Articolo precedente
Articolo successivo

Lubiana e il drago

di Antonio Sparzani

Lubiana è Ljubljàna nella sua lingua madre slovena, così più dolce, e vicina al richiamo semantico inevitabile a chi abbia anche una vago orecchio per le lingue slave, ljubóv’ in russo, ljubézen in sloveno ― stessa famiglia indoeuropea del tedesco Liebe, ― significano amore, e il nome della città, con l’accento ritratto, ljúbljana, significa amata, e questa è la sensazione che dà (trascuro qui senz’altro le incertezze dei filologi sulle origini del nome) se ne parlate con qualche sloveno autoctono: guardare Lubiana è il riconoscimento di un centro, di una vera capitale, che di una capitale ha lineamenti e atmosfera.
Mi è piaciuto arrivarci in macchina, attraversando con calma quartieri periferici che non davano alcuna impressione di squallore da periferia abbandonata, ma al contrario di una tranquilla vita di quartiere. Un po’ alla volta si arriva in centro, lo si capisce dalle grandi piazze, dalla gente, dai negozi, dai bistrò numerosi, dove comunque ti servono cibo dai forti connotati locali, dall’aria un po’ di festa che sembra di scorgere sui visi della gente; sarà che è estate, tempo di mercatini, colori e sapori per noi insoliti, richiami e grida in un’altra lingua. Qui l’italiano non si parla, se chiedete informazioni meglio l’inglese o il tedesco, l’Italia è davvero lontana. quella stolida annessione di guerra degli anni 1941-42 alla regione Friuli Venezia Giulia non lasciò certo ricordi o segni positivi.
È attraversata da un piccolo fiume, per l’appunto la Ljubljanica (attenzione che la c si pronuncia z), navigabile dai turisti con comodi battelli sui cui sedili sono sorprendentemente appoggiate delle morbide pelli di pecora, e questo piccolo fiume in qualche modo modella la pianta della città, come potete vedere dalla piantina del centro storico:

il largo ed elegante viale modellato dalla forma del fiume e che a sua volta racchiude il castello è chiamato trg, che significa piazza, o mercato, come a dire che si tratta di un unico complesso abitativo, che comprende anche il suo interno. E lungo di esso sfilano i palazzi di un potere nazionale orgoglioso della propria relativa ricchezza, della rapidità con cui fu conquistata l’autonomia allo smembrarsi della Jugoslavia di Tito, e orgoglioso delle sue antiche tradizioni. A un centinaio di chilometri da Trieste e a trecento metri sul livello del mare, il Mediterraneo è lontano, e Vienna è vicina: Lubiana è una città imperiale.
A pochi chilometri dalla città la Ljubljanica si getta nella Sava, uno dei grandi fiumi dell’Europa orientale, lungo quasi mille chilometri, che nasce in Slovenia, attraversa tutta la Croazia, passando per Zagabria, e a Belgrado si getta infine nel Danubio, di cui è l’affluente maggiore.
Il simbolo di Lubiana è un drago, guardate che bellezza, questo è uno dei quattro situati ai quattro angoli dello Zmajski most, il ponte del drago: la leggenda vuole che si tratti del drago sconfitto da Giasone, di ritorno con gli Argonauti dalla conquista del vello d’oro, mentre con maggior probabilità il riferimento è a un’altra storia di sconfitte di draghi, quella di San Giorgio. Ma poco importa, il drago domina lo stemma della città ed è dipinto sulla torre del Castello, non si sfugge al suo sguardo che infuoca e consuma, ma che insieme dà forza e vigore a chi sa sopportarlo e farlo suo. Lo Zmajski most fu costruito negli anni 1900-01 ― epoca austroungarica, stile art nouveau ― da un ingegnere austriaco su progetto dell’architetto dalmata Jurij Zaninović che aveva studiato a Vienna alla scuola di Otto Wagner, e fu chiamato originalmente Franz Josef I. Jubiläumsbrücke, il ponte del giubileo di Francesco Giuseppe I. Nel 1919, alla caduta della vecchia Austria felix, si poté poi decidere di cambiare il nome, e si scelse quello, più proprio per la città, di ponte del drago.

Questo bisogno di scelta, se non più di identificazione con un animale più o meno fantastico ma molto potente, credo sia davvero un tratto che permane in Homo Sapiens a partire da qualcosa di assai antico. L’aquila sta negli stemmi di Vienna e di Belgrado, il leone rampante in quello di Praga. Ed è su questo punto che vorrei concludere citando Il rituale del serpente, di Aby Warburg (Adelphi 2011, quarta edizione) scritto dall’autore nel 1923. Anzitutto l’esergo al volume: Come un vecchio libro insegna / Atene e Oraibi sono parenti, che è una citazione modificata del Faust di Goethe (II parte, atto II, vv. 7742-43 ― non c’è importante autore tedesco che non citi il Faust, prima o poi) che suona letteralmente ― in bocca a Mefistofele: Bisogna sempre sfogliare lo stesso libro: dallo Harz all’Ellade, sempre dei cugini, e questo a dire che Homo Sapiens è uguale ovunque: Warburg l’ha tirato fino a Oraibi, la località dove era stato qualche anno prima per conoscere e studiare delle comunità di nativi americani detti Pueblo, dal nome spagnolo dei loro villaggi. Warburg studia attentamente i riti dei Pueblo, sia quello delle antilopi che quello dei serpenti. Leggete qua:

«Essi non sono più dei veri raccoglitori primordiali ma non sono neppure degli europei rassicurati dalla propria tecnologia … I Pueblo si trovano a metà strada tra magia e logos, e lo strumento con cui si orientano è il simbolo». Mettono, è vero, il serpente al posto del fulmine, che cercano di evocare con un rito propiziatorio (e che raffigurano come un serpente dalla testa a forma di freccia), ma non si fermano a questo atto di sostituzione metaforica. Per l’indiano il serpente non è ancora diventato pura immagine (verbale o pittorica): esso è un simbolo animale vivente, un antagonista della cerimonia. D’altra parte oggi il serpente non è più oggetto di sacrifici cruenti. L’atto dell’incorporamento, dell’unione fisica con l’animale avviene solo in forma mimetica: si infila il serpente in bocca, poi però lo si libera e lo si invia in veste di « messaggero ».
La danza indiana del serpente non è un esercizio estetico fine a se stesso, ma un cerimoniale magico che deve produrre un effetto reale. Identificando nel serpente il potere del fulmine (potere sul quale vuole influire) e unendosi fisicamente all’animale nella danza, l’indiano cerca di diventare egli stesso il principio da cui dipende l’effetto desiderato, ossia la pioggia: «… all’inafferrabilità dei fenomeni naturali l’indiano oppone la sua volontà di comprensione, trasformandosi egli stesso nella causa di quei fenomeni. Istintivamente egli sostituisce, nel modo più intelligibile ed evidente, l’effetto inesplicato con la causa. La danza mascherata è causalità danzata».

Print Friendly, PDF & Email

2 Commenti

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

Mostri sacri e complicanze storiche

di Antonio Sparzani
I miei mostri sacri della letteratura italiana sono Calvino e Gadda, rigidamente in ordine alfabetico. L’altra sera mi sono saltati addosso insieme. Cominciavo a leggere la quinta delle Lezioni americane di Italo Calvino: sappiamo che egli accuratamente scrisse le Lezioni prima di andare negli USA per portargli un po’ di cultura...

La follia dei numeri #3, però . . .

di Antonio Sparzani
“L’italiani sono di simulato sospiro”, dice il Gadda nelle sue fantasmagoriche Favole e aggiunge “L’italiani sono dimolto presti a grattar l’amàndola: e d’interminato leuto”. Bene, l’italiani matematici non son da meno: i nomi di Gerolamo Cardano (pavese, 1501-1576) e di Rafael Bombelli (bolognese, 1526-1572) sono tra quelli più implicati nella ulteriore follia che esaminiamo adesso.

Visti dall’Oltre

di Fabrizio Centofanti
In potenza siamo molte cose: un’energia allo stato puro che tende verso una realizzazione. Ma è l’atto che ci definisce. È l’idea di progetto: chi siamo veramente? Conosciamo il nostro destino, ciò per cui siamo al mondo? Ci interessa?

La follia dei numeri #2

di Antonio Sparzani
Dove siamo arrivati con la follia dei numeri: siamo arrivati a costruire una classe di numeri che sembra li contenga tutti, visto che possiamo scrivere un numero qualsiasi di cifre prima della virgola e una successione qualsiasi di cifre dopo la virgola, anche una qualsiasi successione infinita, cosa vogliamo di più folle ancora?

La follia dei numeri #1

di Antonio Sparzani
In tutta la mia vita adulta i numeri e la scienza che li tratta, la matematica, mi sono stati piuttosto familiari, e spesso necessari, data la mia...

M’è venuto un sospetto. . . .

di Antonio Sparzani
Spero abbiate tutte e tutti notato come e in quali efferati e rivoltanti modi la polizia italiana (comprendo in questo termine carabinieri, polizia, urbana e non, e qualsiasi altro cosiddetto tutore dell’ordine) stia, come dire, alzando la cresta, ovvero il livello della brutale repressione dei “diversi” in qualsiasi modo essi si presentino: i fatti di Verona e poco prima i fatti di Milano, quattro agenti che pestano di brutto una transessuale ecc. ecc.
antonio sparzani
antonio sparzani
Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: