il novantesimo minuto (senza recupero) di Antonio Rezza
Oggi su Il Venerdì di Repubblica Gianni Mura ha scritto una bella recensione, il campionato di calcio degli scrittori italiani dedicata al libro curato da Carlo D’Amicis per Manni Editori, C’è un grande prato verde , 40 scrittori raccontano il campionato di calcio 2011-2012. Ho chiesto alla splendida, nel senso di solare, Agnese Manni di pubblicare su Nazione Indiana l’anteprima del racconto di Antonio Rezza. Per tre ragioni. La prima è perché Rezza in napoletano significa Rete. La seconda perché è davvero un racconto bello tosto. La terza è perché con Orsola amiamo molto l’artista, ma questo è un altro discorso. Effeffe
La trentaduesima giornata
di
Antonio Rezza
Aprile, ennesima giornata infrasettimanale di calcio. Il controllo sociale è ormai completo, si spostano negli stadi problemi che fuori sarebbero pericolosi per la viabilità, per la vita civile. Lo stadio finisce per essere un contenitore di gente illusa, frustrata, violenta, falsamente politica, strumentalizzata e superficiale. La protesta nei confronti dello stato si camuffa in passione incondizionata. Chi urla il nome della propria squadra urla la sua disperazione, l’insoddisfazione di uomo represso a sua insaputa. Le città si muovono in attesa dell’evento, le sciarpe al collo dei tifosi sono il cappio del condannato. Impiccati a una passione fasulla si suicidano nel giorno del Signore. Che non li ha mai creati a sua immagine e somiglianza: Dio non ha bandiera, Dio, non esistendo, ha permesso all’uomo di scivolare nell’oblio. Dio non è mai stato dalla parte dell’uomo. Dio non tiferebbe mai per esseri inferiori.
Chievo-Milan
Inter-Siena
Fiorentina-Palermo
Parma-Novara
Napoli-Atalanta
Catania-Lecce
Roma-Udinese
Juventus-Lazio
Genoa-Cesena
Bologna-Cagliari
Iniziano le partite, guardo gli spalti gremiti di gente che si esalta per le imprese altrui. Sui volti di chi tifa con la gola squarciata da un amore assurdo scorre la sofferenza di non essere altrove, l’impossibilità di fuggire dalla gloria riflessa, di non poter correre per dimenticare.
Ognuno vorrebbe essere l’oggetto del suo desiderio, ma l’amore del tifo è dimesso come quello dell’uomo. E in più va pagato. Istigazione alla prostituzione in luogo pubblico, ecco l’idea che ho di chi paga. Si ama senza toccare, si ama con gli occhi velati da una malinconia antica. Si ama con gli occhi così poco accecati. Chi non vede tifa in un altro modo, chi ha perso la vista tifa per sentito dire, chi sente dire, se non sentisse, potrebbe evitare di fare da bastone a chi non vede. Chi ha perso la vista tifa come chi ha perso la parola. Emozioni mozze nella gola di chi non parla e negli occhi di chi non vede. Il tifo ideale: nella sciagura di due uomini senza sensi, l’individualismo trionfa involontario: uno non vede le partite e l’altro non le può raccontare. Ecco cosa sarebbe il tifo superiore, quello nobilitato dalla sventura che rende finalmente l’uomo padrone del suo io incompleto, difettoso, anomalo ma diverso da tutti quelli che usano la vista e la bocca come succursali di un culo ormai affittato all’abominio. Chi gioca deve sperare nella buona salute di chi guarda. Chi gioca tifa la sana e robusta costituzione di chi vede. Un pubblico di ammalati non sarebbe così caloroso, lo spettatore deve scoppiare di salute, gli ammalati non sono graditi poiché la sofferenza li rende sovversivi, hanno il dolore a farli inaffidabili. Ma è chi sta bene che sprofonda nel malessere. Ci si riempie gli occhi di poco e si parla di nulla per un’intera settimana. Forse gli spalti rappresentano l’unico momento di libertà di questo gregge prezzolato che affonda nelle paludi della propria inefficacia. Immagino partite cui assistono solo ciechi e sordi, con sensazioni fuori sincronia perché il cieco non vede l’azione e il sordo può gioire solo con vocali strozzate che fanno però da aiuto al cieco che quando sente il grido soffocato del sordo uscire dalla gola gioisce senza verifica. Una gioia condizionata. Vedendo giovani e vecchi con lo sguardo perso di chi dimentica la propria sconfitta provo grande disgusto verso una massa troppo forme, che ha scelto di non ribellarsi al bavaglio spalmato di miele. La ribellione è solo nell’handicap, solo nella sottrazione di pezzi a questo corpo che conduce sugli spalti a morire lentamente. Deportazioni in pieno stile. Deportazioni moderne, con il sorriso a sostituire l’orrore. Ma per questo l’inquietudine è sovrana: vedere la felicità di chi a poco a poco sta perdendo il libero arbitrio mi sembra un crimine contro l’umanità. Ma c’è la falsa credenza che chi ride è contento, che chi ride ha libertà di scelta. Chi non cammina, chi non vede, chi non sente, ha un modo più civile di gioire, non per virtù ma perché costretto a essere infelice. Nell’infelicità una possibilità di salvezza. Nell’handicap la certezza di sfuggire ai meccanismi del consumo. Intanto mentre una squadra segna vedo occhi drogati di niente morire su facce assopite, segnate da una vita esteriore. Si assomigliano tutti questi neo mentecatti, tollerati dalla società civile perché in grado di produrre profitto, di foraggiare le casse di chi paga il gioco infame. E nelle case lo sterminio continua sul divano, famiglie intere sedute tra odori di cucina e puzza di fumo a gioire per una nuova e duratura debacle. Divani affossati dall’assenza di interessi superiori. Case dove per tutta la settimana si è parlato dei culi dei figli da pulire, case involgarite da problemi familiari vengono ora mortificate dal tifo collettivo, a gestione patriarcale, da un padre che si fa dolce di fronte alla sua squadra che mantiene il risultato. Sguardi segnati da una vita di apparenza e di spensieratezza coatta somministrata a dosi sempre più massicce. Ma non è tanto la gioia che rende stupido il tifoso, la gioia è superficie pura, non scava mai nel profondo, si limita allo stretto necessario, è un sentimento falso perché si regge sulle piccole cose. Non è la gioia per un gol segnato che rende il tifoso miserabile. È la sofferenza per un gol subito che lo fa apparire senza dignità, privo di difese, verme tra i vermi a decomporre le intenzioni. Nella gioia spesso sembriamo tutti uguali, ma è nel pianto e nel dolore che emerge l’arroganza: chi soffre crede sempre di essere dalla parte della ragione. Insomma che la Juve e il Milan lottino per un tricolore origine tra l’altro di un’infermità sociale, non mi interessa proprio. E allora concepisco il pubblico ideale, quello che renderebbe disabile chi corre: un pubblico di affamati, di profughi, di non vedenti, di sordi, di muti, di non deambulanti, di battuti, di ingannati, di poveri, di moribondi. Ecco il pubblico ideale e che sia la sciagura collettiva a nobilitare questa massa che affolla stadi enormi, che riempie divani tristi come la vita, che procede domestica come un cane addestrato. Divani con così poca infelicità, senza una tragedia a nobilitare il velluto consunto da anni di militanza forzata.
Questi i risultati:
Chievo-Milan 0-1
Inter-Siena 2-1
Fiorentina-Palermo 0-0
Parma-Novara 2-0
Napoli-Atalanta 1-3
Catania-Lecce 1-2
Roma-Udinese 3-1
Juventus-Lazio 2-1
Genoa-Cesena 1-1
Bologna-Cagliari 1-0
E questo è il risultato, un popolo senza identità, costretto a cercare la felicità nelle gesta di chi neanche lo vede. Un popolo coglione col sorriso sulle labbra. O con la lacrima che scorre. Mentre scorre la vita di ognuno senza che ognuno abbia veramente mai tifato per se stesso.
Quarta di copertina
C’è un grande prato verde
40 scrittori raccontano il campionato di calcio 2011-2012
Il campionato di calcio è un appassionante romanzo.
E allora perché non scriverlo? Perché non trattare Ibrahimovic, Pirlo e gli altri eroi del pallone come personaggi di una fiction a puntate?
Questa la sfida raccolta da 40 scrittori (tanti quanti sono i turni della serie A, con l’aggiunta della prima giornata di sciopero, e con una coppia), che in questa antologia raccontano, domenica dopo domenica, davanti alla tv o su un seggiolino dello stadio, l’edizione 2011-2012 del rito più amato dagli italiani.
Un rito fatto di gol strepitosi e di eccezionali parate, ma anche di radioline accese, pomeriggi in poltrona, chiacchiere da bar: un libro, quindi, che nel ricostruire l’andamento del campionato attualmente in corso, descrive il rapporto – abitudinario e avventuroso al tempo stesso – che ogni italiano, tifoso o no, intrattiene con il grande circo del pallone.
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Nell’ambiente sportivo- parlo dal campo delle donne- nasce una musica particolare.
Seguo la partita, ma catturo con l’orecchio il ritmo, il grido di gioia o di dispiacere, il silenzio del pericolo, l’istante decisivo, il sottofondo-
mi parla della festa di un paese, l’indifferente conosce in realtà commozione, l’amaro e il rabbioso trovano dolcezza, l’uomo solo incontra l’allegria commune,
l’entusiasta ha ragione di esperare.
Racommando la lettura poetica di Valerio Magrelli che ha dedicato un libro al calcio.
Nel grande prato verde, spero leggere il nome di una scrittrice.
in ” C’è un grande prato verde ” non sono scrittrici da quota rosa, piuttosto diciamo d’alta quota : Elisabetta Liguori, Pulsatilla, Elena Stancanelli, Valeria Viganò, effeffe
ciau verò
effeffe
grande antonio rezza, faccio il tifo per lui da una vita!!!
Dio, le stronzate che si pubblicano in Italia.
2006 correva l’anno
Campioni del mondo.
Quella parte del palinsesto
Che ci rende felici.
Viva il gioco della palla|
il tifo per le squadre di club ha sempre qualcosa di più genuino e ancestrale del tifo a geometrie variabili per la nazionale e alla retorica di cui sono pervase le manifestazioni di interesse delle istituzioni quando i risultati fanno sentire l’orgoglio di un’appartenenza che dimentichiamo quando si tratta di analizzare i livelli non più sopportabili di malversazione raggiunti nella pratica quotidiana di una burocrazia che fa schifo(ahò,forza toro sempre)
http://www.youtube.com/watch?v=AIKUDn1L5yQ