Surf-publishing: Marcello Capozzi
Sciopero a parole
di
Marcello Capozzi
Tempo fa avevo l’incubo ricorrente di finire sotto terra con l’ultimo respiro ancora in gola. Paura che qualcosa nel morire si inceppasse, conservandosi intatto. Qualcosa di risparmiato, di non speso, che restasse lì come una specie di rimasuglio di gas tra i fornelli o il getto d’acqua avanzato dai rubinetti chiusi, prima di abbandonare casa. Temevo di attardarmi in una misteriosa forma cocciuta di permanenza incarnata, inconstatabile dall’esterno. Il sogno mi inscenava all’aperto. Attorno a me c’era gente, di cui percepivo chiaramente la presenza malgrado le palpebre serrate. La mente s’allungava, ma nulla del mio stato di coscienza era comunicabile. Qualcuno ricopriva la bara e la chiudeva con un sigillo. Io venivo cautamente calato giù nel pozzetto rettangolare profondo tre metri. Poi, con ritmica graduale, il solco nel terreno si faceva colmo sopra di me. E per gli altri ridiventava suolo.
Un giorno però mi rimisi a suonare. Riaggiustai i miei strumenti musicali e cominciai a mettere del materiale da parte registrando tracce un po’ alla buona. Nel frattempo, portavo a termine il mio percorso universitario in Filosofia alla Federico II di Napoli e sperimentavo qua e là un po’ di quelle forme contrattuali ricorrenti e bislacche, che anche se dette con un lapsus son sempre vere: tirocini o stage con rimorso spese, contratti a rigetto e a.che.pro., o giù di lì. Generalmente tutte occasioni da perdere.
Ma ciò che ti aliena ed offende può anche ricondurti a te stesso. Come tanti altri ho vissuto e vivo situazioni strane, apparentemente senza ordine. E in fin dei conti, non so neanche bene in che modo giudicare questo nostro tempo. Riesco solo a pensare che ora come ora vale la pena suonare. Una congiuntura economica drammatica come quella attuale lascia osservare nitidamente che se si ha la sensazione, anche solo l’impressione sbagliata, di possedere un talento, non vale la pena lasciarlo inutilizzato in nome di una visione realistica delle opportunità sociali. Nutriamo un sogno concepito in un universo povero? Ma qual è la ricchezza contrapposta? Esiste un mo-do più efficace di tirare a campare, la possibilità concreta di costruire condizioni diverse, un lavoro stabile, una sicurezza di rango superiore? Gli operai sulle gru, gli insegnanti sui tetti, le decine di migliaia di persone che si immolano per forme sempre più pericolose, spettacolari e solitarie, di protesta, rivendicando ciò che hanno già perso, dimostrano che la povertà non sta da una parte soltanto. E non si può più temere di rispondere, utilizzare i propri strumenti espressivi, quelli vecchi, quelli che si erano appunto abbandonati. Una persona che di mestiere fa il cantante mi ha detto che a fare questa vita si rischia di finire male. Io spero in qualche modo di riuscirci. Perché, in fondo, mi viene da dire: come altro è che si finisce?
Per questo motivo mi sono chiuso tre giorni in studio di registrazione per incidere un Ep, intitolato SCIOPERO. Sono stati tre giorni estremamente frenetici e pieni di grandine, a cui ho attribuito una profonda carica simbolica. Tempo e budget erano risicati e sui risultati mi sono dovuto in parte accontentare, facendo anche a meno di ave-re una band. Ma va bene lo stesso: a quanto raccontano, c’è chi in tre giorni si è dedicato ad imprese ben più complesse, come la resurrezione. Ed anche per me è un po’ così. A questo SCIOPERO potete attribuire il colore che preferite, in piena libertà… giallo, rosso, arancione, verde, blu… magari bianco e nero assieme. Per quanto mi riguarda, posso solo dire che ho 28 anni e che da questo evento, con questo gesto, la mia biografia oggi riparte.