Ognuno di noi crede di essere stato invitato davvero, e personalmente, all’amore – Un’intervista a Enrique Vila-Matas
di Elena Stancanelli
Mi piacerebbe riuscire a rendere con le parole tutti quei silenzi. Il modo in cui, alla fine di una frase, Enrique Vila-Matas si fermava e mi guardava senza parlare, con i suoi occhi grandissimi. E quando finalmente mi decidevo io a dire qualcosa, lui mi interrompeva e, dal profondo del suo semplice stare, mi diceva una cosa sublime. Non si deve mai tornare su una storia d’amore finita, per esempio. Perchè se ti volti indietro, se rifai la strada al contrario la prima cosa che incontrerai, di quell’amore, è la sua morte.
Ci siamo incontrati a Firenze, in occasione del premio Von Rezzori che Vila-Matas ha vinto con la raccolta di racconti “Esploratori dell’abisso” (Feltrinelli). Nato a Barcellona nel 1948, ha scritto saggi, romanzi e racconti. E’ uno scrittore che scrive di letteratura anche quando racconta il mondo, che non conosce il peccato di realtà. Nel salotto di un albergo elegante, mentre fuori il caldo bruciava la città, gli ho chiesto di parlarmi d’amore.
È un argomento difficile. Vede, il tema dell’amore è strettamente legato a quello della verità. Nel 1939, uno scrittore francese scrisse un saggio, intitolato “L’amore e l’occidente” (Rizzoli). Denis Rougemont, questo era il suo nome, sosteneva che nel nostro mondo l’amore fosse fondato su un’idea narcisistica. Partendo dal mito di Tristano e Isotta, spiega che ciò di cui noi fatalmente ci innamoriamo, non è l’altro, ma l’idea stessa di amore. Che appunto prescinde dalla persona amata, ed è invece un’auto-esaltazione di colui che ama, del suo coraggio nell’affrontare gli ostacoli. Un amore-martirio, infelice e non sensuale, che si esaurisce nella passione che brucia. Questo concetto, centrale nella poesia trobadorica e i romanzi medievali, è arrivato intatto fino ai nostri giorni.
C’è una scena bellissima ne “Il Grande Gatsby” di F. S. Fitzgerald, ce ne sono tante in verità in quella che io considero forse la più perfetta storia d’amore mai raccontata. Ma quella a cui mi riferisco è il primo incontro tra Gatsby e Daisy, dopo cinque anni. Nick ha invitato la ragazza a prendere un the a casa sua, su suggerimento di Gatsby. Vuole andarsene, lasciarli soli. Ma loro insistono che rimanga. Perchè, si chiede Nick. “Forse”, scrive Fitzgerald, “la mia presenza li faceva sentire più piacevolmente soli”. È una frase sibillina. Siri Hustvedt, la scrittrice moglie di Paul Auster, ha parlato di questo momento in un suo saggio. Mi piace molto quello che dice: l’amore, scrive Hustvedt, per esistere ha bisogno di essere visto. È una coppia composta da tre persone. Forse essere innamorati, amare, è una condizione talmente ineffabile che solo un testimone può renderla credibile, reale. Forse Daisy aveva bisogno di Nick per “vedere” il suo amore per Gatsby.
Si possono raccontare solo gli amori infelici?
Non necessariamente. Nabokov per esempio è uno scrittore che ha saputo descrivere anche amori leggeri, compiuti. Però è vero che i più bei romanzi d’amore raccontano di passioni che spezzano la vita. Amori che sono malattie, come quello tra Heathcliff e Catherine, in “Cime Tempestose” di Emily Bronte. Eterni, indissolubili. Amori disperati, come quello di Adele H, la figlia di Victor Hugo, per quello stupido tenente francese, nel film di Truffaut. Il più sublime esempio di amore che trascende la vita stessa, è quello raccontato da Hitchcock in “Vertigo” (La donna che visse due volte). Il legame che unisce il protagonista, James Stewart a Kim Novak, nel doppio ruolo di Madeleine/Judy. Chi è la donna di cui davvero lui si innamora? Un fantasma del passato che lui ricostruisce con pazienza nel corpo di lei, trasformandola in quello che il suo desiderio sta cercando. Questo storia ci rivela la complessità e il mistero di quello che chiamiamo l’amore passionale. Che si contrappone all’amore quieto e razionale che costituisce la base dei cosiddetti matrimoni per convenienza. Fondati non sull’innamoramento ma su un contratto sociale, una logica economica. Chi può dire quale delle due condizioni garantisce maggiore durata e felicità? Quel che è certo è che l’amore, in qualsiasi forma, è l’unico sentimento che ci introduce all’idea dell’altro, che ci permette di uscire dalla condizione stringente dell’identità, dell’io nevroticamente arroccato in se stesso, e conoscere il mondo.
L’amore dunque fa male ma è necessario.
È ineludibile. Come il dolore del resto. Miguel Delibes, uno scrittore spagnolo, ha scritto un romanzo il cui protagonista è un bambino. “La sombra del ciprés es alargada” si intitola, è un libro del 1947. Questo bambino perde improvvisamente il suo migliore amico e decide che mai più sentirà amore per qualcuno per non soffrire della sua perdita. È questo che pensiamo tutti quanti ogni volta che un amore finisce. Ma è assurdo, e infatti nessuno mantiene la promessa. E continuiamo a innamorarci, sbagliare, riprovare. Ricordo un racconto di Adolfo Bioy Casares, la storia di un uomo che amava un donna. A un certo punto però, decide di lasciarla. Il motivo è che si è reso conto che lei ha un difetto. Non spiega quali sia questo difetto, ma è sufficiente a fargli decidere di separarsi. Quell’uomo, dopo qualche tempo, incontra un’altra donna e se ne innamora. Si fidanza con lei, ma dopo un po’ scopre che questa donna ha un difetto. Lo stesso difetto della precedente. E la lascia. E così anche un terza volta. L’amore ci inganna, facendoci pensare che ci sia qualcosa oltre, qualcosa di meglio, di più bello. Un’altra persona più adatta per noi. Ma la verità è che il difetto è in noi, e lo ritroveremo sempre, in chiunque incontriamo.
Il tema dell’amore e quello della bellezza sono legati?
Credo proprio di sì. La bellezza è uno sguardo, e una percezione. Sophie Calle, l’artista francese, fece un giorno una performance riunendo un gruppo di persone cieche. Chiese loro, a turno, quale fosse la loro idea di bellezza. Mi ricordo di una ragazza che rispose Alain Delon. Che, ovviamente, non aveva mai visto. Perchè? La mia risposta è che la ragazza percepiva l’intensità della passione, dell’amore che quell’uomo suscitava nelle persone, e lei collegava appunto quel sentimento con l’idea di bellezza. I due temi sono strettamente legati anche in un’altra grande storia d’amore, quella di Stendhal per l’Italia. Lo scrittore si innamora di tutto, tutto gli sembra straordinario. Entra in una cucina, dove c’è una donna che sta dando da mangiare al suo bambino. Si innamora di quella donna, della placida bellezza che emana la scena. Ne parla Roland Barthes nell’ultima conferenza che stava scrivendo prima di morire. Barthes è alla stazione di Milano e deve prendere un treno notturno per Lecce. Scrive: “Lecce, il mistero di una città estrema”, e sta di nuovo parlando dell’amore.
C’è un personaggio della letteratura di cui lei è innamorato?
Certamente Anna Karenina. E in particolare nel capitolo 29, quando in treno, in viaggio da Mosca a San Pietroburgo, tira fuori dalla borsa una lanternetta, la attacca al bracciolo della poltrona e si mette a leggere un “romanzo inglese”. Sullo stesso treno viaggia anche Vronksij, ma lei non lo sa ancora. Lo scoprirà soltanto quando scenderà alla stazione. E’ una scena straordinaria: la donna, la lampada, il treno che corre nella notte, e le vicende del libro che scorrono parallele. Claudia Cardinale ne “La ragazza con la valigia” di Zurlini, è stato un altro grande amore per me. E anche Jeanne Moreau ne “La Notte” di Antonioni… molte, in verità.
C’è uno scrittore del quale avrebbe voluto leggere una storia d’amore e invece non l’ha mai scritta?
Patricia Highsmith[1]. C’è un’ultima cosa che vorrei dirle: le storie d’amore più belle sono quelle che ognuno di noi vorrebbe aver vissuto. L’ostinata ricerca di Fabrizio del Dongo ne “La certosa di Parma” di Stendhal, la devozione di Dante per Beatrice, la passione per Elena, l’invenzione di Dulcinea da parte di Don Chisciotte, ma soprattutto, come le dicevo, l’amore purissimo di Gatsby per Daisy. Ricorderà la scena in cui lui le mostra tutte le sue camicie e lei scoppia a piangere. In questo romanzo, ognuno inventa se stesso, il suo passato, la sua identità. Eppure una verità profonda percorre tutto il libro. “Sono veri, lo crederebbe mai?”, dice quello strano personaggio, “con gli occhiali da civetta” al cospetto dell’enorme quantità di libri raccolti nella biblioteca di Gatsby. Soltanto lui, di tutte le persone che riempivano le feste e la vita di Gatsby, si prenderà la briga di essere presente la funerale. Scompaiono tutti, come la luce verde. Da dove venivano, perchè erano lì, qualcuno li aveva invitati? “Io”, dice a un certo punto il narratore, “ero stato davvero invitato”. Non le sembra una perfetta metafora di quello di cui stiamo parlando? Ognuno di noi crede di essere stato invitato davvero, e personalmente, all’amore.
[1] Mi è stato fatto notare da Chiara Valerio che in realtà Patricia Highsmith ha scritto una storia d’amore, “Carol”. La prossima volta che incontro Vila-Matas, persona squisita, glielo regalo.
[Questa intervista è stata pubblicata su La Repubblica il 30/7/2012. Lo stencil raffigurante Enrique Vila-Matas è tratto da qui]
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Molto interessante, davvero, anche questa escursione attraverso le città, le città fuori di testa, estreme, letterarie, come in una cattiva traduzione del nome dell’auotre, Vila-Matas, autore che amo molto. effeffe
una bellissima intervista, con le domande discrete e delle risposte magnifiche. si può parlare d’amore con profondità e intelligenza, parlando in realtà dell’uomo e del mondo, che è tutto il contrario di quella pornografia sentimentale che occupa le vette delle classifiche (“Fai bei sogni” di Gramellini, per esempio).