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La dissoluzione familiare

 

di Alessandro Chiappanuvoli

 

Enrico Macioci, La dissoluzione familiare, Indiana editrice, 2012

“Dubitare sempre o quasi dalle recensioni degli amici” è una regola aurea. Scrivere, quindi, la recensione, non solo del libro di un caro amico ma anche di un concittadino che ha vissuto sulla sua pelle gli stessi drammatici eventi da me vissuti all’Aquila il 6 aprile 2009 e nei lunghi mesi a seguire, sposta, se possibile, l’ago della bilancia qualche tacca più in là, nella zona ancora più impervia della critica soggettiva, inevitabilmente di parte. È bene che questo Le sia chiaro, lettore, è bene che Lei sappia che l’unica difesa che posso mettere in campo è la mia (presunta) onestà intellettuale. Il libro in questione è La dissoluzione familiare di Enrico Macioci.

Ho avuto il libro in regalo da Enrico in persona lo scorso aprile. Fin dal primo sguardo una bolla di calore mi ha invaso la gola. Ho capito subito che quello che avevo tra le mani non era un semplice volume, ma un’opera, un testo su cui l’Indiana ha deciso di puntare seriamente. Copertina rigida, formato quasi quadrato 20×22 cm per 336 pagine, illustrazioni di Maurizio Rosenzweig, impaginazione certamente particolare per inserire l’enorme quantitativo di note (dichiarata da parte dell’autore l’influenza di Infinite Jest di D. F. Wallace), progetto grafico del design studio 515 creative shop. Non un libro qualsiasi, ma una sfida editoriale, un progetto. Davanti al sorriso timido di Enrico, la bolla di calore è presto esplosa nella mia bocca, ne ho assaggiato il sapore, era invidia, umanissima invidia. C’è gente (Bernardino Sassoli de’ Bianchi e Giulio Mozzi su tutti) che crede in questo aquilano un po’ schivo ma dolce, ho pensato; e di colpo la felicità ha lavato via il sapore cattivo.

Ci sono voluti due mesi perché iniziassi a leggerlo e altri due mesi per concluderlo. So che potrebbe essere una prospettiva non proprio allettante, ma La dissoluzione familiare non è un libro facile, non lo è per un generico lettore, non lo è, a maggior ragione, per un lettore aquilano. La chiave di lettura sarcastica diventa comprensibile solo con l’andare avanti nei capitoli e la “merda” di cui tratta, l’immondo rifiuto organico manipolato da Enrico è ancora troppo “fresco” perché non generi in un terremotato quale io sono un’angosciosa repulsione difensiva. Pian piano però i nodi in gola si sciolgono, l’abitudine e la trama prendono il posto dell’istintivo rigetto e del dolore.

Ne LDF c’è una città squassata da un terribile terremoto. C’è la nascita di un bambino, il piccolo Poppy. C’è l’Ospedale della Sacra Frattura, principale teatro della narrazione, con i suoi degenti e i suoi reparti, metafore dissacranti della nostra società. C’è una famiglia, una famiglia come tante le altre, dilaniata da nuovi e antichi rancori, sempre indissolubilmente legati. C’è il Governo Centrale che deve far fronte alla catastrofe, guidato da un losco mitomane di bassa statura (morale) e dal suo braccio destro, un certo Bert Lassative. C’è il sempiterno ronzio sul fondo della televisione di Stato, giudice incontestabile, guida indiscutibile. Ci sono i vari personaggi che arricchiscono con il loro sapere specifico la trama della vicenda. C’è Don Sisma, un prete colosso che deve portare a compimento il battesimo del piccolo Poppy. C’è Silvanus, enigmatico naturalista che torna alla civiltà per far visita al nascituro. C’è San G., maestro di vita dai poteri sovrannaturali che rimpingua le dissertazioni del protagonista, il Principe Ham Bank, padre del piccolo Poppy, con la sua immensa conoscenza filosofica. C’è Ham Bank, la cui paternità lo spingerà a confrontarsi con l’intrinseca catarsi del miracolo della vita. C’è questa nascita appunto, qualcosa di nuovo dentro qualcosa di rotto, una fragile vita in una città distrutta, un ossimoro che forza tutti i protagonisti al confronto, al ripensare se stessi e la propria esistenza, in un tempo ormai materialmente e culturalmente fin troppo decadente, in un tempo nel quale ognuno di noi, nel proprio piccolo, è ormai costretto ad agire per una ricostruzione necessaria.

Questo libro, come detto, non è un libro facile. Il linguaggio a tratti può essere ostico, si alternano in continuazione lunghissime boccate d’aria descrittive ad asfittiche elucubrazioni mentali, deliranti e filosofiche. Lo spazio di libertà lasciato dall’autore è ridotto. Per il lettore ci sono due possibilità: 1) abbandono totale alla scossa del flusso di coscienza e fiducia incondizionata nelle derive verso cui il testo può far approdare; 2) confronto partecipato, lettura attiva, disponibilità a mettere in discussione prima di tutto se stessi, poi le proprie certezze. Come un terremoto però, proprio come un terremoto, LDF quando arriva ti scuote, ti trascina, ti distrugge, lascia in piedi solo ciò che è realmente costruito a regola d’arte. Che si riesca a resistere o si venga sopraffatti, dopo il colpo, si è costretti, giocoforza, a tirare su le maniche e rimettere in ordine se stessi, sempre che non se ne sia rimasti schiacciati. Anche il complesso di note prevede una scelta da parte del lettore, una partecipazione: «Leggerle o non leggerle? Leggerle durante lo svolgimento della trama principale o attendere il primo capoverso o, ancora, leggerle a fine capitolo?» Io ho adottato una strategia mista, secondo i casi, secondo la curiosità del momento, ma ho deciso di leggerle tutte e posso garantire che ho riso, ho riso tanto. La trama è come se diventasse tridimensionale. LDF, dunque, è un libro solido.

La dissoluzione familiare, in definitiva, è una presa di coscienza. È la decisione lucida di mettersi davanti a uno specchio e la volontà coraggiosa di trascinarci tutta la propria realtà, le certezze, macerie e persone (più o meno care) incluse. Non ingannino i toni onirici e burleschi, LDF è uno sguardo critico e violento sulla pochezza della realtà umana, sulle paure dalle quali ci lasciamo soggiogare e condizionare, sull’egoismo che desertifica le nostre esistenze e che siamo abituati a chiamare “individualismo” solo per redimerci. E dopo la scossa, dopo la distruzione, dopo lo sberleffo, dopo la critica spietata non c’è il silenzio, non l’oblio ma il tentativo riuscito o meno, comunque ammirevole, di fare un passo in avanti, di andare oltre, di trascendere, il tentativo ardito di ricostruire partendo dal poco che resta in piedi, dal poco che rimane, in fondo, dal poco che siamo.

Sono convinto che in questo libro ci sia tutto l’Enrico Macioci, tutto l’essere umano che conosco. Sono sicuro che non si sia risparmiato nella scrittura. Sono certo che, tra la gioia per la nascita di suo figlio e il dolore (condiviso) per la perdita della propria città e quindi della propria identità, Enrico Macioci si sia davvero dissolto.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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