Ricordare la Nakba palestinese con uno Yizkor alternativo
Lunedì 14 maggio 2012, sul piazzale d’entrata dell’Università di Tel-Aviv si è svolta una cerimonia congiunta arabo-ebraica in commemorazione della Nakba palestinese.
di Davide Mano
“Ecco, l’hanno fatta davvero grossa”. Quando ho letto che, nell’università in cui mi sono iscritto per il mio dottorato e nella città più israeliana e più smemorata di Israele, Tel-Aviv, si stava per tenere uno Yizkor alternativo arabo-ebraico in memoria della Nakba palestinese, la prima reazione è stata di sorpresa. Raccolte le prime informazioni, un senso di ammirata curiosità ha avuto presto il sopravvento. Si stava per creare uno spazio comune, angusto ma concreto, in cui promuovere una memoria del ’48 più trasversale, vicina a tutti gli abitanti della regione, ebrei ed arabi. Uno spazio in cui poter vedere rappresentato quello spaccato della società araba ed ebraica favorevole alla convivenza e pronto per questo anche a ridiscutere le rispettive costruzioni nazionali ed identitarie. Si trattava certamente di un piccolo evento, ma che per una volta non aveva a che fare semplicemente con il senso di colpa della società israeliana: era al contrario voluto da arabi ed ebrei in parti uguali e sentito come un vero momento di costruzione e condivisione democratica. L’Università di Tel-Aviv era l’unica università israeliana ad aver concesso uno spazio agli studenti, seppur prendendo le dovute precauzioni di fronte alle minacce di sanzioni previste dalla cosiddetta “Legge sulla Nakba” introdotta nel 2011 dal governo Netanyahu.
Gli organizzatori dell’evento, quattro studenti, un ragazzo e una ragazza arabi insieme ad un ragazzo e una ragazza ebrei, avevano scritto per l’occasione un memoriale alternativo ed invitato gli studenti dell’università a partecipare al lutto palestinese. Il tentativo di includere la narrativa palestinese nella coscienza collettiva israeliana non trovava però espressione soltanto nelle testimonianze personali dei palestinesi previste nel corso della cerimonia, ma si serviva anche di uno strumento della cultura alternativa israeliana. Gli organizzatori si richiamavano infatti a una pratica culturale affermatasi di recente in Israele e che propone formule pubbliche alternative alle cerimonie ufficiali nazionali, spazi e modi diversi per vivere e confrontarsi con le ricorrenze del passato e con le solennità ebraiche.
Il luogo della memoria dal quale questi studenti avevano deciso di elevare il loro Yizkor, la loro preghiera memoriale in chiave civile, non era un luogo facile né per gli israeliani né per i palestinesi. Ma aveva pur sempre dalla sua il fatto di essere un evento documentato: la Nakba è riconosciuta storicamente, non è semplicemente una serie di racconti tramandati di famiglia in famiglia. Proprio di questa storia, ricostruita in archivio dagli storici palestinesi e dai nuovi storici israeliani, si volevano fare carico questi studenti, per tentare di confrontarla e integrarla nei ricordi personali, farla agire a contatto con la memoria di ciascuno, pubblicamente. Nella consapevolezza che la memoria è in fondo un fatto in perenne costruzione.
Gli organizzatori dell’evento. Da destra: Kadaan Saafi, Noa Levi, Rula Khalila e Dan Walfish (foto: Alon Ron).
“Oggi siamo qui riuniti, ebrei ed arabi, per ricordare la tragedia palestinese, la Nakba. I morti, gli sfollati dei villaggi, quelli che sono dovuti fuggire dalle loro abitazioni per salvarsi e a cui non è stato permesso di tornare, quelli che sono divenuti profughi nella loro terra e quelli che lo sono divenuti in altri paesi… Questa è la tragedia all’origine della situazione di guerra nella quale viviamo. Questa è la tragedia che ci è stato proibito di riconoscere, con le cui conseguenze non ci siamo mai misurati… In quanto uomini abbiamo l’obbligo di ricordare e non dimenticare. Perché i nostri racconti sono molto diversi l’uno dall’altro, ma la vita e la libertà di noi tutti vengono prima, sono sacre. Ricordi il popolo di Israele. Ricordi il popolo di Palestina. Ricordiamo noi tutti, figli dell’uomo”.
Sul piazzale d’entrata dell’università ci sono centinaia di persone, studenti, professori, cittadini, attivisti arabi ed ebrei, ma anche molti oppositori della destra israeliana venuti a disturbare la cerimonia. Il personale di sicurezza e di polizia è dispiegato per evitare ogni possibile contatto tra le due fazioni, nonostante lo spazio che divide le due manifestazioni sia alquanto esiguo. Alle parole recitate in ebraico da Saar Skalli, masterando di teatro, segue un breve sunto storico su quanto avvenuto tra il ’47 e il ’49, durante il conflitto che gli israeliani chiamano “guerra d’indipendenza” e i palestinesi “la catastrofe”. Come amplificazione c’è un solo megafono, non è stato concesso l’utilizzo di un impianto. Rula Haleila, studentessa di letteratura inglese e genere, recita in arabo i nomi dei villaggi palestinesi distrutti e cancellati dalla mappa. Poi riprende in ebraico per leggere il testo di una memoria famigliare lunga tre generazioni, legata a uno dei villaggi palestinesi distrutti nel ’48. Eitan Bronshtein, presidente dell’associazione Zochrot, legge il messaggio inviato da uno degli ultimi abitanti di Sheikh Munis, villaggio sgomberato nel corso del ’48 dalle milizie ebraiche, sulla cui terra si trova oggi l’Università di Tel-Aviv. Altri racconti si susseguono, gridati al megafono da studenti universitari arabi, figli e nipoti di palestinesi sfollati nel ’48 ma riusciti a tornare o a rimanere nel paese. Chi espone i ricordi di famiglia nella lingua madre, l’arabo, chi preferisce invece rivolgersi al pubblico in ebraico. Prevale la volontà di comunicare con i numerosi studenti e professori israeliani presenti: è la prima volta che in Israele, in occasione di una manifestazione pubblica, si chiede agli ebrei di riconoscere e di immedesimarsi nel dolore degli arabi che vivono sulla stessa terra.
“Questa è la mia storia, non si può liquidare come un non-sense” (foto: Ben Hartman).
Il messaggio lanciato dal gruppo studentesco si concentra sulla necessità di accordare uno spazio di solidarietà e di ascolto a quei cittadini arabo-israeliani che dal 1948 si ritrovano profughi nella loro stessa terra. Waseem Hajo, un venticinquenne palestinese nato a Haifa, spiega così la sua partecipazione alla cerimonia: “Questa è la tragedia personale della mia famiglia. Non siamo qui per negare l’esistenza di Israele, vogliamo solo che la nostra sofferenza sia riconosciuta”. Gli fa eco una delle organizzatrici israeliane, Noa Levi, masteranda di giurisprudenza, che insiste nel presentare l’iniziativa come un semplice atto democratico e una fondamentale manifestazione di solidarietà umana: “Noi israeliani ogni anno chiediamo agli arabi che vivono tra di noi di riconoscere il nostro lutto, anche quando non legato a loro, come nel giorno della Shoah. È tempo che anche noi riconosciamo il lutto palestinese per la Nakba, la tragedia che ha lacerato la società palestinese, causato l’esodo di gran parte della sua popolazione, cancellato circa 500 villaggi e creato il problema dei campi profughi… L’obiettivo è manifestamente quello di permettere una presenza del lutto palestinese nello spazio pubblico israeliano, di permettere alla tragedia umana di trovare un suo spazio, senza doverla arruolare direttamente alla narrativa nazionale e alle esigenze della nazione”.
Cordone arabo-ebraico durante la manifestazione (foto: Ben Hartman).
Molti riterranno banali e semplicistiche queste parole, o magari ne ravviseranno un fondo di ipocrisia. Forse però non vedono quanto un discorso del genere, nella situazione odierna del conflitto israelo-palestinese, vada contro la cultura politica dominante di entrambe le parti, costruita sulla disumanizzazione dell’altro. La determinazione a non voler vedere le proprie parole asservite al discorso ideologico, all’abuso politico e mediatico, è un passaggio fondamentale che fa da base a un altro punto essenziale, per niente scontato nella situazione attuale: quello per cui per ammettere la presenza dell’altro e riconoscerlo come soggetto politico (perché la pace la si fa con il proprio nemico), bisogna prima averne riconosciuta l’umanità, la dignità di uomo, nella maniera più assoluta. Sfuggire al discorso nazionale, superare i negazionismi, lo si fa anche condividendo il dolore, dando valore al vissuto personale, creandogli un suo posto nello spazio pubblico, riconoscendo il lutto altrui come fatto umano incontestabile e rifiutandosi di coinvolgervi argomentazioni o condanne di parte. Promuovendo la consapevolezza tramite l’ascolto delle molteplici storie del dolore altrui. Anche per questo gli organizzatori dell’evento non hanno voluto la presenza di uomini politici né di simboli partitici, proprio per ribadire una posizione di neutralità, oltre che l’impossibilità delle generalizzazioni, il rifiuto delle sentenze e dei giudizi assoluti.
La folla durante la cerimonia (foto: Alon Ron).
Verso la fine della cerimonia viene annunciato in ebraico un momento di raccoglimento: “Nelle cerimonie si sventolano bandiere, si cantano inni. Noi pensiamo che prima di tutto in una cerimonia di commemorazione si debba fare spazio al senso di perdita, all’uomo, all’umano, e abbiamo dunque pensato di esprimere tutto ciò con un minuto di silenzio”. L’iniziativa sembra cogliere impreparati i fortissimi megafoni degli attivisti della destra israeliana venuti a manifestare contro una cerimonia da loro considerata come alto tradimento alla nazione. In uno scenario di scontro aperto come quello visto sul piazzale dell’università, quel minuto di silenzio, che riesce nonostante tutto a trovare un suo spazio di esistenza, è quanto di più straniante e surreale si possa immaginare.
Sugli scontri accaduti prima, durante e dopo questo piccolo evento memoriale, non starò qui a dilungarmi, potete trovare facilmente tutte le informazioni sui giornali: la politica che insorge, il ministro dell’istruzione che interviene per cercare di fermare l’iniziativa, i militanti di destra che attaccano il palchetto della cerimonia, proposte di legge per sanzionare l’Università di Tel-Aviv presentate alla Knesset (il Parlamento israeliano), pagine di Facebook ebraico che invitano al boicottaggio dell’Università di Tel-Aviv, e molto altro ancora.
In un certo qual modo, tutto, proprio tutto sembra confermare il successo di questa piccola ma coraggiosa iniziativa. È riuscita a far stancare il potere. E forse anche ad ammutolirlo un po’, dopo tanto frastuono.
( Hj: Ringrazio Davide anche per il suo essersi preso la briga di aver attinto a tutte le possibilità di approfondimento che la pubblicazione in rete mette a disposizione. E’ per il semplice timore di pubblicare un file troppo pesante che ho rinunciato a inserire il lungo video della manifestazione. L’ho inserito in un link, ma preferisco renderlo più immediatamente visibile. Vale la pena darci un occhio, anche se non si capiscono né l’arabo, né l’ebraico. Eccolo qui: http://youtu.be/Yg9XUX_ZKKE)
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Confesso che vedo di più il lato nascosto negativo di questa celebrazione piuttosto che quello apparente positivo.
Si vuole fare posto alla memoria della Nakba. Ma nello stesso tempo si vuole che tutto resti a livello di compassione, senza una risposta politica. Mi sembra che tutto questo abbia come risultato quello di esorcizzare la Nakba, annullarne il senso.
Se ammettere la Nakba, a livello storico, non causa una riflessione politica sul ritorno dei profughi e quindi sull’ebraicità dello stato di Israele (leggi: sulla possibilità di uno stato binazionale), tutto questo non fa altro che rafforzare Israele così com’è e rendere la Nakba non più una storia negata ma una ingiustizia negata.
Si passa dal memoricidio della Nakba all’anullamento del suo senso.
• Una memoria che non tenga conto delle esigenze di giustizia e di riparazione diventa strumento propagandistico sottomesso al servizio del più forte. Sembrerebbe che la storia ufficiale sia stata scritta per sempre … a seguire questo tipo di eventi in cui prendono parte dei giovani palestinesi. Non resta che la commemorazione del disastro in veste di perdenti della storia, come fanno i discendenti dei popoli indigeni delle Americhe nel giorno del Columbus day.
• E’ davvero triste vederli mendicare un posto nella storia dei vincitori, vederli aggrappati a un minimo segno di compassione compiaciuta da parte di chi li ha offesi, umiliati, cacciati o ridotti alla condizione di esseri umani subalterni.
Non sono d’accordo con le vostre analisi, anche se anch’io in un primo momento avevo dubitato della natura dell’evento. Ma approfondendo mi sono fatto un’idea diversa dalla vostra. Innanzitutto questi studenti non mi pare che escludano a priori il discorso politico sulla Nakba e sul ritorno dei profughi. Hanno cercato come prima cosa di rompere un silenzio su quei fatti che durava da decenni all’interno della società israeliana. Hanno tentato semplicemente, e realisticamente, di riaprire un dibattito pubblico sulla Nakba. Mediante un discorso sicuramente limitato e controllato, ma che poteva dare quantomeno qualche chance di riuscita e di accoglienza generale. L’evento è andato in porto e ha suscitato quel dibattito, che sta continuando sui giornali ancora oggi, non si è smorzato subito dopo gli eventi, ma ha avuto una sua eco.
Suscitare un dibattito del genere e realizzare un evento del genere oggi, con una “legge sulla nakba” in vigore che minaccia di sanzioni ogni istituzione finanziata con soldi pubblici che proponga delle cerimonie di lutto nel giorno dell’indipendenza di Israele, non mi sembra cosa di poco valore.
Meglio quindi contestualizzare la vicenda nel deserto politico attuale. E poi anche immedesimarsi per un attimo nell’azione di questi studenti, nelle loro scelte, altrettanto “contestualizzate”. I loro discorsi citati nell’articolo sono comunque interessanti e consapevoli.
Senza cercare di farla per forza più grande di quello che è stata, si è trattato di un piccolo evento organizzato da un gruppetto di studenti universitari. Poteva benissimo finire annullato. Invece è stato portato a termine nonostante molteplici pressioni. Il valore aggiunto è che la manifestazione non è avvenuta nei luoghi classici della protesta, lungo i muri di separazione o nei territori occupati, ma in un posto finora inaccessibile, in un’università, di Tel Aviv.
Grazie mille Davide per scrivere questo testo e a te Helena per condividerlo. Questi piccoli gesti mi fanno pensare che può esserci ancora la speranza di un futuro insieme…se i giovani cercano di capire il dolore degli altri, magari un giorno si potrà rispondere a quei fatti e riconoscere tutto quello accadutto, ma bisogna fare il primo passo…e quest’evento dimostra che, almeno, c’è gente disposta a farlo.
Il fatto che dei ragazzi – nella mondanissima Tel Aviv – abbiano avuto la voglia di andare contro corrente nelle cerimonie pubbliche, lo trovo un evento notevole. Limitato nel tempo e nello spazio, forse, ma comunque in grado di innervosire i gruppi della destra israeliana, i politici; forse ha incuriosito i passanti, ha lasciato un argomento di cui parlare per qualche giorno.
È una duna che si vede da lontano, in un deserto di idee.
Dove si deve elaborare una nuova identità se non nella testa delle nuove generazioni di arabi ed ebrei? Non c’è commiserazione nella storia, c’è verità, spesso nascosta. Parlarne, è l’unico modo per trovarla.
Non basta, ma è qualcosa su cui lavorare. Materiale da maneggiare con cura.
Mi piacciono le facce di questi quattro ragazzi, hanno la determinazione di chi può cambiare il proprio futuro.
Se penso all’importanza politica che il sionismo attribuisce alla memoria dello sterminio e ai benefici pratici che sei milioni di Israeliani ne traggono ogni giorno in termini di comprensione o addirittura di consenso alla repressione di quattro milioni di arabi (è un rapporto impressionante, analogo a quello tra carcerieri e carcerati)ricordare la Nakba potrebbe avere la stessa efficacia in senso opposto. Per questo la legge israeliana lo vieta. Ma se l’iniziativa muore lì, se la censura mediatica è un automatismo, se la notizia viene al massimo data come prova della democrazia israeliana…