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Nuove prose brevi

di Jacopo Ramonda

 

CUT UP N. 101

Ora che trascorro la maggior parte del mio tempo lontano da casa, dormendo per più di centottanta notti l’anno in hotel, mi sento spesso come se stessi rincorrendo qualcuno. I ricordi degli aeroporti, dei ristoranti, delle sale d’attesa, delle stanze d’albergo si mescolano e si confondono tra loro. Fatico ad associare i volti degli sconosciuti con cui ho scambiato stringate considerazioni impersonali alla città e alla lingua nelle quali quelle brevi conversazioni hanno avuto luogo. Per qualche motivo ho invece l’impressione di non dimenticare mai una faccia, di non dimenticare nessuno di loro, almeno non completamente. Durante le tratte in taxi osservo la città attraverso il finestrino, il flusso di passanti che si muove in massa, come uno stormo, camminando con passo deciso lungo le rotte di brevi spostamenti giornalieri, di una migrazione in scala. Mi mancano le nostre conversazioni serali, le nostre conversazioni seriali in cui ci sfogavamo parlando di risultati teoricamente alla nostra portata, di traguardi dati per scontati e poi mancati per pochi millimetri. A volte scatto anonime fotografie mentali delle toilette degli aerei e dei fusi orari che si rincorrono fuori dal finestrino, foto di dettagli che non appartengono a nessun posto in particolare. Sono detriti, documenti delle macerie, reperti che includerei in un’ipotetica lista di oggetti d’uso quotidiano, da datare e archiviare in un deposito sotterraneo, dove si conserveranno per i posteri come testimonianze del passato.

*

ENNE (cut up n. 95)

Mi ero svegliato con quasi un’ora d’anticipo, riemergendo da un sogno che non riuscivo a ricordare, ma di cui sentivo ancora il peso. Mi ero appena vestito e mi stavo preparando per andare a lavorare, quando il telefono ha iniziato a squillare. Mentre mi avvicinavo sapevo già quello che avrei sentito non appena alzata la cornetta. R. e il suo tono di voce sono state altre due conferme. Come immaginavo, mi è stato detto che N. era morta nella notte. Per qualche motivo ho deciso di cambiarmi e farmi la barba, poi ho chiamato in ufficio, dimenticando che era ancora troppo presto perché qualcuno rispondesse. Quando ero ormai pronto ad uscire, già con le chiavi di casa in mano, è scattata la sveglia. Sono andato a spegnerla e ho sentito la necessità di stendermi un attimo sul letto, con scarpe e cappotto. Sono rimasto lì per qualche minuto a guardare il soffitto e mi è tornato in mente il sogno.

*

NELL’ALVEARE (cut up n. 121)

Il primo giorno di lavoro arrivo in ufficio in anticipo. Mi fanno fare un giro turistico del mio futuro, sul set dei miei prossimi anni di vita. Lo scenario della monotonia è composto da una serie infinita di scompartimenti asettici, anonimi. Strutturalmente uguali tra loro, imparerò a distinguerli con un colpo d’occhio, osservando i piccoli oggetti personali di proprietà dei dipendenti che li occupano, portati da casa nel tentativo di personalizzare il proprio spazio.

*

LA STASI (cut up n. 104)

Come un cane addestrato espleto tutti i doveri necessari a garantire il mio sostentamento, e mi destreggio con efficienza tra gli impegni della giornata. Mi sono abituato a sorridere per risultati minimi, o per sventate minacce; mi siedo comodo, a subire la vita, consapevole del fatto che certi cibi richiedono una maggiore masticazione rispetto ad altri. A volte, prima di dormire, ripenso a tutti gli errori che ho commesso d’istinto, alle intuizioni rimaste intrappolate nelle ragnatele, alle mie migliori intenzioni contaminate dalle necessità, da ristrettezze che non sono stato in grado di preventivare. Mi rendo conto che il mio passato recente è stato pesantemente condizionato da scelte invisibili, da scambi mancati che mi hanno arenato su binari morti e dalle conseguenti reazioni a catena che quelle sviste hanno innescato. Nel dormiveglia ritorno sui luoghi dei miei incidenti, mi rivedo seduto sul bordo di un cambiamento radicale che allora non mostrava ancora alcun sintomo, ma che di lì a poco mi avrebbe travolto. Ripercorro le deviazioni che ho imboccato senza rendermene conto, forse per mancanza di intuito o di esperienza, e che mi hanno portato qui, a questa vita che non mi somiglia, che sembra essere frutto di un equivoco.

Durante il giorno tutto ha un sapore completamente diverso e raramente cedo a pensieri di questo tipo. Le settimane trascorrono velocemente, rincorrendosi tra loro, ed io mi lascio trasportare dalla corrente, dalla routine che dirige le mie giornate, avanzando lungo il percorso di tappe obbligate con il pilota automatico. Seguo il corso del fiume, facendo attenzione a non esondare, fino a quando mi accorgo di alcune inezie che mi schiacciano al suolo. Non so perché, ma a volte il minimo inconveniente è sufficiente per scoraggiarmi, per indurmi a desistere; ogni ostacolo sembra essere la conferma di un errore a monte, di un progetto fondato su uno sbaglio. Queste riflessioni troncate sul nascere mi portano quasi sempre alla stessa conclusione, ad una conclusione di comodo: mi dico che, in fondo, rientra tutto nella media di incidenti ordinari e trascurabili morti quotidiane, infinitesimali parti di me che muoiono nelle mie apnee, speranze perse e poi dimenticate, piccole ischemie. Arriverà il giorno in cui mi basterò, in cui qualunque cosa sarà abbastanza, pienamente sufficiente. Alcune specie animali cambiano sesso spontaneamente quando si trovano in un ambiente monosessuale. Basterà pazientare ancora un po’ e presto, anche per me, arriverà il giorno in cui il sollievo sarà permanente, il compromesso diventerà un’abitudine, un meccanismo mentale perfettamente efficiente, un automatismo, come il battito cardiaco.

*

CUT UP N. 79

Poi ti è uscita di bocca quella frase che ha rimbombato nella mia testa per giorni, protraendo l’eco di un tonfo sordo e stonato, simile a quello di uno strumento musicale che cade a terra. Ripenso spesso alle tue piccole manipolazioni e ai tuoi discorsi contromano per spingermi a fare quello che vuoi, dando ad intendere che sia stata una scelta mia. Da qualche parte ho letto che i muscoli dell’esofago sono estremamente sviluppati, al punto tale che riusciremmo a mangiare anche appesi al soffitto per i piedi, eppure questo boccone amaro non riesco a mandarlo giù.

*

 

INVERNO (cut up n. 124)

Anche il ghiaccio assume forme minacciose qui da noi. È inverno dentro e fuori. La neve si è accumulata dappertutto, per strada e sui pavimenti della nostra camera da letto, dei treni che prendo per andare a lavorare. Aspetto il disgelo e assisto ad una noiosa serie di tamponamenti a bassa velocità, in cui nessuno resta ferito. Auto delle dimensioni di un giocattolo sbandano e finiscono fuori strada lungo il nostro corridoio, fermandosi contro il battiscopa. Tengo il conto degli spartineve che restano incastrati sotto i termosifoni e dei passanti unicellulari che scivolano sul parquet ghiacciato. Aspetto il disgelo, continuando a scrivere in treno, nei bagni, quando resto fermo in coda sul raccordo e negli altri spazi lasciati vuoti dal resto. Note a margine di eventi trascurabili, scritte nei tempi morti.

*

CUT UP N. 97

Mi sono svegliato con una gran sete e ho notato il leggero chiarore che proveniva dal corridoio e filtrava attraverso il vetro satinato della porta. (L’abbiamo coperto con una tenda sottile, ricavata da un tessuto di recupero, per impedire al sole di svegliarci, visto che abbiamo entrambi bisogno di un’oscurità pressoché totale per riuscire a dormire.) Ho sentito che non c’eri ancora prima di girarmi e accendere la luce. Ho subito pensato che ti fossi di nuovo addormentata sul divano, con la tv accesa, come fai nelle notti in cui l’insonnia ti tiene sveglia fino a farti passare la voglia di restare a letto. Ho spostato le coperte e mi sono alzato; in tre passi ho attraversato il brevissimo corridoio che divide la nostra camera dal salotto, dove ti ho trovata seduta sul tappeto, con la schiena appoggiata al divano, a guardare la legna bruciare nel camino che non accendevamo da anni. Appena mi hai sentito arrivare, ti sei voltata e mi hai fatto cenno di sedermi accanto a te.

*

SICCITÀ (cut up n. 99)

L. e V. si imbattono continuamente in deformazioni grottesche di loro stessi, principalmente nei riflessi delle vetrine del centro, ma anche in ufficio, quando spegnendo il pc pochi minuti prima della fine dell’orario di lavoro, restano seduti inespressivi davanti allo schermo nero, che restituisce un’immagine morta del loro viso perfettamente coincidente con quella che è diventata una sensazione latente, un sottofondo costante di rumore bianco.

V. sostiene di aver sentito dire, probabilmente in un documentario sullo spiaggiamento dei cetacei, che non si conosce la ragione precisa per cui, ogni anno, un notevole numero di esemplari si arena a riva. Stando ai ricordi di V., alcuni studiosi ritengono che finiscano semplicemente per perdersi, mentre altri non escludono l’ipotesi di un disorientamento interiore più profondo e radicale, che culminerebbe in questo atto di autoeliminazione.

*

TRASLOCO (cut up n. 77)

D. si sveglia di soprassalto sotto una coperta di sudore, senza sapere dove, come, né perché. Si drizza a sedere sul letto, inspirando profondamente con la bocca, come se avesse appena infranto la superficie dell’acqua risalendo da un’immersione in apnea. Mano a mano che le sue pupille si adattano all’oscurità, riesce a ricostruire la geografia della stanza e finalmente capisce dove si trova. A volte si sente come un organo trapiantato. Mentre riprende fiato, si ripete che devono solo finire di portare lì le loro cose, e presto anche quel posto diventerà un nuovo modo di dire casa.

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10 Commenti

  1. ottima prosa inediaristica (“mi siedo comodo, a subire la vita”). possiede un incedere affabulatorio e musicale che smussa-riempie il vuoto, fattosi tangibile data l’evidente mancanza di appigli nello spazio (vano il tentativo di personalizzarlo). ed ecco allora il fascino di questi frammenti sparsi, perfettamente coincidenti con quello che è il sentito dire, il rumore bianco, i tempi morti, i cani addestrati e la sensazione latente di essere nota a margine di eventi trascurabili. il nero dell’inchiostro, ancora più dello schermo nero, restituisce un’immagine fatta di segni rassegnati, di intimi tic che ci intimano di obbedire all’equivoco: parole che balenano controluce come cetacei, *colte* dal disorientamento interiore più profondo, la cui d’esistenza kafkiana culmina in questo atto di auto-eliminazione (ovvero, lo spiaggiarsi sul foglio). peccato manchino completamente i dialoghi.

  2. Grazie per il commento. Credo che la mancanza di dialoghi sia una scelta quasi obbligata (per quanto contestabile, naturalmente) che ha a che fare con la teoria dell’omissione.
    Queste prose, infatti, potrebbero essere definite come le trascrizioni dei pensieri dei personaggi (o delle voci narranti) nel momento stesso in cui smettono di parlare, nel momento in cui cedono definitivamente al silenzio, facendo un passo indietro e rinunciando alla comunicazione con l’esterno, per rinchiudersi in una riflessione prettamente interna, senza sbocchi.
    I dialoghi non vengono mai riportati, ma in realtà hanno una funzione chiave: in Enne la conversazione tra la voce narrante e R. viene riportata indirettamente, è il prendere atto di un evento che lascia senza parole e che non ammette repliche, che vanifica qualunque reazione. In Cut up n. 79 il dialogo è addirittura un antefatto di cui non si conosce nulla, se non l’effetto che ha sulla voce narrante. In Cut up n. 101 le conversazioni sono occasioni mancate e si confondo nella mente del protagonista, che fatica a ricollegare i volti dei suoi interlocutori con le loro parole: una comunicazione fallimentare, che non lascia traccia, a parte l’irritante consapevolezza di non aver voluto (o di non aver potuto) esprimersi, di aver preferito uno “scambio di stringate considerazioni impersonali” al tentativo di una comunicazione autentica. (Le conversazioni serali a cui la voce narrante fa riferimento sono state invece sincere occasioni di sfogo, ma sembrano essersi perdute nella loro serialità.)

  3. Alcune mi sono molto piaciute, minuzie quotidiane illuminanti. Le rileggerò e alcune frasi le porterò con me.
    Devo dire una cosa però (che sorprende me stesso, perché pensavo di non farci mai davvero caso)… Le chiuse delle prose, non mi aspetto chissà cosa, ma non me n’è piaciuta davvero quasi nessuna, anzi alcune sono addirittura letterariamente scontate.

  4. Marco, non mi piace dare risposte evasive, ma se non mi spieghi esattamente quello che ti aspetti da una chiusa, mi riesce difficile risponderti.
    È ovvio che queste prose non intendono offrire un finale risolutivo. In effetti non hanno proprio un finale, nella maggioranza dei casi sono troncate, amputate.
    Questi testi sono stati sviluppati con una versione fortemente rivisitata e personalizzata della tecnica del cut up, mescolando tra loro annotazioni concluse in sé, di una o due frasi.
    Il periodo finale non vuole quindi prevalere sugli altri, né avere un particolare effetto conclusivo.
    Il mio intento è quello di far interagire frasi originariamente slegate, fondendole, mettendole in relazione tra loro (causale, temporale, ecc. ecc.) e creando un contesto intorno ad esse. In un certo senso cerco di sviluppare (moderatamente) l’aspetto narrativo, evitando però di approdare ad una trama, ad un intreccio, con l’intenzione di mantenere la frammentarietà, che è un ingrediente fondamentale della mia scrittura. In quest’ottica il finale non ha praticamente ragione di esistere.
    Io punto più che altro a creare un mood costante in tutto il testo, cercando soprattutto di scegliere le parole con la massima precisione possibile.
    Alcuni anni fa avevo la tendenza a concludere i miei testi in modo forse più convenzionale, finendo però per dare giudizi, per cadere nel morale, oppure esplicitando eccessivamente il messaggio con una metafora conclusiva spesso troppo altisonante, goffamente pretenziosa.
    Con il tempo mi sono reso conto di non amare i finali e ho abbandonato questo genere di soluzione, che comunque non si sposava per nulla con la mia scrittura. Di recente ho riletto Cheever e mi sono scoperto infastidito dal suo cercare un’ultima frase memorabile, come se volesse concludere con un crescendo: molti dei suoi racconti per me sono quasi perfetti, fino alle ultime due-tre frasi, che vorrei tagliare!
    Dal tuo commento mi rendo conto che normalmente neanche tu ricerchi il fulcro di un testo nel finale, quindi la tua è una critica che mi interessa, perché non proviene da una semplice differenza di gusto. Quello che per me è un non-finale, per te sembra essere una conclusione banale. Vorrei capire meglio.

    • Assolutamente si, avevo intuito la tua non ricerca di un finale, o almeno l’intenzione. E anche la costruzione del testo è molto coerente a quello che dici nel commento. In alcune come cut up 97 la troncatura finale è perfetta. Rompe quel sistema narrativo al quale ti riferivi e sembra “ritmicamente” congrua a tutto il resto.
      In INVERNO invece semplicemente l’ultima frase non mi piace, mi disturba. Mi sembra di averla scritta e riletta milioni di volte. Ma quello penso sia un problema mio.
      Paradossalmente però in un paio o tre, dove come con le altre mi aspettavo la troncatura netta, o quel lievissimo scemare come in ENNE, io invece c’ho trovato quel finale che poco ci piace :)
      Adesso le ho rilette per la quarta o quinta volta, e come ieri quelle che mi lasciano un po’ quel senso di “finale” sono La Stasi (dove tra l’altro c’è una frase fantastica) Cut Up 79 e Trasloco.
      Mi è venuto il dubbio devo ammettere, che fossero il mio approccio con la lettura e l’intonazione che davo leggendo ad alta voce a trarmi in inganno. E sicuramente questo ha influito.
      Però anche oggi rileggendole l’impressione è la stessa. Provo a ragionarci, forse sono quelle parole nello specifico, in quella disposizione, a farmi scivolare durante la lettura in quel finale di “senso” del quale parlavamo. Però ecco, in queste 3 indicate avverto quelle piccole sentenze di verità, e che invece tu volevi evitare.

      • Prima di tutto ti ringrazio per la tua lettura ravvicinata e attenta.
        Sicuramente il fatto di leggere queste prose ad alta voce può essere stato fuorviante, dato che non puntano assolutamente sul ritmo e sulla musicalità.
        Tuttavia credo che la ragione delle nostre (piccole) divergenze sia un’altra.
        Quando parliamo dei procedimenti che stanno alla base di un certo tipo di scrittura, delle intenzioni e dei processi di costruzione del testo, il confronto è semplice perché stiamo affrontando la questione da un punto di vista (relativamente) razionale.
        Rileggendo il tuo commento, mi sembra abbastanza evidente che, se ci limitiamo alla “teoria”, io e te ci troviamo piuttosto d’accordo, almeno per quanto riguarda questo discorso sul ruolo del (non) finale nelle mie prose.
        Le divergenze subentrano nel momento in cui passiamo dalla teoria alla pratica, dall’oggettività alla soggettività, il che è perfettamente normale, visto che la lettura (proprio come la scrittura) è un’attività vincolata solo parzialmente alla sfera razionale (e meno male, mi viene da dire).
        Mi rendo conto che questo è il discorso più banale del mondo, ma credo che contenga la risposta.
        La sensibilità individuale è ovviamente un elemento fondamentale e costitutivo della lettura e della scrittura ed è da qui che nascono le nostre divergenze, dalla componente soggettiva: io mi trovo sinceramente d’accordo con quasi tutto quello che hai scritto nel tuo commento, ma questa visione comune iniziale mi porta comunque a conclusioni diverse dalle tue, quando passo dalla teoria alla pratica, dall’analisi delle intenzioni che stanno alla base dei testi, al confronto sull’effetto emotivo che queste prose hanno su di me.
        Per esempio, tu mi dici di apprezzare particolarmente la chiusa di Cut up n. 97, che è proprio l’unico finale su cui ho avuto dubbi per moltissimo tempo! :)
        Sul piano teorico e razionale hai assolutamente ragione quando metti in luce una certa contraddizione tra la mia intenzione di evitare il finale e le chiuse di La Stasi, Cut up n. 79 e Trasloco. “Piccole sentenze di verità” è davvero l’espressione giusta. E in effetti è proprio quello che vorrei evitare.
        Ma quei testi mi hanno portato lì. Naturalmente avrei potuto modificarli in nome di una maggiore coerenza (prima di arrivare alla versione definitiva di una prosa passo attraverso un numero imbarazzante di revisioni) ma ho deciso di non farlo perché il risultato finale non mi disturbava. Questa contraddizione era per me più che tollerabile, anzi alzava il livello artistico di quei testi. A volte scopro quello che voglio dire nell’atto di dirlo e quando questo accade, sono più che felice di accettare una certa discrepanza tra intenzioni e risultati. A volte è necessario fare delle eccezioni. Essere leggermente contraddittorio non mi preoccupa più di tanto, se ne vale la pena (il fatto che ne valga la pena è soggettivo).

        Per quanto riguarda Inverno, il discorso è un po’ diverso, secondo me.
        Credo che molto semplicemente non ti piaccia la frase “Note a margine di eventi trascurabili, scritte nei tempi morti.” a prescindere dalla posizione che occupa. Il fatto che sia posta in chiusura probabilmente la mette in evidenza, ma credo che ti avrebbe comunque disturbato anche se si fosse trovata nel mezzo della prosa.
        A parte questa necessaria precisazione, credo che tu abbia ragione: è una frase che sa di già sentito, ma era esattamente quello che volevo dire e, molto sinceramente, ho scelto di fregarmene della sua banalità.

        Un’ultima precisazione, che mi sta a cuore: l’impossibilità di arrivare a soluzioni nette quando il discorso si sposta dalla dimensione teorica a quella “sensibile” non lo rende vano o inutile. Personalmente traggo un certo piacere nel riconoscere il peso della soggettività (in questo periodo sto facendo leggere questi testi a molte persone, traendone spesso feedback davvero contraddittori) forse perché è deresponsabilizzate e ci alleggerisce da quell’incredibile peso che deriva dallo scrivere.

        • Magnifico! Riflettendoci, sono le conclusioni alle quali sono arrivato. Come dire che leggevo il tuo commento ed annuivo! :) Ero approdato anche io alla questione dei finali non cercati ma venuti da se’, giustamente non “censurati”, e questo effettivamente è giusto. Ed anche tutto il discorso sulla soggettività, mi trovi a questo punto pienamente d’accordo. E’ vero infatti che nell’atto pratico poi subentra la “scelta” ed il “gusto” di ognuno a prescindere da quello che si teorizza.
          Incredibile quello che mi dici sul Cut Up n.97! Certe volte la linea di pensiero è talmente vicina che sfiora la telepatia.
          Quando ieri ti scrivevo il commento l’ho pensato, mi sono detto: vedrai che quello è il finale che meno convinceva e piaceva a lui!
          Siamo partiti da sensazioni molto simili, abbiamo percorso tu nella scrittura ed io nella lettura strade diverse, ma siamo approdati alle stesse conclusioni. Potere della prosa ben scritta! Magnifico appunto! :)

          • Sì, questa conversazione è stata davvero interessante anche per me!
            Mi piacerebbe inviarti altri testi per mail, ma non sono sicuro che si possano pubblicare gli indirizzi e non vorrei creare problemi di privacy a NI, quindi ti linko il mio profilo fb: http://it-it.facebook.com/jacopo.ramonda
            Se ne hai uno anche tu, richiedimi l’add per favore.

  5. Questo è un mio autoritratto che ho scritto nel 2006, quando anch’io passavo da un albergo all’altro:

    Mi rappresenta uno spazio ampio,
    luminoso, disordinato,
    impossibile da conoscere
    con un unico sguardo.
    Con un insegna al neon.
    Io non abito, pernotto.

    Avevo anche abbozzato uno schizzo che ho riportato nel mio blog.
    Buonanotte a tutti.

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