Il rosso e il nero d’America #2
di Giuseppe Zucco
Il nero: Il petroliere – There will be blood (Paul Thomas Anderson, Usa, 2007)
Viene fuori dalla terra, il film di Paul Thomas Anderson. Viene fuori fluido e denso come il petrolio, e allaga il nostro immaginario con la figura di Daniel Plainview. Il petroliere è la storia di un uomo che buca la terra, trova il petrolio, fa fortuna, e inesorabilmente si distanzia dagli uomini. Non ci sono affetti decisivi nella sua vita, né donne, niente che porti il nodo di un legame. Rifiuta qualsiasi cosa che si avvicini all’umano: la famiglia, il figlio, il fratello. Nelle sue mani tutto diventa strumento per bucare ed estrarre. Conta solo il piacere della competizione e l’annientamento totale dell’avversario. È la storia di un uomo felice di vivere nel deserto, dopo che il deserto l’ha sistemato lui intorno, radendo al suolo tutti e ogni cosa.
Il petroliere è un film profondamente diverso da quelli a cui ci aveva abituati Anderson. Alle storie corali e multidimensionali, con infiniti intrecci e mille personaggi – un cinema alla Altman, uno dei suoi grandi ispiratori e maestri – P.T. Anderson sostituisce il racconto di un personaggio, seguendo la sua evoluzione, senza staccare mai la macchina da presa dal suo volto, dal suo corpo. Non finisce mai di essere circondato dallo schermo Daniel Plainview, come se una lente d’ingrandimento si fosse posata sulla sua vita e lo tenesse costantemente a fuoco. Così che tutto diventa la triplice storia di un’ossessione: quella di Plainview per il successo, quella del regista per la potenza mimetica di Daniel Day-Lewis, quella dello spettatore per il volto, gli sguardi, i gesti di un predatore che sbuca fuori dalla viscere della terra poco prima che il Novecento crepitasse.
Ed è un film che sgorga piano sullo schermo: sale da profondità mai raggiunte, s’impenna e monta, cresce e allaga, scaturisce come un geyser e si distende in molteplici direzioni. Un film raro: perché hai la certezza, mentre sei immerso nello schermo, che non siano solo immagini quelle che vedi, ma pensieri, idee diventate forma e colore, teoria che evade dal perimetro di una storia e imprime nella memoria le orme di un ragionamento.
L’incipit è una festa di idee: Daniel Plainview è sepolto nelle viscere della terra, con il piccone in mano scava, fa breccia, rompe l’architettura minerale della terra, gli sottrae l’argento, e il piccone si fa scintilla a contatto con la terra, diventa scintilla mentre le terra cede, e Plainview sa il fatto suo, e infila la dinamite in una cavità, poi risale alla luce, il deserto corre arido per chilometri intorno, e in cima al pozzo scavato tira su gli attrezzi, ma sono davvero pesanti, e sta ancora tirando su quando la dinamite esplode, e la polvere si alza, una nube spessa di polvere che cova una sorpresa, il petrolio esploso e impresso sulla bocca del pozzo, nero sul deserto dorato, l’epifania del petrolio che esplode ed inverte il destino di Plainview, che malgrado tutto, nonostante una gamba che si spezzerà, e una fatica da pionieri, scova un giacimento di petrolio, escogita la tecnologia della trivellazione, scava il suo primo pozzo, e scardina la sua posizione sociale diventando signore indiscusso di una piccola comunità, muscolose squadre di uomini che lavorano per lui, che si muovono con lui, città intere che si spostano nello sconfinato paesaggio americano quando Daniel Plainview scopre altro petrolio ancora, e compra terreno per chilometri interi, a prezzi stracciati.
Dura quattordici minuti almeno, l’incipit. Un quarto d’ora di cinema puro, dove la storia cola dalle immagini, e la figura di Daniel Plainview è sbozzata nella luce, sgrossata nei controluce, intagliata nell’ombra. Potrebbe scorrere in perfetta autonomia, l’incipit: per tutta la sua durata, le parole sono bandite, non esiste personaggio che si pronunci, solo la colonna sonora di Jonny Greenwood, il chitarrista dei Radiohead, vibra ed evoca. E una domanda risale i pensieri, allora: cosa ci fa un pezzo di cinema muto all’inizio di un film girato nel 2007? Cosa ci sta mostrando P.T. Anderson adesso? Abbastanza semplice: che il cinema nasce nello stesso momento dell’espansione virale delle forme industriali, che cinema e industria sono indissolubilmente legati, e insieme concorrono a mettere in forma non solo dei modelli sociali – come quello della fabbrica, con le sue gerarchie – ma anche un immaginario specifico, un preciso modo di vedere le cose. Al pari dell’industria, il cinema esplora il mondo, lo setaccia in lungo e in largo, lo trasforma in un serbatoio di immagini e in una miniera di storie. Due valori mettono sullo stesso piano il cinema e il sistema industriale: la possibilità di rendere vicino ciò che era lontano, e la circostanza di disporre delle cose come delle loro immagini. Ovviamente, ciò comporta una rottura epocale rispetto al passato. E Anderson è attentissimo nella regia a rivelare il modo in cui il cinema conquista e sfrutta il mondo: attraverso piani sequenza, lunghe carrellate, dolly che dall’alto s’inabissano nelle profondità della terra, o che s’impennano a rincorrere il getto di petrolio, la macchina da presa sottolinea l’occupazione, la colonizzazione di porzioni di mondo dimenticate per secoli, ed ora rese improvvisamente produttive.
Ma il gioco è ancora più raffinato. Il motore del film non è solo l’istinto predatore di Plainview, ma anche il lunghissimo conflitto che lega il destino del petroliere a quello di Eli Sunday, un giovane predicatore – con il faccino liscio e le espressioni ai limiti dell’epilessia di Paul Dano. Sono due personaggi antitetici. Ma agiscono nello stesso modo, spudoratamente. Mentre Plainview si assicura il potere economico, Eli Sunday piazza in cassaforte il potere religioso, collezionando sostenitori e fedeli. Entrambi sono due truffatori. Plainview compra le terre a prezzi stracciati, senza dichiarare il petrolio sottostante. Sunday parla, benedice e agisce in nome di dio, senza piegarsi a nessun ordine precedente, ma fondando una propria setta. E il mondo sembra farsi e disfarsi secondo la trama del loro rapporto. Alla vicinanza iniziale si sostituirà il conflitto aperto. La lotta diventerà addirittura fisica, e non mancheranno gli schiaffoni micidiali in due scene speculari e bellissime.
E il film sembra raccontare l’inizio del Novecento, ed invece ci rivela il nostro tempo armato, dove sulla scacchiera della storia sono ancora i poteri religiosi e quelli economici a fronteggiarsi. È dalla loro trama, dal loro intreccio, dal modo in cui si evitano o si sovrappongono, che la storia continua a prodursi. Per questo il cinema di Anderson, perfino qui, ha una profonda ambizione corale: perché nonostante siano solo Plainview e Sunday a sfidarsi, stilizzando il mondo intero nella loro relazione, i loro volti in realtà sono popolati e abitati da moltitudini di uomini che negli ultimi corsi e ricorsi storici hanno ripercorso la stessa spirale.
Così, se Into the wild mostrava attraverso una biografia il lato solare dell’America moderna, qui, in un perfetto controcampo, ritroviamo l’oscurità che pervade la storia. Del resto, il titolo originale del film è There will be blood, scorrerà il sangue. Ed infatti si scioglie a più riprese dalle vene, e non è mai rosso, non ha niente di vitale, ma abbandona i corpi lentamente, nero e vischioso, come se non contenessero altro che petrolio, i personaggi del film, nient’altro che fame e livore. Come se fossero animali incattiviti, più che uomini. E viene da pensare che Daniel Plainview, in mezzo alle piste da bowling, mentre finisce a colpi di birillo Eli Sunday, dopo il dialogo in cui si autoproclama dio, sia l’ultimo erede degli scimmioni spietati di 2001: Odissea nello spazio. Solo che l’arma che impugna non diventa più un’astronave che volteggia nello spazio astrale, non è più il simbolo di un progresso lontano, ma continua a uccidere, e far sprizzare sangue nero, dagli uomini come dalla terra.
[Pubblicato, a suo tempo, su SentireAscoltare]