Studenti, avanti!
Un avvenire per le umanità
Intervista a Yves Citton
di
Isabella Mattazzi
pubblicata sul n°20-Giugno- Alfabeta2
Figura di spicco nel panorama culturale europeo, Yves Citton è il teorico della letteratura che più oggi in Francia si è interessato a una radicale revisione del concetto di “sapere” e delle sue diverse articolazioni. Filosofo politico oltre che Professore di Letteratura francese del XVIII secolo e ricercatore del CNRS, Citton sembra porsi nei suoi ultimi libri il problema di un sistema di studi letterari che possa in qualche modo fare da modello a una “società ermeneutica” in cui autonomia critica del soggetto e necessità di un tessuto relazionale, dialogico possano trovare nuovi spazi di mediazione. In occasione dell’uscita del suo Future umanità. Quale avvenire per gli studi umanistici? (:duepunti, pp.220, 20 euro), ho chiesto a Yves Citton di parlarci di alcuni tra gli snodi più significativi del suo discorso.
I.M. Vorrei iniziare sottolineando come il titolo originale del tuo libro sia L’Avenir des Humanités. Nella traduzione italiana, purtroppo, non è stato possibile mantenere il valore polisemico della parola “Humanités” – che in francese può riferirsi tanto alle “Discipline umanistiche” quanto a un’ipotetica declinazione plurale del termine “Umanità” – su cui mi sembra ruotare, di fatto, la costruzione di tutto il testo.
Y.C. In effetti la tesi principale del mio libro non consiste altro che nella coniugazione di due realtà estremamente lontane tra loro, rappresentate linguisticamente da un unico termine. Da una parte l’Umanità, ovvero l’insieme degli individui che si riconoscono come appartenenti alla specie umana. Dall’altra un campo di discipline – gli Studi umanistici – dall’estensione e dalla definizione abbastanza problematica. Ovviamente in francese, come in italiano credo, l’umanità si declina sempre al singolare. Per la vulgata comune l’umanità è una, è sempre stata una, e in futuro non ce ne sarà che una e una sola. Utilizzare il termine Umanità (Humanités) al plurale ha quindi per me un preciso valore programmatico.
Nei suoi scritti Édouard Glissant parla di due grandi direttrici che coesistono e si oppongono all’interno della nostra società contemporanea: la tendenza alla standardizzazione (usiamo tutti lo stesso tipo di telefono, lo stesso tipo di macchina in tutto il mondo) e la sua spinta contraria, ovvero quella che lui chiama la “creolizzazione”, quel contatto tra le culture che si nutre delle loro differenze, preservandole, esacerbandole addirittura per far sì che nasca, da questo scontro, l’imprevedibile. Ogni dinamica di creolizzazione, secondo Glissant, riposa sul concetto di una necessaria pluralità delle culture umane, sul fatto che l’umanità appunto non sia una, ma che si presenti come un’umanità complessa, “molteplice”. Interrogarsi sull’avvenire delle Humanités, significa quindi istituire un elemento di comunanza tra un insieme di “umanità” articolate nella pluralità composita dei loro mondi e un insieme di discipline caratterizzate da una particolare attività intellettiva che potremmo definire interpretazione. Ogni uomo, a ben guardare, è un interprete. Tutti gli esseri umani “interpretano” nel momento in cui cercano di dare un senso agli avvenimenti che accadono intorno a loro. Chi si dedica agli studi umanistici non fa altro quindi che riflettere su un’attività comune all’intera specie umana. Attraverso l’interpretazione di un testo letterario o di una serie di dati storici, le discipline umanistiche ripetono e affinano gesti fondativi e caratteristici di quella che risulta come la componente più radicale della nostra identità.
Tu ti occupi nei tuoi studi di teoria della letteratura e in Università insegni Letteratura francese del XVIII secolo; il tuo modello di discorso, all’interno della costellazione denominata “Studi umanistici”, sembrerebbe quindi essere orientato verso l’esperienza letteraria come mezzo privilegiato di approccio critico. Nel tuo libro, però, più che di letteratura in quanto tale, tu parli di pratiche discorsive “indisciplinari”, che a tuo avviso sarebbero da porre alla base del lavoro interpretativo.
La teorizzazione del concetto di “indisciplina” deriva da una mia forte insoddisfazione verso la rigida suddivisione settoriale delle pratiche di insegnamento, e nello stesso tempo da un’insoddisfazione altrettanto forte verso il tentativo di superare questa suddivisione attraverso l’interdisciplinarietà, pratica tanto amata dalle nostre istituzioni accademiche. Da una parte, io non credo affatto alla necessità di barriere rigide tra le discipline; i cineasti che amo di più in assoluto sono tutti imbevuti, intrisi di cultura letteraria. Personalmente, ho scoperto Pavese attraverso i film di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. Dall’altra, però, trovo che l’interdisciplinarità da sola sia del tutto insufficiente per superare il pericolo di una incomunicabilità istituzionale tra i diversi ambiti del sapere. L’interdisciplinarità funziona in modo del tutto orizzontale: un esperto di cinema, un esperto di letteratura guardano un oggetto comune e la cosa finisce lì. Il concetto di indisciplina richiede invece un’interazione essenzialmente verticale. Mi spiego meglio. Nel mio approccio a un testo, io non parlo solo in quanto “esperto di materie letterarie”, ma in quanto “essere umano” che cerca di far valere la propria conoscenza tecnica della teoria letteraria nella sua articolazione con tutte le altre dimensioni della vita sociale. Naturalmente io sono un professore di letteratura, ma nello stesso tempo sono anche un elettore, un contribuente, un vicino di casa, un padre, un figlio… La caratteristica principale degli Studi umanistici è la loro strutturale spinta a far interagire i nostri saperi specialistici con la complessità della vita. Un romanzo non ci chiede solo di interrogarci su come è organizzata la sua forma o su che cosa fa o non fa il suo valore letterario, ma anche e soprattutto su che cosa significa vivere una vita “propriamente umana”, su che cosa è l’amore, su che cosa sono la colpa, la Storia… L’indisciplina consiste appunto nell’essere coscienti di tutto questo, nel far sì che non ci si accontenti di proporre ai nostri studenti un metodo di studio o di ricerca, ma che si cerchi di porre loro domande sull’utilizzo di questo stesso metodo nell’integrazione dei differenti aspetti della nostra vita.
Ma è possibile inquadrare l’indisciplina di cui tu parli in un modello istituzionale che sia capace di rendere pienamente l’articolazione complessa di questi scambi?
A livello di insegnamento universitario, direi che la sfida, oggi come oggi, è quella di riuscire a dare agli studenti un “gusto” per le discipline. Ogni disciplina, ogni ambito del sapere utilizza diverse “cassette per gli attrezzi”, metodi che sono stati formalizzati al suo esterno; questi metodi devono venire acquisiti dagli studenti semplicemente attraverso la pratica, nello stesso modo in cui possiamo comprare una cassetta per gli attrezzi, ma questa diventa davvero “nostra” soltanto quando iniziamo a utilizzarla. Nell’Università contemporanea perdiamo una grande quantità di tempo a fornire conoscenze piuttosto che a praticare o esercitare competenze. Oggi l’accesso alle informazioni è molto più libero rispetto a venti o a trent’anni fa. Il ruolo di un professore universitario non è più quello di fornire conoscenze (per questo bastano i libri o Internet), quanto piuttosto quello di mostrare agli studenti la propria ricerca nell’atto del suo stesso farsi. Guardare un ricercatore al lavoro, ci fa arrivare direttamente al cuore della sua disciplina. Nella mia Università ideale tutti gli allievi dovrebbero stare a stretto contatto con chi fa ricerca e discutere con i ricercatori dei problemi molto specifici, molto concreti della loro attività. Gli studenti, più che imparare qualcosa di “già dato”, dovrebbero guardare, appropriarsi dei gesti, delle posture di chi pratica il sapere, dovrebbero frugare nella sua cassetta per gli attrezzi per poi a loro volta iniziare a lavorare con la propria.
A quanto mi sembra di capire, l’interpretazione è una pratica che di fatto pone tutti gli interpreti su uno stesso piano – presupponendo quindi una certa forma di “uguaglianza” – ma nello stesso tempo è una pratica che deve essere insegnata e che ha quindi bisogno di un certo “disequilibrio” all’interno della coppia pedagogica professore-studente.
Sulla questione dell’uguaglianza la prima cosa da dire è che un’interpretazione è interessante nella misura in cui ci permette di sviluppare intuizioni riguardo a un testo, un film, ma soprattutto riguardo alla vita stessa. A priori, le intuizioni di uno studente di sedici anni valgono tanto quanto le mie; anzi, le sue valgono forse anche di più perché la dinamica del presente in cui è immerso risulta con ogni evidenza più “viva” della mia (i suoi neuroni vanno più velocemente dei miei, si confronta con argomenti e problematiche distanti almeno trent’anni dalle mie…). Il futuro sta chiaramente dalla sua parte, in lui il testo è più “vivo”, ovvero ha più possibilità di vivere, letteralmente, perché l’aspettativa di vita di uno studente di sedici anni è circa di sessant’anni, mentre la mia di trenta. Detto questo, perché allora sento il dovere di tenere dei corsi? Perché insegno in università? Perché io posso aiutare questo studente a raffinare, a esprimere, ad approfondire le sue intuizioni (forse più ricche delle mie), mostrandogli come funziona la mia personale cassetta per gli attrezzi. Ed è qui allora che sta la diseguaglianza tra noi, nel disavanzo di abilità tecnica che intercorre tra me e un qualsiasi studente di sedici anni. Esattamente come un artigiano che ha passato quarant’anni anni della sua vita a fare cappelli, io nel tempo ho sviluppato delle competenze che mi permettono di fare del mio cappello, del mio testo, una cosa interessante. Il “sapere artigiano”, la gestualità che io ho imparato tanti anni fa, per imitazione, da Michel Butor e da Michel Jeanneret a Ginevra, è la stessa gestualità che io adesso metto in atto di fronte ai miei studenti, affinché loro domani siano in grado realizzare da soli i propri cappelli.
L’interpretazione, però, da quanto tu scrivi, non è affatto una pratica da chiudere all’interno di un’aula o di una biblioteca, ma è una pratica sociale e civile, in una parola “politica”.
Certamente, la cultura dell’interpretazione di fatto porta con sé un modello alternativo di organizzazione economica. Prendiamo ad esempio il concetto di “sfruttamento”. Per il marxismo classico il termine “sfruttamento” è sempre rivolto al lavoro produttivo. Oggi come oggi lo sfruttamento invece sembra vivere sulla circolazione degli “affetti sociali” almeno quanto sull’estorsione del plusvalore imposta ai produttori: i commercianti di macchine, di film, di cioccolato, di viaggi organizzati, sfruttano la mia capacità di desiderare per ricavare profitto dai miei comportamenti di consumatore, almeno tanto quanto ricavano profitto dal mio lavoro di produttore.
Questa nuova forma di sfruttamento non poggia direttamente sul lavoro produttivo, ma in senso più largo sulla nostra capacità di attenzione. L’esempio emblematico della nostra società non è più l’operaio, ma il telespettatore; la cosa che viene sfruttata oggi non è la mia forza lavoro, ma la mia attenzione, che a sua volta va a orientare la mia capacità di desiderare.
Nei casi più frequenti, il nostro sfruttamento in quanto telespettatori avviene sempre con il nostro consenso; io sono quasi sempre complice del mio sfruttamento culturale. Ed è proprio su questo punto, allora, che la riflessione sulle culture dell’interpretazione può rivelarsi preziosa. Ciò che sperimentiamo e affiniamo quando interpretiamo un testo o un film, è l’“autonomia” della nostra capacità di attenzione (ognuno di noi è sensibile a elementi differenti di un testo) e nello stesso tempo la necessità di un’appropriazione di questa stessa capacità da parte dei diversi dispositivi di captazione che ci circondano (la forza di un testo si definisce dall’ascendente che questo esercita su chi lo legge).
Il principale merito delle culture dell’interpretazione è allora quello di “rendere autonoma” l’attenzione di coloro che vi prendono parte, e questa credo sia una delle risorse più importanti, forse l’unica veramente valida, che abbiamo oggi per lottare contro qualsiasi forma di sfruttamento.
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“Nella mia Università ideale tutti gli allievi dovrebbero stare a stretto contatto con chi fa ricerca e discutere con i ricercatori dei problemi molto specifici, molto concreti della loro attività” : sulla triste china intrapresa dall’università italiana negli ultimi anni sta anche lo scioglimento dei legami, dei contatti, dei dialoghi tra chi ricerca (e altri che ricercano) e chi apprende, in nome della trasmissione ‘scientifica’ (ahah), della trasformazione degli studi umanistici in ‘scienze umanistiche’, per strizzare l’occhio agli imprenditori governativi e assicurarli che anche qui si ‘produce’. Ma cancellato l’aspetto dialogico-partecipativo dell’insegnamento e trasformate le facoltà in esamifici, si è scoperto – ops, guarda un po’ – che proprio lì si creava, si costruiva, si faceva…
immagino che sia un altro dei tanti effetti dello smantellamento generalizzato della politica, la cosa, però, non smette di rendermi triste
Davvero illuminante!