che ho sempre voglia di andarmene», ibid., p. 456.
12 A. Costa, Lo sguardo del «flâneur» e il magazzino culturale, cit., p. 72.
13 Pascal Bonitzer, Il concetto di scomparsa, in Michelangelo Antonioni: Identificazione di un autore…, cit., pp. 147-150.
14 Ibid., p. 149.
15 Ibid.
16 Ibid., p. 148.
17 Ibid.
18 Jeffrey Weiss, Temps mort: Rothko e Antonioni, in Rothko, Catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 6 ottobre 2007-6 gennaio 2008), a cura di Oliver Wick, Milano, Skira, 2007, pp. 44-55: 52.
19 Roberto Chiesi, Michelangelo Antonioni, i paesaggi del silenzio, in Atlante dei movimenti culturali dell’Emilia-Romagna dall’Ottocento al Contemporaneo, vol. III: Gli anni Cinquanta-Sessanta, a cura di Piero Pieri e Luigi Weber, Bologna, C.L.U.E.B., 2010, pp. 129-146: 136.
20 «L’aereo vira in quella direzione e penetra gradatamente nella nuvola. Per alcuni istanti è come inghiottito dalla nebbia e solo a tratti ne scorgiamo le ali», M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 385. È emblematico che la richiesta di dirigersi dentro le nuvole venga da Vittoria: «Ecco. Andiamo dentro quella nuvola là!», ibid.
21 Ne L’eclisse, scrive Chiesi, «è come se il film si fosse svuotato dei protagonisti», ibid., p. 138.
22 «Annunciato da lievi sbuffi di fumo, e poi di colpo trasformandosi in una violenta nuvola sibilante, un violentissimo getto di vapore scaturisce dal muro laterale della fabbrica coprendo la luce grigia del cielo, i silos, le baracche», M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 441.
23 «La nebbia corre sul molo e sul canale a banchi bassi, velando la massa scura della nave», ibid., p. 475. La stessa baracca di Max è «immersa nella nebbia», ibid., p. 467.
24 «Giuliana osserva i quattro che stanno davanti a lei. Dietro a loro il paesaggio è quasi completamente cancellato dalla nebbia portata dal vento. E a poco a poco anche le persone cominciano a perdere i loro contorni, a confondersi, e anche quel po’ di colore che è rimasto sparisce», ibid., p. 476.
25 «Scompare» è proprio il verbo che si legge nella sceneggiatura: «Resta la fabbrica, con le ciminiere, il fumo bianco, il fumo giallo, il vapore, i bidoni», ibid., p. 497.
26 Ibid., p. 477.
27 Quel bowling sul Tevere, Torino, Einaudi, 1983, p. 85, citato in Saverio Zumbo, Al di là delle immagini: Michelangelo Antonioni, Alessandria, Edizioni Falsopiano, 2002, p. 6.
28 Sandro Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio, 2002, p. 202.
29 P. Bonitzer, Il concetto di scomparsa, cit., p. 149.
30 Com’è invece il paese fantasma nei pressi di Noto de L’avventura: «claudia Oooh… Oooh!… Senti l’eco?… Come mai è vuoto? – sandro Chi lo sa! Io mi domando perché l’hanno costruito», M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 275; o il quartiere romano attorno alla casa dei genitori di Piero ne L’eclisse: «Davanti alla casa la strada si allarga per far posto ad una chiesa stupenda. Tutt’intorno, case ammucchiate le une sulle altre, con tante finestre vuote. Tutto un mondo fermo e stanco, come in attesa di morire. Anche il barocco della chiesa, anche il gruppo di persone che stanno uscendo dalla messa pomeridiana. Anche il soldato che mangia un gelato appoggiato al muro», ibid., p. 426.
31 Cfr. Erfahrung un Urteil, 1933, in Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, herausgegeben von Rudolf Tiedermann und Hans Schweppenäuser, IV, 1: Kleine Prosa, Baudelaire-Übertragungen, herausgegeben von Tillman Rexroth, Frankfurt am Main, 1972, trad. it. di Fabrizio Desideri: Esperienza e povertà, in Franco Rella, Critica e storia: Materiali su Benjamin, Venezia, Cluva, 1980, pp. 203-208.
32 P. Bonitzer, Il concetto di scomparsa, cit., p. 150.
33 Cfr. Cher Antonioni, in «Cahiers du Cinéma», n° 311, mai 1980, pp. 9-11, testo letto in occasione dell’assegnazione ad Antonioni del premio Archiginnasio d’Oro il 28 gennaio 1980 a Bologna, ed anche I quadri di Michelangelo Antonioni, in «La Repubblica», 27 agosto 2006.
34 S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, cit., p. 206.
35 Ibid., p. 208.
36 Ibid.
37 Ibid., p. 212.
38 Ibid., p. 211.
39 M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 331.
40 Ibid., p. 350. Per il padre, è semplicemente un parco «magnifico», ibid., p. 331.
41 Ibid., pp. 453-454. Guido, nel Planetario, in Cronaca di un amore, si limita ancora a “guardarle”: «Sembra di essere in Africa. Guardavo sempre le stelle quando ero lì», brano citato, in un altro contesto, da Antonio Costa, in Lo sguardo del «flâneur» e il magazzino culturale, cit., p. 71.
42 M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 298.
43 Cfr. ibid., pp. 458-459.
44 Ibid., p. 459.
45 Ibid., p. 471.
46 Ibid., p. 472.
47 Ibid., p. 492.
48 Ibid., p. 493.
49 Ibid.
50 Ibid., p. 487.
51 Una volta Antonioni ha scritto, con tono quasi “evangelico”: «Come seconda cosa devi imparare a guardare. Quando le cose più piccole t’appariranno grandi come montagne, torna a me», A volte si fissa un punto, Valverde (CT), Il Girasole, 1992, p. 33, citato in S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, cit., p. 212.
52 Die blaue Ferne, 1904, trad. it. di Luisa Coeta: L’azzurra lontananza: Il viaggio e il nirvana, Milano, SugarCo Edizioni, 1980, pp. 19-21: 19.
53 M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 491].
54 H. Hesse, L’azzurra lontananza…, cit., p. 21: «Così […] la vecchia patria è divenuta per te cara e lontana, forestiera la nuova e troppo vicina. Lo stesso accade per ogni possesso e per tutte le assuefazioni della nostra povera vita inquieta». Non c’è nemmeno bisogno di ricordare, a proposito di Oriente, che Hesse è l’autore di Siddharta.
55 Il paesaggio nel cinema italiano, cit., p. 211. Ad Antonioni è dedicata la seconda parte del libro, dal titolo: «Antonioni: la perdita del centro»; per il nostro discorso, è centrale l’ultimo capitolo: «Guardare il vuoto».
56 Ma un piccolo sole rosso compare anche in Deserto rosso: è la lampadina del robot giocattolo che spicca nel buio – ancora una volta un sole nella notte – della camera di Valerio, il figlio di Giuliana. Cfr. M. Antonioni, Sei film…, cit., p. 442.
57 In un manoscritto di Rothko dedicato all’incarico per i Seagram Murals – per il ristorante del Seagram Building di Mies van der Rohe e Philip Johnson – si legge: «Quando il progetto fu ultimato mi resi conto di non aver mai dimenticato la stanza di M. A.». Si tratta naturalmente di Michelangelo Buonarroti; ma le iniziali, sembrano prefigurare il futuro incontro col regista. Il testo si trova in Rothko, Catalogo della mostra, cit., pp. 169-170. Nel catalogo compare il già citato e fondamentale saggio di Jeffrey Weiss sui rapporti tra il cinema di Antonioni, in particolare Deserto rosso, e la pittura di Rothko: Temps mort: Rothko e Antonioni (vedi, sopra, la nota 18).
58 Dalla scheda di presentazione del volume Mark Rothko: Lo spazio e la sua disciplina, Milano, Electa, 2007, in http://www.electaweb.it/catalogo/focus-on/978883705501/it [24 aprile 2012].
59 Pictures & Tears: A History of People Who Have Cried in Front of Paintings, New York & London, Routledge, 2001, trad. it. di Francesco Saba Sardi, Dipinti e lacrime: Storie di gente che ha pianto davanti a un quadro, Milano, Bruno Mondadori, 2007, p. 15.
60 Qu’est-ce que l’art abstrait?: Une histoire de l’abstraction en peinture (1860-1960), Paris, Éditions Gallimard, 2003, trad. it. di Lucia Schettino: Che cos’è l’arte astratta? Una storia dell’astrazione in pittura (1860-1960), Roma, Donzelli, 2004, p. 167.
61 Ritratti d’autore: Figure della pittura europea da Duccio a Rothko, Roma, Città Nuova, 2009, p. 106.
62 Pubblicata per la prima volta in Rothko, Catalogo della mostra, cit., p. 55.
63 Dal 27 aprile al 20 maggio 1962.
64 Lettera di Antonioni a Rothko, Roma, 27 maggio 1962, cit. p. 55.
65 Ibid.
66 Ibid.
67 Come non pensare al “panico” – nel suo senso etimologico: che rimanda al dio Pan – del canto delle rocce dell’isola misteriosa in Deserto rosso?
68 Ibid.
69 Ibid. Alla fine di dicembre dello stesso anno, Antonioni riuscirà ad incontrare Rothko nel suo studio, presenti Monica Vitti e un traduttore d’eccezione, Furio Colombo, in occasione della proiezione newyorkese de L’eclisse, avvenuta il giorno 20. Peter Selz, curatore al Museum of Modern Art, che forse era presente all’incontro, riferì che Antonioni avrebbe affermato: «I suoi quadri sono come i miei film, parlano del niente [nothing]… con esattezza», cfr. Seymour Chatman, Antonioni, or the Surface of the World, Berkeley, University of California Press, 1985, pp. pp. 54 e 249 n. 2, citato da J. Weiss, Temps mort: Rothko e Antonioni, cit., p. 45. “Niente”, scrive Weiss, non è “nulla”. E cita Richard Gilman (About Nothing – with Precision, in «Theatre Arts», July 1962, p. 11): «“In effetti, i film di Antonioni riguardano il niente, che non è la stessa cosa del nulla” […]. I suoi film, continuava “senza essere astratti, senza una storia particolare, hanno invece, come la pittura più recente, un’esistenza autonoma e assoluta, sono azioni, non descrizioni di azioni”», J. Weiss, Temps mort: Rothko e Antonioni, cit., p. 45.
70 S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, cit., p. 212.
71 A volte si fissa un punto, cit., p. 26, citato ibid.
72 M. Antonioni, Prefazione, cit. p. xiv.
(pubblicato su: Ravenna Festival 1012: Nobilissima Visione, Catalogo della Manifestazione, Fusignano, Grafiche Morandi, 2012, pp. 85-91)
W MICHELANGELO ANTONIONI!!!!