Chris Marker è morto, ricordate?
di Andrea Inglese
Chi era Chris Marker, morto a 91 anni, lo scorso 29 luglio? Una prima risposta, molto approssimativa, potrebbe essere: era qualcuno che combatteva, attraverso le immagini, il potere che, per lo più, le immagini stesse hanno di produrre oblio in chi le consuma.
Avanzare mascherati
Marker è autore di un’opera vasta e multiforme: regista, sceneggiatore, scrittore, giornalista, fotografo, artista visivo. Marker ha associato fin da subito sperimentazione estetica, indagine giornalistica, riflessione critica e militante, viaggio. Fin da subito ha deciso di confondere le piste, di preferire una forma di clandestinità, di travestimento, di segreto, piuttosto che porsi al servizio della curiosità mediatica e delle posture dell’autenticità. Siamo agli antipodi del mito molto italiano dell’intellettuale moralizzatore, che ritrovo ancora nell’ultimo libro di Emanuele Trevi (Qualcosa di scritto), dove a proposito di Pasolini si legge: “È stato, soprattutto, al di là di ogni ragionevole prudenza, un individuo assolutamente autentico – e dunque capace di arrivare ad una specie di limite, di trasformare la sua intera esistenza in una manifestazione della verità”. Senza nulla togliere al genio di Pasolini, Chris Marker indica una strada ben diversa, capace di neutralizzare innanzitutto quel narcisismo originario, di cui si nutre ogni postura pubblica per critica e scandalosa che sia. Al di là di ogni scandalo, è infatti del narcisismo originario dell’artista e del contestatore che la macchina dello spettacolo si serve, traducendo il nome proprio dell’autore in un logo, nella marca di un prodotto culturale nuovo, per la sua carica di eccentricità e trasgressione. Da qui una strategia, in Marker, dell’eteronimia, che si accompagna a quella dello spostamento continuo, di campo, di visuale, di media. Egli appartiene alla famiglia di Pessoa, di Boris Vian, di Beckett, di Volodine, e di Debord. Sembra dirci qualcosa che contrasta con gli ideali di autenticità, che tanti artisti hanno incarnato nel Novecento: “non credere completamente in te stesso”. Nessuno, oggi, è completamente padrone di se stesso, e quindi padrone della verità che dovrebbe incarnare: per questo, all’edificazione di posture pubbliche e visibili, egli ha preferito un lavoro obliquo, non riconducibile a un’identità ben decifrabile, che lascia traccia di sé in una moltitudine di nomi diversi. (Nell’articolo a lui dedicato ieri in Libération, si elencavano le sue collaborazioni con una quantità impressionante di talenti: Alain Resnais, Agnès Varda, Jorge Semprùn, Constantin Costa-Gravas, Simone Signoret et Yves Montand, Yannick Bellon, Alexandre Medvedkine, William Klein, Joris Ivens, Haroun Tazieff, Akira Kurosawa, Patricio Guzmán o Isild Le Besco.)
Vale la pena di ricordare, che in Italia è stato fatto oggetto di ben due monografie (Ivelise Perniola, Chris Marker o Del film-saggio, Lindau, Torino, 2003 e Viva Paci, Il cinema di Chris Marker. Come a un vivaio ai pescatori di passato dell’avvenire, Alberto Perdisa Editore, Bologna, 2005). Circostanza non banale, contando la scarsa attenzione critica che ad oggi la sua opera suscita nel mondo anglosassone. Ma ciò è ancora un effetto consapevole e voluto della strategia di Marker. Scriveva su questo Ivelise Perniola: “L’ostruzionismo di Marker nei confronti dei media è totale e disarmante: chiunque voglia organizzare una retrospettiva delle opere markeriane si trova di fronte alla reale inaccessibilità di alcuni testi che l’autore stesso non gradisce più vengano mostrati e che si rifiuta ostinatamente di procurare, dimostrando in questo modo una sostanziale indifferenza nei confronti del pubblico; in altre parole l’essere visto non è la sua principale preoccupazione. (…) L’impossibilità della classificazione allontana dall’opera di Marker non solo la stampa specializzata, ma anche gli studiosi di cinema e i teorici; abbiamo ripetutamente riscontrato una sorta di timore, di perplessità, di incertezza di collocazione di fronte ai suoi lavori. Perché dunque il critico dovrebbe amare chi non lo ama e per di più chi non si fa capire, chi non si fa definire?”
L’articolazione poetico-politica della memoria
Una delle ossessioni più potenti, che emergono nella sua opera, è quella della memoria. In Marker, innanzitutto ci si accorge subito che la partizione tra memoria poetica e individuale e memoria politica e collettiva è una comoda mistificazione. Una parte importante della sua opera è dedicata a ricostituire questo nesso, che la cultura occidentale tende per lo più a recidere. Da questo punto di vista, tutto è già contenuto nella Jetée.
Permettetemi un piccolo collage.
« Ceci est l’histoire d’un homme marquée par une image d’enfance.
La scène qui le troubla par sa violence,
et dont il ne devait comprendre que beaucoup plus tard la signification,
eut lieu sur la grande jetée d’Orly, quelques années avant le début de la Troisième Guerre Mondiale.
…
Les vainqueurs montaient la garde sur un empire de rats.
…
les inventeurs se concentraient sur des sujets doués d’images mentales très fortes.
…
Cet homme fut choisi entre mille, pour sa fixation sur une image du passé.
…
Au dixième jour d’expérience, des images commencent à sourdre, comme des aveux.
Un matin du temps de paix.
Une chambre du temps de paix, une vrai chambre.
De vrais enfants.
…
Cette fois, il est près d’elle, il lui parle. Elle l’accueille sans étonnement.
Ils sont sans souvenirs, sans projets.
Leur temps se construit simplement autour d’eux,
avec pour seul repères le goût du moment qu’ils vivent, et les signes sur les murs.
…
plutôt que cet avenir pacifié,
il demandait qu’on lui rende le monde de son enfance, et cette femme qui l’attendait peut-être.
…
il comprit
qu’on ne s’évadait pas du Temps »
Nelle pieghe delle immagini
La critica delle immagini, anzi, la critica del reale, che delle immagini si serve per oscurare se stesso, si realizza non denunciando le immagini, considerate in quanto tali come cattive, ma mutando l’articolazione tra enunciabile e visibile. Come nella Jetée, non è posta in dubbio la forza, l’energia, persino la capacità salvifica veicolata da un’immagine. La vera questione riguarda l’apparato che parassita l’immagine, la mette al proprio servizio, la usa per sottrarre energia, per amministrarla secondo una propria logica di controllo, o di amnesia.
“Il sistema dell’Informazione non funziona in virtù dell’eccesso di immagini, funziona selezionando gli esseri parlanti e ragionanti, capaci di ‘decifrare’ il flusso di informazioni che riguardano le moltitudini anonime. (…) Il problema non sta nell’opporre le parole alle immagini visibili. Si tratta di sconvolgere la logica dominante che fa del visivo il destino delle moltitudini e del verbale il privilegio di alcuni. Le parole non stanno al posto delle immagini. Sono delle immagini, ossia delle forme di ridistribuzione degli elementi della rappresentazione.” Jacques Rancière, Le spectateur émancipé.
Nei suoi saggi audio-visivi, Marker mostra come, a partire da un medesimo deposito d’immagini, la storia sia sempre e di continuo da rifare, la memoria da ricostruire, perché ogni immagine presenta delle pieghe, dentro cui diversi fili narrativi possono dipartirsi, oppure essere recisi. Così, sulle innocue immagini di repertorio, che mostrano l’incontro tra Mao e il presidente francese Georges Pompidou, ossia un signore asiatico molto anziano seduto in poltrona di fronte a un signore occidentale un poco più giovane, la voce off dice: “Mao appartiene a quella categoria di uomini in via d’estinzione che governa meno per ciò che impone, anche se impone molto, che per ciò che incarna, qualche cosa che si fonda sul bisogno di credere, sul senso del tragico, sulla paura del vuoto, sull’immagine del padre, che non è certo ciò che vi è di più confortante nei sedimenti dell’essere umano, ma che pur esiste là dove si creano i sogni” (Le fond de l’air est rouge, 1977). Un esempio di come una sequenza d’immagini possa essere strappata al suo dispositivo narrativo, estremamente povero, parziale, basato sull’idea di conciliazione, avvicinamento, parità, equivalenza, tra due mondi, due presidenti, e inserita in tutt’altra storia, che è quella delle rivoluzioni socialiste del novecento, rivoluzioni tragiche, che nessuna narrazione moralistica e nemmeno cinico-realista può essere in grado di raccontare, di ricordare. Quella sequenza presenta, per Marker, la difficoltà di cogliere l’asimmetria storica tra quei due mondi, tra quei due presidenti, tra quelle due responsabilità politiche, dal peso così diverso.
Diceva Henri Michaux, altro suo grande amico: “Bisogna abbattere la Sorbona e mettere al suo posto Chris Marker”.
A proposito dell’eteronimia di Marker vorrei segnalare il suo gatto-avatar Guillaume-en-égypte, “imparentato” a M. CHAT dell’artista Thoma Vuille, che ha accompagnato alcune delle proteste dell’ultimo decennio.
Qui trovate una raccolta dell’azioni di M.CHAT e del suo legame con Guillaume-en-égypte: http://pinterest.com/lavoroculturale/m-chat-and-chris-marker/
Interessante ricordare che la grande narrazione rossa di Le fond de l’air sia quasi contemporanea al Lyotard della fine delle grandi narrazioni.
Sara’ che faccio fatica a distinguere cio’ che desidero vedere da cio’ che vedo, ma il Merker che tesse filiazioni e percorsi generazionali mi sembra piu’ attuale di lyotard che pure lo segue di due anni.
grazie massimiliano per il link gattesco
a jacopo, sì in effetti il parallello che suggerisci è interessante (anche se poi credo andrebbe distinto il Lyotard, per quel che voleva dire, dal Lyotard, per quel che gli si è fatto dire)