Forma vs processo. Su una poesia di Bob Perelman
di Andrea Raos
L’8 maggio 2012 ho pubblicato sul blog collettivo “Nazione Indiana” la mia traduzione di una poesia dello statunitense Bob Perelman, dal titolo La marginalizzazione della poesia [The Marginalization of Poetry]. Intendo qui brevemente spiegare cosa ho fatto con quel testo e perché.
Perelman (n. 1947), comunemente associato a un movimento letterario nato nei tardi anni 60 e chiamato Language Poetry, in buona parte della sua produzione mostra una viva attenzione al “linguaggio comune”, che sottopone alla chirurgia di uno sguardo fortemente auto-riflessivo. In molti suoi scritti ha chiara valenza politica la volontà di spezzare le catene della non-coscienza, del pensiero indotto, per ricreare individui dotati di efficaci anticorpi contro le menzogne e le ipnosi del potere costituito. Si legga per esempio questa sua minuscola prosa del 1975:
NOI VEDIAMO
Nelle università, nei supermercati, nel linguaggio, dovunque la
società venga parlata, noi vediamo persone incapaci di vestirsi
in proporzioni umane, li vediamo indotti con parole gentili al
cannibalismo, li vediamo biascicare sulla spiaggia e occhieggiarsi
a vicenda, a caccia di impronte digitali, ma al tempo stesso
patologicamente incapaci di riconoscere anche solo il proprio buco
del culo nelle più banali foto segnaletiche della politica, li vediamo
irritati, intenti a rovistare… 1
Significativa l’identificazione tra università e supermercato: in quanto “linguaggio” e “società” entrambi sono, a livelli diversi, fucine di esseri-massa, incapaci di vedere da fuori la gabbia culturale che li imprigiona. “Gabbia culturale” che è a sua volta fondazione e preludio della più profonda barbarie: “indotti con parole gentili al cannibalismo”.
Nella poesia pubblicata su “Nazione Indiana”, molto posteriore (1996) al testo qui sopra, Perelman si concentra sul linguaggio accademico e sulle sue imprigionanti modalità di appropriazione della scrittura poetica e della creatività. Ne “decostruisce” (Derrida vi è direttamente evocato) le operazioni di potere insite nell’impaginare un testo, citarlo, analizzarlo; costringerlo cioè, a vari livelli e con varie modalità, nelle griglie dell’ordine costituito.
Questa poesia “mette in forma” il processo del pensiero in merito alla poesia stessa mentre viene scritta: ha tutti i tratti della riflessione accademica in prosa salvo che va a capo ogni sei parole, creando così almeno l’indiscutibile apparenza, appunto, della “poesia” (questo procedimento non è ignoto al Modernismo americano; qualcosa di simile, con versi di cinque parole, era stato fatto dal poeta oggettivista Louis Zukofsky).
Non intendo riprendere qui nei dettagli l’argomentazione di Perelman; pone il tema di come “uscire dal mondo” che inseguo da anni – o da sempre – e forse il meglio che posso fare è contemplarla, senza inquinarla troppo con parole accessorie. Mi interrogo però su cosa tradurre in quel testo, e come.
“Cosa tradurre?” è una domanda che forse sorprenderà, ma che deve essere posta nel caso di un testo che dice con chiarezza come è stato scritto (che cioè “agisce” il suo stesso andare a capo ogni sei parole), ma resta ambiguo sulle modalità della sua costruzione: concretamente, Perelman come avrà composto questa poesia? L’avrà davvero concepita in versi, pensando cioè il pensiero per unità di sei parole ciascuna, o l’avrà prima scritta in prosa per poi sezionarla? Saperlo forse non cambia molto la lettura del testo originale, se non nel ricordare la paradossale vicinanza tra versificazione “ispirata” e taglio in versi di un blocco di prosa – mi ha ricordato quanto mi aveva stupito, da ragazzo, scoprire le stesure in prosa delle poesie di Leopardi, che mai avrei creduto potessero esistere al di fuori della loro perfezione finale.
Ma il traduttore deve scegliere, e gli si presentano due procedimenti del tutto diversi. Se si presume che Perelman abbia davvero scritto il testo nel suo farsi così come appare al lettore, si impone di applicare la stessa regola anche al testo italiano; ne risultano un esercizio di stile che trascende per difficoltà i più selvaggi sogni neo-metrici e una assolutizzazione spasmodica di ciò che solo in versi può essere pensato e scritto. Se si sceglie invece il partito preso di una stesura in prosa successivamente spezzata in gruppi di sei parole, allora il procedimento da adottare diviene di una semplicità estrema; e, inoltre, la costruzione del verso viene posta in rapporto dialogico con la prosa, di cui evidenzia le criticità e l’innaturalezza.
Dunque questa poesia contiene in sé stessa l’interrogazione su come e perché è stata scritta nel suo preciso modo, e questo appare con la più grande chiarezza al momento di scegliere la strategia traduttiva. Ora posso pormi domande che non sempre mi pongo, non con questa evidenza: da dove parla questa poesia, e a chi? Cosa sarebbe se fosse stata composta in un altro modo? O se non fosse ancora stata letta, o mai scritta?
*
[Gia’ apparso in L’immaginazione, 270, luglio-agosto 2012, p. 29.]
- “We See”, in Ten to One. Selected Poems, Hanover and London, Wesleyan University Press, 1999, p. 3.↩
Davvero un bel pezzo,
grazie!
Bravo andrearà.
Pezzo d’importanza strategica per cominciare ad uscire, se non dal mondo, almeno da una porzione assai stretta di esso, ossia il “monolocale poesia”, come per lo più abitato in Italia e non solo.
In pochi paragrafi questo pezzo di Raos, che notoriamente sbuffa come un bufalo ferito, se gli si chiede di scrivere un pezzo di “critica”, ebbene in pochi paragrafi butta giù diversi muri portanti, e favorisce altrettante fuoriuscite. Una, ovviamente, verso la poesia statunitense, di cui sappiamo poco, perché ne leggiamo poca, perché poco tradotta. (E questo nonostante la benemerita coppia Vangelisti-Ballerini, e la in questo caso benemerita Mondadori). L’altra apertura è in direzione della “language poetry”, ossia della poesia che, in USA o meno, come già diverse forme d’arte visiva o plastica o concettuale, si pone in termini fortemente riflessivi del linguaggio ordinario, senza per questo esprimersi attraverso un discorso teorico o puramente concettuale. Infine, e questo mi sta particolarmente a cuore, il discorso sulla frontiera prosa-verso. Dovranno passare probabilmente ancora un po’ di decenni, prima che le alte istituzioni del sapere, e i praticanti titolati della poesia comprendano che questa frontiera è da tempo ormai interna alla poesia stessa. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di attraversare l’Atlantico per convincersene. Raos ricorda l’esempio di Leopardi e del commutatore prosa-verso. Ma anche solo traversando le Alpi, il signor Ponge spiegava questo con dovizia di dettagli.
Ma ne riparleremo.
le parc n’a pas de limite, la limite du parc est à l’intérieur du parc… (Tarkos)
Bene. Raos nel suo pezzo – ci voleva, accidenti – e Inglese nel thread illuminano a giorno un sentiero di montagna, di quelli partigiani, che si percorrevano al calar delle tenebre. Sono pronto con lo zaino. franco
Grazie Franco, io porto i panini :) Un abbraccio, A.
Sì, ma stiamo attenti un po’ tutti che da partigiani prima o poi si fa sempre brutti incontri.
Magari ci imbattiamo nel solito critico che parla di poesia morta…
la traduzione è un safari per la mente,in nave o a dorso d’asino non lo so(“insieme a molte altre cose”,certo).Di certo con la guida che a un certo punto sparisce nel mistero
http://www.youtube.com/watch?v=dAZ7mlayW1o
Non è attraversare l’Atlantico, è attraversare la lingua, traslocare il vincolo con la parola, conoscere il sentimento della fragilità, sentire che qualcosa scappa, si esperimenta la caduta della lingua e la felicità di avere superato la frontiera, anche se confine non esite in poesia: è spazio libero senza lezione.
E’ davvero molto bella questa riflessione di Andrea Raos. Mi ha fatto pensare alle questioni poste dalla “traduzione” dalla poesia cinese, nella quale ciascun verso è fatto di tot parole; Pound risolse la questione partendo proprio da quelle immagini – ideogrammi; e quella “regolarità” diventava la irregolarità di un verso necessariamente irregolare, ma insieme del solo che riusciva a ripetere quell’unicum verbale del verso cinese.
Grazie a tutti. Se interessa, incollo qui il poco che avevo fatto della prima traduzione della stessa poesia, condotta rispettandone la “metrica” (ma avevo smesso quasi subito perchè mi ero stufato – da cui il sottotitolo “seconda versione” di quella poi pubblicata).
Eterne occasioni, le poesie? Se è così
il contesto pre-eterno per quanto segue
fu un panel sulla “Marginalizzazione della
poesia” presso la American Comp. Lit.
Conference a San Diego, l’8
febbraio 1991, alle 2:30 del pomeriggio:
_______________________________________
“La marginalizzazione della poesia” – va quasi
da sé. Jack Spicer ha scritto
“Nessuno ascolta la poesia”, sì ma
la domanda allora diventa, chi è
Jack Spicer? I poeti per cui
conta lo sanno, le loro poesie
saranno state scritte in un mondo
in cui quel verso è noto,
benché non lo citino molto spesso.
Citare o imitare un verso di un poeta
non è benigno, benché a volte
questa pratica possa ricordare la piaggeria.
Entro le frontiere del discorso accademico,
gli schemi di produzione e di circolazione
sono diversi. Lì va – ancora – da
sé che parole, nomi, termini sono
ripetibili: la citazione è il più importante
indice di potere. Un linguaggio originale
non è l’obiettivo; in quale misura
una frase o un periodo si adatta
a una molteplicità di contesti determina
quanta e quale influenza riuscirà a determinare.
“La marginalizzazione della poesia”: le parole
stesse mostrano la lingua franca dominante
delle discipline accademiche nonché, di converso,
l’abietto statuto d’oggetto della poesia:
non è facile pensare una poesia
in cui appaia il termine “marginalizzazione”.
Sta venendo usata qui, però questa
potrebbe essere una poesia ma anche
no: questi distici di versi di
sei parole non impongono un ritmo
riconoscibile; forse non si stanno, per
usare la mercantile metafora calvinista, “guadagnando”
il diritto di esistere in questa
forma – questo è un a capo
oppure sto semplicemente tagliando in pezzetti
una irriducibile prosa? Ma per difendere
questa (poesia) dal proprio attacco, devo
dire […]
*
A questo link parte del testo originale (o forse una versione precedente, non so bene; comunque è un po’ diverso dall’edizione su cui mi ero basato io):
http://pmc.iath.virginia.edu/text-only/issue.991/perelman.991
ah, finalmente sto cominciando a capirci qualcosa: la prima versione era quella in cui il traduttore agisce verso per verso, nella seconda, diciamo, pratica quel discorso – e si chiede, giustamente: era così che doveva andare? considerando che il “linguaggio originale / non è l’obiettivo” (che, nella prima versione, suona veramente puntuale), la traduzione raddoppia il problema di Perelman: come difendo questo testo dal proprio “attacco”? se fare poesia non è tagliare un testo, ma costituire un campo di forze, obbedire a una costrizione, qual è qui il vincolo? come agisce questo tipo di potere?
che gran poesia questa, che riesce a pensarsi mentre si fa – e chi traduce entra nella sua darkroom (in un rapporto più utile? “un leggere e uno scrivere più critici / più comunitari”? di certo più creativo della vecchia opposizione traduttore-traditore: “e qui il traduttore aggiunge qualcosa…”)
un esempio italiano (contemporaneo) di procedimento analogo: “plastico”, di jacopo ricciardi, ed. il melangolo, 2006. tutti versi di cinque parole ciascuno. tagliati a posteriori? generati a priori?
ciao raos bello tutto
il divenire quello che passa si sente si vede
il cuore della poesia che batte
e dentro il poeta ascolta contando
c.
ma non sarà magari cosa strana
lasciare qui commenti a sei parole
nell’eco mera dell’altro poeta?