Nuovi autismi 25 – I miei vermi

di Giacomo Sartori

Non avrei mai pensato che sarei finito a cincischiare con i vermi. E a dir la verità non è stata nemmeno una scelta tanto amletica: a un dato momento ho dovuto prendere atto che i vermi erano lì nella mia vita, ben presenti, e mi accompagnavano qualunque cosa facessi. Si potrebbe dire (certo sarebbe subdolamente inesatto, come tutte le cose che si dicono o scrivono) che i vermi sono strisciati nella mia esistenza senza che nemmeno me ne accorgessi. D’altra parte le reptazioni silenti sono il loro pane quotidiano: non credo che ai bambini dei paesi bisognosi chiedano il permesso, prima di concupirne l’apparato digerente. E nemmeno ai cani mandano una lettera di preavviso. E tanto meno ai cadaveri, la cui ostinata specialità è starsene zitti. Entrano dalle orecchie, dai buchi del naso, dalla pelle, senza suonare il campanello e senza annunciarsi. Come succede ai bambini dei paesi bisognosi e ai cani, in me sono irrotti prima del decesso: è un dato importante. Ma invece di insediarsi nella pancia mi hanno colonizzato il cervello. Per primi sono arrivati i lombrichi, lunghi lombrichi anecici e sincopati lombrichi epigei, e poi sono seguiti altri oligocheti, ma anche qualche platelminta, come spesso succede nella confusione dopo che un’ardita avanguardia ha aperto una breccia. Non dico che penso sempre ai vermi, perché rifletto in fondo – pur non essendo un gran pensatore, è bene specificarlo – anche a tante altre cose, però insomma ci penso spesso. Il fatto è che a conoscerli i vermi sono affascinanti: non sono solo grandi lavoratori, ma anche e soprattutto intrepidi viaggiatori, coraggiosi colonizzatori, organizzatori alacri, fini precettori e mentori di microbici seguaci, pazienti pedagoghi, con disposizioni al contempo di filosofi antichi e di trascinatori di folle. Noi dimentichiamo troppo spesso che tutto quello che la natura sforna, che non è poco – fiori, banane, erbacce, alghe, foreste, sciami di api, banchi di pesci, balene, elefanti – va distrutto e riciclato, tutto quello di putrescibile che confeziona l’uomo, e non è poco, va debellato e rimesso in circolo. Senza parlare degli uomini stessi, che pullulano come conigli, e in qualche modo alla fine del ciclo vanno smaltiti. Siamo abituati a considerare il numero di umani presenti sulla terra, e non contabilizziamo mai la cifra angosciante di uomini che si sono succeduti nell’arco per esempio di cinquecento anni. Per zelo positivista poniamo costantemente l’accento sulle nascite, sulle costruzioni, ma presupposto dell’edificazione e della crescita sono lo smantellamento e la devastazione. Non foss’altro che per fare spazio. Cosa succederebbe se tutti i fiori che regaliamo non si decomponessero, se i nostri escrementi fossero inossidabili, se i boschi nei quali passeggiamo continuassero a lievitare e ancora lievitare, se i topi si moltiplicassero all’infinito? Cosa accadrebbe se non ci fossero i vermi? Chi se non loro è sempre in prima linea per fare piazza pulita, per far posto a quello che verrà? Chi si rimbocca le maniche per primo, aprendo la via alle armate di organismi decompositori? Non è cosa da poco disintegrare le montagne di tessuti morti e di poltigliame organico che si accumulano ogni giorno, ci vuole costanza e sangue freddo, ci vuole coraggio. Io credo che dobbiamo una grande riconoscenza ai vermi, credo che dovremmo esprimere in qualche modo la nostra gratitudine. Ma non sono certo un grande esperto di vermi, intendiamoci. Anche in questo campo sono un dilettante, come in tutte le altre cose. Me ne occupo con il mio solito baldanzoso pressapochismo, con inverni letargici e picchi di frenetico dinamismo, senza l’abnegazione e la coscienziosità che ci vorrebbero. Bazzico degli insigni conoscitori di vermi, questo sì. In particolare frequento da anni un anziano tedesco che è un’autorità mondiale in fatto di una peculiare sorta di vermettini impudici: la loro caratteristica è quella di essere trasparenti. Si vede quindi al loro interno, proprio come a un orologio Swatch. Si osserva cos’hanno mangiato, a che punto è la loro digestione, se avanza o c’è qualche inghippo. È conturbante. Pur non essendo molto mediatici sono vermi assai importanti: ben più stoici dei lombrichi, non disdegnano i siti ostici da questi snobbati. Mentre ci aggiriamo per i boschi – come è noto i cimiteri e i boschi sono i posti più adatti per studiare i vermi – questo attempato e altissimo teutone, che ha una testa molto allungata e una delicata pelle di neonato, mi parla senza sosta: intende forse debellare la mia ignoranza. Mi illustra le abitudini dei vermi, le loro preferenze, le idiosincrasie, mi elucida macchinosi segreti della loro fisiologia. Io ascolto a bocca aperta, perché è davvero molto interessante, e non finisco mai di stupirmi. L’inglese di questo bislungo sapiente – con il suo interminabile collo e la sua capoccia lustra fa pensare lui stesso a un enorme verme – non è però molto buono, è oscurato da un rimbombo gutturale, simile a quando per gioco si parla in un tubo. Ma insomma qualcosa capisco, qualcosa assimilo. Le prime volte gli davo appuntamento all’alba, perché per le cose di lavoro amo mostrarmi efficiente e zelante. Poi ho capito che preferisce di gran lunga alzarsi tardi: da cinquant’anni passa le notti a studiare i vermettini al microscopio, a descriverli e a classificarli. Detto tra parentesi la moglie, che lavora in una libreria ebraica, al bisogno nelle lunghe serate nibelunghe lo aiuta: separa dalla terra i vermi, anche quelli più minuti, invisibili a occhio nudo, e li prepara per essere osservati. Spesso questo erudito si addentra nei meandri più tortuosi della tassonomia, e allora annaspo un po’ e tossisco: la classificazione dei vermi è davvero ostile, e per quanto ho capito in certi punti nemmeno tanto salda. Del resto tante cose che mi dice il mio anziano collega, forse farei meglio a chiamarlo maestro, le dimentico, come dimentico più o meno tutto, perché la mia memoria non è molto buona. Ma naturalmente frequento anche diversi altri luminari, ognuno con le sue ossessioni e peculiarità. Uno è molto magro e distrattamente lugubre, un vero don Chisciotte francofono, e nel tempo libero suona la cornamusa. Di un altro, molto peloso, si narra che durante il sessantotto facesse lezione con solo un asciugamano annodato alla vita, e dissacra con pulite stilettate rabbiniche qualsiasi teoria scientifica dominante: un vero terrorista. Questi attempati sapienti sono tutti gentili con me, mi ascoltano sorridendo come si sorride ai bambini che prima o poi finiranno per fare dei progressi, o almeno si spera. Io li ammiro perché hanno uno scopo nella vita e lo perseguono, perché fanno bene quello che fanno. In loro presenza provo nostalgia per quello che non sono, e che forse avrei potuto essere. Mi guardo indietro, e mi rammarico di non essere stato qualcosa di più preciso. Qualche volta però mi domando cosa ci trovino in me, e perché mi diano retta. Certo, io gli passo qualche informazione sulla casa dove vivono molti vermi, la terra, che è una mia amica, ma dal mio punto di vista sono cosette ultraovvie, paccottiglia di dubbio valore. Loro però sembrano apprezzare. Forse perché il loro sapere a un certo punto si ammutina di botto, come succede a tanti sapienti dei giorni nostri: hanno bisogno di una guida per addentrarsi negli orti adiacenti. O forse fingono di stimarmi solo per farmi piacere, o per buona creanza, vallo sapere. In ogni caso facciamo lunghe riunioni telematiche su questo o quel mistero di un singolo verme, o più spesso di un gruppo di vermi. Quando abbiamo le idee ben chiare scriviamo un articolo per una rivista scientifica, o prepariamo una comunicazione orale per un congresso che in qualche modo ha a che fare con i vermi e la decomposizione. Ai convegni naturalmente ci vanno poi loro, con i miei occhi ironici io sarei visto come un intruso. Qualche volta, raramente, ci troviamo di persona e beviamo alte birre, parlando in allegria dei nostri vermi.

(l’immagine: Sam Doyle, “Stepping out”, olio su latta)

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2 Commenti

  1. Lei è intelligente e mi diverte la sua scrittura.
    Non sarà granchè come intervento, questo mio; ma lo preferisco ai Proclami che attirano altrove le folle.
    Mi stia bene.

  2. grazie del complimento: anche se mi sembra decisamente immeritato (= l’intelligenza), mi ha fatto molto pensare (e ne uscirà mi sembra qualcosa);

    ma non vedo opposizione: certo l’indignazione, e ancora più la sommatoria delle indignazioni, seppure di persone anche molto intelligenti (certo più di me), è risibile, però cosa resta da fare, di fronte a un accadimento come quello?; del resto Andrea Inglese, il postante del post in questione, è uno specialista dello slalom tra “proclami”, come dice lei, e “intelligenza letteraria” dei testi; come mi sembra NI in generale

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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