Vista da Trieste
di Antonio Sparzani
È quel momento inquietante che prepara il buio della notte, è finito il violetto chiaro dell’ultimo sole, pochi minuti e rimarrà solo buio e le luci artificiali. Però.
Però è piena di luna piena la mia sera, qui, chissà se è proprio al culmine – certo sembra occupare tanto cielo, un cerchio perfetto, da oscurare tutte le stelle circostanti, gaddianamente sopr’a le stelle reìna. Ma non oscura il golfo, il grande golfo che si vede dalla mia finestra aprire blu scuro, il golfo che promette lontananze impensate – all’orizzonte punti luminosi, vaghe alberature.
Non si è ancora spento il punto bianco di Miramare, il primo confine a ovest, con la livida presenza dell’arciduca; oltre quello, lo sguardo non va, solo lo sguardo della mente, sempre così più ardito, può spingersi fino a Duino e vedere anche lì le presenze che da un secolo ormai evoca quel luogo, Boltzmann e Rilke, che a pochi anni di distanza lasciarono parti di vita legate a questo mare favoloso.
Rilke c’era andato senza “famiglia”, ospite della contessina Maria von Turn und Taxis, e dopo avere lasciato a lei e a tutti noi l’impervia testimonianza delle Duineser Elegien, se ne andò per altri lidi; mentre Ludwig Boltzmann, in vacanza con la famiglia, nell’estate del 1906, era preda del tormento continuo di non riuscire a conciliare, all’interno delle sue riflessioni, i diversi aspetti della sua assidua ricerca sulle leggi della meccanica e delle nuova scienza del calore, che giustamente riteneva tra le più profonde e significative della fisica.
Reversibilità o irreversibilità? Determinismo o statistica?
Boltzmann, scienziato cerniera tra antico e moderno, tra Ottocento e Novecento, tra il mondo tranquillo – quasi Biedermeier – della fisica classica che ormai tutto spiegava e prometteva continui perfezionamenti di un quadro così elegante, e le nuvole nere, come le chiamò con maggior consapevolezza Kelvin, che si andavano addensando su questo quadro idilliaco.
Boltzmann, che non si rassegnava alle contraddizioni che sembravano ineluttabilmente radicate nell’insieme della sua ricerca, non sopportò il peso della sua incapacità a rispondere a tutte le critiche, spesso anche superficiali, che vennero mosse alle sue ipotesi e alle sue costruzioni, e scelse Duino per mettere bruscamente fine alla propria ineludibile scontentezza.
E allora, un po’ anche per onorare la sua memoria, che è la memoria di un grande, di uno dei creatori della nuova fisica del Novecento, provo a raccontare un minimo elemento di base della fisica del calore, quella che più Boltzmann contribuì a sviluppare. Provo cioè a dire in poche righe, ora che il cielo è diventato buio e stellato e solo la Luna rimane a rischiarare le colline del Carso dietro di noi, quale sia l’interpretazione della grandezza fisica temperatura secondo il modello di materia che si andava un po’ alla volta consolidando.
Una delle prime cose da ricordare con chiarezza è che l’idea atomistica, che la materia sia fatta di tante tante particelle piccole piccole, pur avendo radici lontane, dagli atomisti di Abdera a Epicuro e a Lucrezio, non era affatto popolare tra i fisici dell’Ottocento materialista e determinista, che anzi mediamente erano agnostici in proposito, oppure ritenevano che la materia fosse un continuo, una pappa senza interruzioni e buchi che riempiva completamente quella parte di vuoto che occupava. Ernst Mach era in prima fila tra questi e l’antagonismo con Boltzmann passava anche per questa strada. Quest’ultimo invece cercava di spiegare le proprietà della materia supponendo che questa fosse appunto composta di atomi, proprio quegli átomoi – oggetti che non possono essere ulteriormente tagliati – annunciati dalla filosofia antica di cui sopra.
La seconda cosa da tener presente è l’idea, che si era ormai saldamente formata nella fisica dell’Ottocento, di energia, che si era rivelata uno strumento assai utile nella descrizione e nella formulazione delle leggi fondamentali della meccanica. In particolare l’energia di un qualsiasi corpo, tipicamente puntiforme, poteva essere anzitutto rappresentata da una quantità che dipendeva dalla sua massa e dalla sua velocità. L’espressione in questione è abbastanza ben nota ed è la seguente E=½mv^2, formula, ovvero abbreviazione linguistica, che significa che per ottenere questa grandezza, che è detta energia cinetica perché dipende dal moto, occorre moltiplicare la massa per il quadrato della velocità e dividere per 2. Le ragioni di questa prescrizione di calcolo ci sono, ma non fatemele spiegare qui.
Bene: cosa ha questo a che fare con la temperatura? Prendete un gas – un gas perché è uno dei modi più semplici di organizzarsi della materia – contenuto in un recipiente di un certo volume che indicheremo con V e soprattutto supponete che esso consista di tanti pezzetti molto piccoli, questi pezzetti li chiameremo molecole perché ognuna di esse, in linea di principio anche da sola, ha le proprietà del gas; ogni molecola ha la sua massa e supporremo che essa si muova continuamente all’interno del volume V nel quale può liberamente agitarsi. Naturalmente le molecole, mentre avranno tutte la stessa massa, avranno tra loro velocità diverse e quindi ognuna avrà la sua energia cinetica diversa dalle altre; ma, ecco che entra la valutazione complessiva, quella che usa l’occhio statistico, potremo considerare l’energia cinetica media di tutte le molecole, che si indica con il simbolo Ē, e che può in linea di principio essere ottenuta sommando le energie cinetiche di tutte le molecole e dividendo alla fine per il numero di esse.
La temperatura del gas è, secondo il modello che si è andato affermando alla fine dell’Ottocento, proporzionale esattamente a questa energia cinetica media, e dunque è un’indicazione di “quanto velocemente” si muovono le molecole all’interno di un gas. Era la base della cosiddetta teoria cinetica del gas perfetto, di cui ho qui già detto parlando di Boyle, e poi, vari anni fa, parlando dell’entropia. Questa apparentemente strana proprietà della materia, di dare sensazioni di caldo o di freddo, è dunque semplicemente ascrivibile ai movimenti delle sue molecole, il che, vi assicuro, è stato un bello shock per la fisica e nello stesso tempo un considerevole successo dei tentativi di spiegare la scienza del calore mediante la meccanica, in quanto proseguendo i pochi ragionamenti che ho esposto qui, si è arrivati a spiegare su basi meccaniche la legge dei gas perfetti.
Boltzmann diede anche il nome alla costante di proporzionalità di cui dicevo prima, in questo senso preciso: una molecola puntiforme possiede – se misurata nell’unità di energia propria del sistema internazionale, il Joule, un’energia pari a (3/2)kT, dove la lettera T, maiuscola, rappresenta appunto la temperatura assoluta, cioè contata a partire dallo zero assoluto, mentre k è la costante di Boltzmann, che vale, con le unità di misura dette, 1,38 10^(-23). Simbolo che uso qui per indicare 10 elevato alla potenza -23, cioè un numero assai piccolo; ma tenete conto che le molecole di un gas sono tante, tipicamente dell’ordine di 10^(23), così che l’energia complessiva di una quantità macroscopica di gas assume un valore ragionevole.
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Che c’entra questo con la letteratura??
Bello. Magnifico. A sud c’è la Ferriera di Servola. A est il Sincrotrone.
Il testo più bello che mi è capitato di leggere in rete negli ultimi tempi…
e quindi…(aveva ragione hubbard?)
http://fuelfriendsmp3.com/listenup/Beck%20Union%20Chapel/12%20Loser.mp3
Ho finito da poco un libro non recentissimo di Seth Lloyd, accalappiato con un vecchio numero de “Le scienze” e lasciato lì a dormire un anno, e mi sono letto un po’ di quell’agile prosa divulgativa che tratta di universi e computer quantistici, di qubit e atomi di informazione -e di come poi la costante di Boltzmann (scoperta indipendentemente anche da Plank, ma lui la sua costante l’aveva già, e una costante per uno non fa male a nessuno). La costante di Boltzmann fa da perno indiretto (molto indiretto) all’indagine sull’energia e l’entropia delle particelle gassose in moto caotico, quello stesso moto caotico che Boltzmann vedeva all’origine casuale dell’ordine del cosmo (la vecchia metafora delle scimmie dattilografe e dell’Amleto). Col tempo le scimmie dattilografe si sono trasformate in fluttuazioni quantistiche e hanno imparato a usare tastiere di computer quantistici travestiti da particelle portatrici di unità minime di informazione, e non più tastiere di macchine da scrivere travestite da molecole ancora un po’ troppo meccaniche e di picciol affare. Così la sinfonia caotica di Boltzmann ha imparato a scrivere, in modo casuale ma organizzato, il dramma dell’universo molteplice, con le sue indecidibili storie stabilite dalla grammatica del modello standard (o da qualcosa di più elegante e nascosto). E del resto, che altro è la coscienza che impara a comporre in ordinate forme stringhe di parole, se non la sinfonia casuale e organizzata di un’orda di neuroni?
Errata corrige:
-e di come poi la costante di Boltzmann [sia stata] scoperta indipendentemente anche da Plank…
(scusatemi, ma modificare un commento lungo una volta che ci si è accorti di un refuso grossolano qui è utopico, e non mi va di fare la figura di uno i cui neuroni si muovano come un’orda più caotica del dovuto).
s’incomincia con un tramonto poetico e si finisce con (3/2)kT. Mica male. direi un testo total-umanistico. Ma il commento di @Daniele è troppo per me. a settembre proverò a rileggerlo, con quid in più di sangue e ossigeno nel cervello ;-)
caro sparzo,
grazie del tuo pezzo; a piccoli passi, aprendo squarci qui e là, ci rendi un po’ meno estranei alla storia della fisica novecentesca, che è poi in vario modo intrecciata con la letteratura novecentesca.Pensando a Boltzmann, e ad un altro signore, di cui quest’anno è caduto il centenario della nascita, ossia Alan Turing, constato con amarezza che il suicidio non è un’opzione cara solamente ai poeti. E’ una vecchia idea (macabra, certo) quella di costituire un censimento novecentesco degli ingegni che si sono suicidati.
Si è suicidato nel 1906, parmi. Anni dopo è morto pure Rilke, leucemico. Tristia.
Rilke morì dopo molte sofferenze fisiche il 29 dicembre del 1926, leucemico, in Svizzera. Non aveva alcuna voglia di morire; credo che abbia avuto dentro di sé una spinta a vivere fortissima.