Dal bordo degli Anni Zero
Andrea Cortellessa
È appena uscito presso l’editore Ponte Sisto (http://www.edizionipontesisto.it/) un numero triplo della rivista «L’illuminista» (pp. 704, € 30) contenente un’antologia dei Narratori degli Anni Zero curata da Andrea Cortellessa. Riprendiamo l’inizio e la fine (pp. 17-20 e 51-53) dell’introduzione del curatore, La terra della prosa.
Ci sono infinitamente più cose nella prosa e nella narrazione “reali”, oggi in Italia, di quante ne prescriva l’odierna filosofia del romanzo. Per «filosofia del romanzo» non intendo quella che i teorici della letteratura ci propongono, oggi assai meno d’un tempo, bensì quella che nei fatti – non dichiarata, e dunque non sottoposta a pubblica discussione – viene applicata nella sede che la narrativa, per ovvi motivi con molto maggiore efficacia che la poesia, da tempo s’è arrogata il diritto di regolamentare: l’editoria. Si parla di quella di scala maggiore, ovviamente, che – in virtù del controllo che pochi gruppi riescono oggi a esercitare su tutta la filiera del libro compresa la promozione: che a tutti gli effetti ha ormai inglobato, esautorandola, la pubblica discussione – ha non solo il potere di condizionare i consumi del pubblico, il che è desolante ma ovvio, ma anche, e questo dovrebbe essere meno ovvio, quanto la teoria di un tempo definiva l’«orizzonte d’attesa» degli autori. I poteri che condizionavano chi scriveva nelle società d’ancien régime erano almeno istituzioni di diritto (ancorché un diritto autopromulgato): a differenza di quelli della mercatocrazia odierna, che nessuno è chiamato a riconoscere in sede formale ma non per questo (anzi!) sono meno rigidamente vigenti. In ogni caso la libertà espressiva di cui hanno goduto gli artisti in quella che a conti fatti è stata una “finestra” storicamente assai breve – coincidente in sostanza col secolo scarso fuori d’Italia definito “modernismo” – rappresenta, oggi, un ricordo sempre più lontano.
Nel breve Prologo premesso alla più ricca analisi linguistica che sia stata dedicata alla nostra narrativa recente, Lingua ipermedia di Giuseppe Antonelli (Piero Manni 2006), si ha la misura della velocità con cui la musica è cambiata – nell’ultimo decennio o giù di lì. Approntato tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del decennio seguente, quel panorama – di grande varietà e ricchezza di soluzioni, tutte comunque accomunate da un incoraggiante prefisso iper- – appariva allo stesso autore, passati pochi anni, irrimediabilmente postumo:
Oggi, probabilmente, la stagione della lingua ipermedia è già finita: casi editoriali – prima che critici – come Non ti muovere di Margaret Mazzantini, Vita di Melania Mazzucco e, da ultimo, Con le peggiori intenzioni di Alessandro Piperno sembrano destinati a cambiare sensibilmente il mainstream della narrativa italiana, rafforzando la tendenza al romanzo benfatto e a una lingua sobriamente tradizionale o – al più – moderatamente letterata. Un ritorno all’ordine ormai inevitabile, che ancora una volta modificherà in tempi brevi il paesaggio della lingua narrativa italiana.
Era il 2006. Tanto precipitoso, quel ritorno all’ordine, che già l’anno seguente il mainstream poteva apparire una cappa soffocante a noi redattori del «verri», nel momento in cui pensammo di dedicare un fascicolo “d’allarme” alla Bibliodiversità messa a rischio. Le specie multicolori della narrativa, che appena un decennio prima parevano aver trovato ricetto e terreno fertile nei cataloghi più paludati, all’improvviso venivano sottoposte a una risoluta uniformazione: sotto il segno di una produzione standard orientata al consumo più rapido possibile. Da allora la polemica è proseguita: su diversi fronti e attraverso diversi media. Non la ricapitolerò – per brevità e anche, per quanto riguarda certi temi, per un certo grado di saturazione. Mi pare difficile da discutere, comunque, che la diversità letteraria sia oggi ridotta in spazi editorialmente sempre più marginali. Il che al di là della mia faziosità, anche su un più posato piano storico-fenomenologico, francamente stupisce: in una fase di ridefinizione mediale profonda che ovviamente coinvolgerà – sta coinvolgendo – il mercato e i suoi dogmi. E che in analoghi tempi di trasformazione, in passato, ha al contrario incoraggiato una mobilità, un dinamismo di temi e forme che oggi la “grande” editoria, e in generale il sistema dei media, appaiono lontani dal voler incoraggiare. Un critico sempre attento all’interazione della letteratura col sistema mediale, Paolo Giovannetti, si è chiesto il motivo di questo «bisogno di disciplinare la scrittura attraverso il confronto con le cose» e, insieme, della «paura che siano le cose a mettere la letteratura in crisi» (nel volume a sua cura Raccontare dopo Gomorra. La recente narrativa italiana in undici opere (2007-2010), Unicopli 2011). È proprio questo il doppio legame che pare saldi fra loro gli insistiti (e, a ben vedere, appunto contraddittori) appelli al realismo, da un lato, e alla narrativa di genere dall’altro. Come assai condivisibilmente ha scritto Federico Francucci, «è questo modello separativo/oppositivo, intatto sotto cento maschere, che si tratta di smarginare, di abbandonare» (La carne degli spettri. Tredici interventi sulla letteratura contemporanea, O.M.P. 2009). Perché anche per la diversità letteraria vale il precetto, mutuato da William Carlos Williams, del grande antropologo James Clifford: I frutti puri impazziscono.
La realtà della letteratura insomma, come pure quella fuori dalla letteratura del resto, è molto distante da quella ipostatizzata dal «ron ron del ritorno alla realtà» – come da ultimo lo ha definito un per parte sua non del tutto incolpevole Angelo Guglielmi. Il quale giusto dieci anni fa, introducendo a un altro numero del «verri» dedicato al Libro di narrativa, riprendeva parole sferzanti di Claudio Magris:
Il romanzo di oggi sembra che rilutti a prendere atto dei capovolgimenti in atto e anzi indietreggi rispetto alle grandi sperimentazioni del passato prossimo. La media produzione romanzesca sembra fiorire rigogliosa, almeno sul piano quantitativo, nell’assoluta ignoranza del mondo e della sua trasformazione, nell’assoluta non presa d’atto della realtà. In questo senso il romanzo medio assomiglia sempre di più – anche nella patina nobile di sentimenti perennemente umani ostentati e garantiti come se niente fosse – a quei generi letterari invecchiati e stantii che il grande romanzo moderno, erompendo violentemente sulla scena, aveva spazzato via. […] Forse il romanzo moderno finisce in un’involontaria parodia.
Un sintomo piuttosto eloquente di questo stato di cose è costituito proprio dalle antologie di narrativa. Che sono per motivi strutturali (la difficoltà di enucleare da opere di ampia portata dei frammenti rappresentativi; quella di procurarsi i diritti su testi che hanno un valore commerciale) oggetti molto più difficili da realizzare di quelle di poesia: le quali di contro nella formazione del canone hanno sempre avuto, e tutto sommato continuano a detenere, un ruolo-guida di raccolta di dati e sintesi critica. Per questi motivi coloro che vi si sono industriati hanno dovuto in genere appoggiarsi alla forza organizzativa di quelle stesse case editrici le cui scelte si trovavano, di fatto, a discutere. (Non è stato questo il caso, evidentemente: e proprio perciò è valsa la pena, credo, affrontare un lavoro così ingente.)
Fatto sta che l’ultimo libro con caratteristiche simili al presente, Italiana. Antologia dei nuovi narratori, curato da Antonio Franchini e Ferruccio Parazzoli negli Oscar Mondadori, risale a vent’anni fa: 1991. Quello ancora precedente, Il piacere della letteratura. Prosa italiana dagli anni ’70 a oggi, curato da Angelo Guglelmi, era uscito da Feltrinelli esattamente dieci anni prima: 1981. Sono due libri di livello notevole: un livello che in casi come questi andrebbe sempre valutato, per così dire, biunivocamente. Da un lato, cioè, per come un’antologia ha saputo interpretare a caldo quanto avvenuto in un tempo per definizione non storicizzato, fluido, ancora vincolato ai tempi della cronaca. Dall’altro, inevitabilmente a posteriori, per come i valori selezionati da un’antologia si confermano attivi, o meno, nel periodo successivo.
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Gli Anni Zero sono stati quelli di una ridefinizione della tradizione. Di una sua dispersione. O meglio: di un suo reset. Emblematico l’episodio (sintomaticamente raccontato da ben due dei nostri autori: Emanuele Trevi ed Eugenio Baroncelli) in cui il capolavoro della narrativa italiana moderna, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana – in occasione di una qualche mass-promozione giornalistica – inopinatamente finisce distribuito in edicola. Come un Ufo, o un monolite lunare, che d’un tratto atterri nello spazio della quotidianità più distratta e casuale. Alla fine degli anni Novanta, in quella che poteva apparire l’alba del postmodernismo italiano più aggressivo e graffiante (ed era il suo tramonto, invece), al lancio cioè dei «Cannibali», il loro frizzantissimo inventore Severino Cesari poteva citare appunto Gadda come unico «nonno o bisnonno» possibile, entro il Novecento italiano: ma, beninteso, «accanto a Totò e Jacovitti». Una mésalliance che mi colpì, allora, con un sentimento indefinibile. Passato da allora un decennio, il fatto che Gadda accanto a Jacovitti ci sia finito davvero – alla lettera – è segno che un ciclo, definitivamente, s’è chiuso. Ma il momento in cui qualcosa finisce è anche quello in cui comincia qualcos’altro.
È vero, quelli che sono appena finiti – a differenza del decennio precedente – sono stati anni privi di tendenza. Ma non credo che questo debba abbatterci. I tempi troppo tendenziosi, come senza dubbio sono stati gli anni Novanta – onnifagocitanti, bulimici, davvero Cannibali –, sono quelli che, avrebbe detto proprio Gadda, tendono al loro fine. Quelli troppo facili da definire sono quelli che stanno appunto finendo. Tempi tardi, centripeti, che vanno a chiudere. I tempi iniziali, quelli che aprono, sono al contrario centrifughi: tempi in cui i percorsi si devono ancora precisare, le urgenze circolano allo stato latente. In ogni ciclo storico c’è un tempo della sistole e uno della diastole. E in questi anni, seguiti alla compressione e all’implosione, davvero abbiamo assistito a una dispersione. Alla fase cioè del primo rilascio: espansione e deriva, senza direzione apparente, dei materiali più vari ed eterocliti.
Leggendo il primo libro di Christian Raimo, dall’attitudine «ipermanieristica» e «(multi)culturale», un protagonista occulto – anima senziente, sentinella segreta – di tutti questi anni, Tommaso Ottonieri, evocava una generazione ulteriore rispetto a quelle impersonate da Vulcano per le prime avanguardie, e da Nettuno per le seconde. La prima cioè dei nati sullo schermo – con la televisione come seconda natura, la Rete come finestra sul mondo. In effetti, di lì a qualche anno, avrebbero cominciato a circolare i primi testi che in Rete materialmente erano nati: da Francesco Pecoraro a Babsi Jones, sino all’imprevedibile exploit di Roberto Saviano. Ecco, quella per lui si poteva definire (giocando sull’Età vaticinata dai fricchettoni New Age) la «Generazione-Acquario»: «che sa di muoversi come in uno schermo, sa che ciò che vede è filtrato da teorie di schermi», ma che tutto ciò nonostante «prova a rappresentare la sfiducia stessa in ciò che è rappresentazione, rappresentandolo (e rappresentandosi) in tutte le sue inesplorate possibilità cognitive» («Carta», 13 dicembre 2001).
In effetti la figura dell’acquario è stata evocata, negli anni immediatamente successivi, sia dagli autori che dai loro lettori. Ma non esattamente, direi, con la plastica euforia dell’Ottonieri di allora (che l’Ottonieri di oggi difficilmente, credo, sarebbe disposto a replicare). Non è un caso che usi proprio i pesci nell’acquario l’allegoria più micidiale di tutto questo libro, quella di Giorgio Falco in Oscar. A me però questa immagine evoca immancabilmente una medesima scena: quella dell’Acquario di San Francisco in The Lady from Shanghai di Orson Welles, 1948. La seduzione assoluta è quella che si consuma all’ombra di questi esseri enigmatici che, lenti e inesorabili, nuotano nello schermo. Qualcosa di alieno, forse mostruoso, certo suggestivo sino all’ipnosi.
Questi esseri ricchi e strani che occhieggiamo, che ci occhieggiano febbrili: mentre con testarda ingenuità – dall’altra parte dello schermo, da questa parte della pagina – vanamente tentiamo, noi, di esistere ancora.
I libri migliori sono sempre quelli a venire.
[In ordine di apparizione nell’antologia, gli autori sono: Tommaso Pincio, Paolo Nori, Ugo Cornia, Antonio Pascale, Francesco Permunian, Nicola Lagioia, Christian Raimo, Leonardo Pica Ciamarra, Laura Pugno, Franco Arminio, Paolo Morelli, Emanuele Trevi, Giorgio Falco, Giuseppe A. Samonà, Eugenio Baroncelli, Ornela Vorpsi, Luca Ricci, Luca Rastello, Roberto Saviano, Babsi Jones, Andrea Bajani, Francesco Pecoraro, Giorgio Vasta, Gabriele Pedullà e Gilda Policastro. ]
I commenti a questo post sono chiusi
peccato che manchi il passo in cui cortellessa spiega il criterio selettivo, che più che l’esordio nel decennio tiene conto di quando quegli autori sono diventati ciò che sono, hanno scoperto la propria voce. quella è la parte che preferisco.
Non ho ben compreso cosa intenda l’autore per “mésalliance” Gadda-Jacovitti.
Potrebbe spiegare Cortellessa il perché di un ritorno all’ ordine ormai inevitabile?Forse perché viviamo in una società palesemente ordinata? E perché abbinate il romanzo benfatto a una lingua sobriamente tradizionale e al più moderatamente letterata? Se no il romanzo è malfatto? E perché i tre libri citati dovrebbero cambiate il mainstream della narrativa italiana? Tutti gli altri non contano? E se uno scrive e quei tre non gli ha letti?E’ tagliato fuori? Da che? E in un momento in cui bisogna ripensare tutto dalle fondamenta in ogni campo e inventare nuove forme in ogni campo la strada sarebbe una lingua sobriamente tradizionale o al più moderatamente letterata?
Potrebbe spiegare Cortellessa il perché di un ritorno all’ ordine ormai inevitabile?Forse perché viviamo in una società palesemente ordinata? E perché abbinare il romanzo benfatto a una lingua sobriamente tradizionale e al più moderatamente letterata? Se no il romanzo è malfatto? E perché i tre libri citati dovrebbero cambiate il mainstream della narrativa italiana? Tutti gli altri non contano? E se uno scrive e quei tre non li ha letti?E’ tagliato fuori? Da che? E in un momento in cui bisogna ripensare tutto dalle fondamenta in ogni campo e inventare nuove forme in ogni campo la strada sarebbe una lingua sobriamente tradizionale o al più moderatamente letterata?
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