Giornalismo e politica nel Ventennio – Quando Corrado Alvaro ritrasse in punta di penna e con qualche problema Luigi Albertini, direttore del Corriere della Sera
di Domenico Talia
È un libricino di sole cinquantasei pagine stampato in 32°; dimensioni praticamente uguali a quelle di un iPhone. Quando fu pubblicato, nel 1925, costava 2 lire. Ho ritrovato la prima edizione quasi per caso e l’ho comprata per alcune decine di euro. L’autore è Corrado Alvaro, il titolo “Luigi Albertini”. L’ho letto con la cura e l’attenzione che richiedono le piccole cose preziose. Alvaro l’ha scritto nell’autunno del 1924 per l’editore Formiggini che aveva deciso di inaugurare con quel libro la collana ”Medaglie” dedicata ai profili di personaggi illustri. La collana ebbe qualche difficoltà per i suoi contenuti non proprio “allineati” con il regime e per questo molti volumi furono ritirati dalle librerie. L’oggetto del libro di Alvaro è Luigi Albertini, senatore del Regno e grande direttore del “Corriere della Sera”. Il libro è piccolo, ma il suo contenuto va oltre la biografia, perché raccontando di Albertini, Alvaro in realtà narra del clima politico nei primi anni del funesto ventennio fascista insieme al ruolo e al costume del grande giornalismo italiano.
Luigi Albertini non è stato uno tra i tanti direttori del “Corriere”. Fu assunto al “Corriere della Sera” dal suo fondatore napoletano Torelli Viollier quando aveva 26 anni e solo dopo tre anni, nel 1900, divenne direttore del giornale. Nonostante la sua giovane età, Albertini è stato un direttore imprenditore che ha preso per mano il “Corriere” portandolo dalle 100.000 copie vendute nel 1900 alle 800.000 del 1925 quando fu costretto a lasciarlo per le violente pressioni di Mussolini e del regime. Nel frattempo aveva creato il supplemento “La Domenica del Corriere” e “La Lettura” che ancora oggi il “Corriere” pubblica come supplemento domenicale. Alvaro scrive di Albertini: «Egli aveva fatto prosperare il Corriere della Sera come una macchina misteriosa di produzione perfetta.» Ma subito aggiunge «A mano a mano che si perfezionava … diventava sempre più distante, più prudente, più solenne.» Ancora più esplicitamente Alvaro accusa la “macchina perfetta” di Albertini di essere stata fino al 1920 un giornale «retrogrado, abitudinario, sedentario, nocivo» nell’opera di rinnovamento della cultura italiana. Nei fatti, Alvaro attribuisce al “Corriere” di Albertini la responsabilità di non aver saputo opporsi, per scarso coraggio e per opportunismo, alla nascita del fascismo e alla sua presa del potere. Un’arrendevolezza, secondo Alvaro, che il giornale condivise con la classe che rappresentava, la borghesia conservatrice che sembrava più preoccupata dei movimenti di sinistra, socialisti e bolscevichi, che del manganello e della marcia su Roma dei fascisti. In quelle pagine un Alvaro antifascista e antiborghese inquadra Albertini «tra le figure più spiccate della reazione italiana» fino al 1923, quando la posizione di Albertini e del suo giornale cambia fino a diventare di dura opposizione al regime.
Corrado Alvaro conosceva bene il “Corriere della Sera” anche perché vi aveva lavorato per circa due anni. Fu presentato al Corriere da Antonio Giuseppe Borgese e fu assunto al giornale nell’estate del 1919 durante la direzione di Luigi Albertini. Alvaro aveva soltanto 24 anni e già veniva da un’importante esperienza giornalistica fatta al “Resto del Carlino”. Al “Corriere” lavorò soltanto due anni. Infatti, Alvaro lasciò il Corriere tra la fine del 1920 e gli inizi del 1921 perché aspirava ad un ruolo più importante di quello che gli era stato affidato e forse anche perché non condivideva le posizioni politiche del giornale. Posizioni conservatrici e contrarie ai movimenti delle classi popolari che lui critica apertamente nel libro.
Nella descrizione che Alvaro fa di Albertini c’è posto anche per qualche memoria del suo periodo al “Corriere”. Alvaro descrive il giornale con una certa ironia come «una macchina lucente che si muove su fulgide ruote senza scosse né frastuono … » con «i redattori chiusi nelle lunghe stanze, sotto i coni verdi di luce intenti alla delicatezza d’un viraggio fotografico…». Racconta dei richiami che riceveva all’importanza dell’incarico, alla responsabilità e alla delicatezza del lavoro: «Guardatemi bene in faccia. Io che non ho tremato di fronte al nemico … ebbi i più vili dubbi ortografici sulla punta della mia penna, la più tetra disperazione nell’animo.» In quelle pagine c’è una descrizione magistrale della situazione del giornalismo italiano nei primi anni 20 del ‘900 e della vita al “Corriere”, del suo ruolo nell’Italia post-bellica e fascista e sullo stile di quel giornale costruito e modellato da Albertini. Sono pagine che meritano di essere rilette e che anche oggi possono spiegare un certo tipo di giornalismo che non aveva l’ambizione esplicita di formare l’opinione pubblica ma, ponendo le notizie al centro della sua missione, di fatto si uniformava allo spirito pubblico e lo assecondava cercando un consenso ampio che comunque riusciva a ricevere.
Nel suo periodo al giornale il rapporto personale di Alvaro con Albertini fu solo telefonico o epistolare. Tuttavia, Alvaro approfitta della necessaria descrizione della personalità di Albertini, per raccontare nel libro il suo rapporto con il direttore al Corriere. Confessa di non averlo mai incontrato di persona, ma di essersi fermato diverse volte davanti al ritratto cubista di Albertini «con il suo cranio nudo e rotondo» e di essersi messo a ridere pensando allo stato di malessere che prendeva i redattori quando Albertini chiamava qualcuno di loro al telefono.
Queste pagine sulla vita e sul ruolo del giornale finiscono con altre note personali di Alvaro sul suo periodo al “Corriere della Sera” che possono aiutare a comprendere qualcuna delle ragioni che hanno portato Corrado Alvaro a lasciare il suo posto al “Corriere” a 26 anni. «Fin dal primo giorno di lavoro al Corriere è un esercizio di adattamento e di sottomissione. Occorre che il soggetto sia saturo dell’atmosfera del giornale prima di poter muovere qualche passo. Tutto il suo ingegno è affinato dai bisogni del giornale. … Ricordo che fui colpito dall’attenzione con cui i poteri centrali erano informati dell’attività dei redattori e perfino del loro umore.» C’è abbastanza per comprendere come Alvaro non si sentisse valorizzato in quel grande giornale e come l’atmosfera che respirava al “Corriere” era per lui troppo soffocante.
Dopo aver lasciato il “Corriere”, Corrado Alvaro andò a lavorare a “Il Mondo” di Giovanni Amendola come corrispondente da Parigi e poi come redattore. Al contrario del giornale di Albertini, anche prima del 1923 “Il Mondo” aveva una chiara impronta antifascista e per questa ragione subì molti attacchi dal regime. Amendola stesso fu aggredito nel 1923 e più gravemente due anni dopo. Morì nel ’26 in Francia a causa di quella seconda aggressione. Dopo la sua morte, il suo giornale fu soppresso assieme alla libertà di stampa e alle libertà politiche in Italia.
Nel 1923 la posizione politica di Luigi Albertini e del suo “Corriere” nei confronti del fascismo cambiò radicalmente: l’iniziale benevolenza divenne opposizione dura. Nel 1923 e nel 1924, la lotta di Mussolini contro l’opposizione fu più violenta e il fascismo non poteva tollerare che un grande giornale come il “Corriere della Sera” facesse resistenza alla sua politica di eliminazione dell’opposizione. Per questa ragione il senatore Albertini direttore del “Corriere”, era diventato uno degli uomini che Mussolini temeva e detestava di più in Italia. Si racconta che lui arrivò a confidare al suo stretto collaboratore Cesare Rossi che fosse necessario spezzare la schiena ad Albertini: «Voglio vedere rotolare un cranio lucido senatoriale in piazza Colonna», la piazza dove Albertini aveva il suo ufficio romano.
Alvaro scrisse il libro su Luigi Albertini nell’autunno del 1924 e l’editore Formiggini lo pubblicò nel 1925. Molte cose erano cambiate da quando lui aveva lasciato il “Corriere” e lo scrittore di San Luca aveva pensato di poter ritornare a scrivere per quel giornale. Infatti, nel 1923 Corrado Alvaro scrisse un articolo su “Il Mondo” in difesa del “Corriere” e degli scrittori italiani contro le minacce fasciste. Quell’articolo fu molto apprezzato da Albertini che gli scrisse una lettera per ringraziarlo. Forse anche per questa ragione, nel completare la descrizione dell’atmosfera e dei giornalisti che lavoravano nella redazione del “Corriere”, Alvaro scrive nel suo libro: «Queste cose mi facevano balenare alla mente verità che fino allora avevo respinte. Ma credo che la specie degli uomini di quel genere si vada perdendo, con tutto il disperato amore di quella ribalta che è il Corriere … dove è ugualmente bello stare, …».
Mentre Alvaro scrive il libro su Albertini, il 10 giugno del 1924, i fascisti uccidono il deputato socialista Giacomo Matteotti. Il 3 dicembre di quell’anno, Albertini tenne al Senato un discorso che fu definito “il canto del cigno della libertà italiana”, proponendo il concetto che «scandalo aggiungendosi a scandalo, il fascismo avesse ormai descritta la sua parabola, e dovesse presto o tardi rinunziare a dominare la nazione …». In quell’occasione il Senato votò ancora la fiducia a Mussolini e purtroppo lasciò cadere l’appello di Albertini.
Nei mesi successivi la violenza del regime e dei suoi squadristi si fece sempre più insostenibile. Il 1° maggio del 1925 fu pubblicato il manifesto degli intellettuali antifascisti ispirato da Giovanni Amendola e Benedetto Croce e firmato anche da Corrado Alvaro e Luigi Albertini. Il Duce voleva dare una dura lezione ai suoi oppositori e in particolare ad Albertini, direttore di un “Corriere” ormai di opposizione eppure letto da quasi un milione di italiani. Mussolini e Farinacci, nuovo segretario del partito, non nascondevano le loro intenzioni e rilasciavano dichiarazioni ultimative nei confronti di Albertini e del suo giornale: «Raderemo al suolo la vostra indegna baracca.»
Alla fine Mussolini non rase al suolo il “Corriere” ma costrinse i suoi proprietari a cacciare Albertini. Dopo una serie di intimidazioni, il regime ottenne le dimissioni di Luigi Albertini dalla direzione e dalla società editrice del “Corriere della Sera”. L’uscita di Albertini dal giornale avvenne il 27 novembre del 1925. Tramite cavilli giuridici la proprietà passò interamente ai Crespi, industriali tessili milanesi che si piegarono alla volontà del regime.
Il 1925, l’anno della pubblicazione del profilo di Luigi Albertini, fu un anno duro per lui ma anche per Alvaro. Quel libricino raccontava senza ipocrisia un uomo e il suo giornale, ma allo stesso tempo conteneva affermazioni coraggiose che erano un atto d’accusa contro il fascismo e che oggi hanno un valore di testimonianza storica. Ad iniziare dalla critica all’appoggio della borghesia verso il fascismo: «Venne così la marcia su Roma, pagata e favorita dalla borghesia interrorita che aveva allevato per tre anni il movimento (fascista) … ma molti di noi, pur lontani dalla politica, creati dalla guerra, non nasconderanno un sentimento di profonda ripugnanza verso quello che la borghesia ha preparato all’Italia». E proseguendo con un giudizio netto nei confronti del regime scritto mentre il Duce era osannato dalla maggioranza degli italiani: «Con l’avvento di Mussolini la crisi nata dalla guerra doveva raggiungere il grado più acuto formando la situazione più grave che la storia dell’Italia cinquantenaria ricordi.» Fino a condannare il fascismo ormai «macchiato di delitti di bassa criminalità» che aveva generato una situazione in cui «La lotta economica si è ridotta a lotta morale, la battaglia dei salari è divenuta battaglia di vita.»
Queste note scritte da Alvaro in un momento storico in cui il fascismo aveva ormai rivelato la sua natura violenta e repressiva arrivando ad assassinare i suoi avversari politici, insieme alla sottoscrizione del manifesto degli intellettuali antifascisti, chiarisce il suo pensiero e il suo coraggio civile nei confronti del fascismo che qualche critico ha tentato di mettere in dubbio. La risposta alle critiche ingenerose credo l’abbia data lo scrittore stesso: «Ero antifascista, per temperamento, per cultura, per indole, per natura. Non ero mai stato antifascista professionista, faccio di tutto per essere un uomo libero». Aggiungendo, in risposta a chi lo aveva accusato di amicizie con qualche esponente del regime, senza retorica con l’estrema franchezza di uomo libero: «Ho reso a qualche fascista la tolleranza che alcuni di loro ebbero per me e di cui io non abusai, ma di cui rimango grato.»
Nel 1926 Alvaro tentò di essere riassunto al “Corriere”, anche se per pubblicare contributi in forma anonima. Il suo tentativo sembrava poter avere successo, ma il fascismo non voleva al “Corriere” un giornalista e uno scrittore oppositore dichiarato del regime. La nuova direzione del “Corriere”, designata da Mussolini, rinunciò imbarazzata ai contributi di Alvaro al giornale e all’inserto “La Lettura”, a suo dire per non ricevere «attacchi sospetti verso il giornale». Solo nel 1942, dopo sedici anni e poco prima del crollo della dittatura fascista, lo scrittore calabrese riprese la collaborazione con il “Corriere della Sera” che proseguì fino al 1956, anno della sua morte.
[Questo articolo è stato pubblicato su Il Quotidiano di Calabria l’8/7/2012]
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Ottimo Articolo..Complimenti al sito
Corrado Alvaro andrebbe riscoperto. Il suo “Quasi una vita” è una denuncia fortissima di quanto accadeva negli anni Trenta non solo in Italia (della cui borghesia egli denuncia senza timore il conformismo e il bieco maschilismo, nonchè l’asservimento fantozzesco al dittatore) ma anche in Germania (si capiscono tante cose della piega che gli avvenimenti avrebbero preso) e della Russia! Bravissimo Alvaro, va rivalutato! Quanto alla vita nei giornali, ecco forse sono gli ultimi residui, i giornali, di un regime dittatoriale interno e di bieco asservimento all’editore tramite il suo portavoce, il direttore…ancora oggi!