Incontinental jazz : Franco Bergoglio
Lamento per l’Emilia colpita: Capannoneide.
di
Franco Bergoglio
Due parole. Il testo Capannoneide, ode a una fabbrica vuota è stato scritto nel gennaio di quest’anno e recitato il 29 marzo scorso, in occasione dello spettacolo della Enten Eller Orchestra E(x)stinzione . L’anniversario dei 25 anni di attività di Enten Eller, uno dei più importanti ensemble dell’avanguardia italiana, è servito per tracciare un bilancio del nostro tempo non esclusivamente musicale.
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Sono passati meno di due mesi da quella serata di musica e riflessione collettiva e il drammatico presente con il terremoto in Emilia Romagna, i crolli di strutture semi-nuove che dovrebbero ALMENO ospitare in sicurezza chi lavora e non solamente violentare l’ambiente del nostro martoriato paese..segnano il ritorno alla realtà. Alcuni si riempiono la bocca col termine industria, ma qui abbiamo contenitori di una produzione che ricatta e spesso fugge dalle responsabilità sociali per inseguire la massimizzazione di un profitto senza regole. Non voglio che Capannoneide diventi un testo tristemente profetico. Lo desidero utile a cambiare le regole e le cose. Migliorare -come peggiorare, del resto- è nella natura umana. Sta a noi fare qualche passo in una direzione o nell’altra.
CAPANNONEIDE. ODE ALLA FABBRICA VUOTA
Gli egizi avevano le piramidi, i greci i templi. I romani -che erano pragmatici- ponti e acquedotti.
E noi cosa lasciamo? Falli di vetrocemento, monumenti al valore per metro quadro e capannoni vuoti. Pericolanti quinte teatrali di siderurgia urbana, vecchie tigri dalle viscere rugginose, ciminiere di denti rotti.
Una volta c’erano le industrie: tronfie della ricchezza che producevano. Grandi macchine, grandi numeri; capacità manuali e intellettuali.
Oggi abbiamo i capannoni. Poveracci. Il capannone è un grasso incapace, figlio di un Brambilla minore che abita con la famiglia nella villetta adiacente, sperando che la Guardia di Finanza non arrivi o addio nero. Capannoni abbandonati, che non possono delocalizzarsi, emigrare dove si pagano meno tasse, cercare paesi con tanti operai e nessun sindacalista.
Capannoni innamorati di un padrone che non ricambia e li tradisce in Corea, Tunisia, Messico, Polonia, Cina.
Cuori crepati di cemento e spine in attesa di un nuovo piano regolatore. In coda per diventare centri fitness o supermercati. Loft per architetti. Covi per spacciatori, casa per clandestini disperati. Scheletri spolpati di macchinari emigrati a Oriente in cerca di fortuna, location per musei.
Pavimenti impregnati di oli esausti, orchi di fuliggine, pance di scorie, muri cotti dagli altiforni, nervi elettrici saltati.
Capannoni ex tutto, suolo sterile di frigorifero vuoto.
Diventano mercatini dell’usato, mobilifici, spazi per stoccaggio di merci, magazzini per la frutta e verdura. Altri, fortunati, si trasformano in cinema multisala. Dalla catena di montaggio alla macchina per il pop corn! Se proprio va male si spiana tutto e si fa un parcheggio.
Nei labirinti di autostrade si intravedono gli outlet: oasi di capannoni addirittura belli, miraggi per viandanti consumisti. Fruscio di vestiti, tazzine, tasti, telefoni, cassiere sorridenti, carte di credito svolazzanti, sottofondo musicale. La gente vi compie sacrifici costosi, nel nome del prodotto interno lordo.
E a nessun bambino viene spiegato che stiamo imparando a vivere respirando veleni e che la terra è finita, prima dell’ossigeno.
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“Fuori dalla città è soltanto polvere, desolazione, rifiuti tossici, scorie, bossoli di proiettile, bottiglie di plastica, polistirolo, cellophane.
Fuori dalla città sono materiali inerti, fonoassorbenti, non biodegradabili, opachi, spenti.
Fuori dalla città è la zona industriale. Sono capannoni prefabbricati dai fantasmi delle ditte fallite.
Fuori dalla città è il limbo, il regno dei morti, è ciò che non ci riguarda più o non ancora. È il quartiere dormitorio. Fuori dalla città è il viaggio per arrivarci, ogni mattina ed andarsene, la sera.
Fuori dalla città ulteriormente sono campi e campagna. È la stasi ed è la tradizione, è la famiglia ed è la religione. È il lavoro a tempo indeterminato. È la sagra, il maiale, la ghiaia, l’estate. È il silenzio notturno e la pace.”
tratto dal mio racconto ‘Full Moon (Training)’.
limbo…fantasmi…è quello che ho tentato di dire anch’io, spero poeticamente. I capannoni sono un non luogo della nostra vita e del nostro paesaggio.
E inizia a chiedere il conto…
Il capannone come suicidio della bellezza? O possiamo pensare ad un potenziale involucro di mille possibili bellezze, multiformi? Di musica, di Jazz, ma si anche come dici tu di magazzini per frutta e libri…. Forse dove può annidarsi il brutto può annidarsi il bello: è il pensiero che c’è un attimo prima che deciderà.
L’ exstinzione ha generato Enten Eller… è nato il bello.
“Capannoni ex di tutto” che diventano potenziali involucri di bello…non tutto è perduto, dunque.
Cara Daniela,
grazie del commento. Non avevamo riflettuto su come tutto questo brutto potesse in effetti partorire classico fleurette africaine, per citare il granDukone. E giustamente chi è coivolto non dovrebbe dirlo, quindi se il commento arriva da orecchie sensibili e attente…