Nuovi autismi 22 – La mia eterea editrice (1a parte)
di Giacomo Sartori
Ero molto contento di avere trovato finalmente un editore, davvero raggiante. Intendo una casa editrice ottima e seria, fondata da pochi anni ma già conosciuta e ben presente nelle librerie, con un’immagine nello stesso tempo classica e attuale. Io di editori ne avevo avuti diversi, alcuni dei quali con indubbie qualità, ma ognuno con incolmabili tare. Insomma, tare per quello che scrivo io, per quelle che considero le potenzialità dei miei testi. O erano troppo piccoli, o navigavano in acque ben lontane dalla mia sensibilità, o erano pazzi scatenati, o mitomani, o perfetti incompetenti, o non credevano più di tanto nelle mie capacità, se non addirittura nella narrativa in generale, o riunivano un cocktail di questi elementi, per non dire tutti assieme. La casa editrice che mi aveva convocato sembrava invece conglobare tutti i pregi che avevo trovato sparsi qua e là: non era grande ma nemmeno piccola, aveva un ottimo e vario catalogo, mostrava un suo coraggioso dinamismo, e visibilmente credeva ancora alla qualità. E per di più era diretta da due donne: nell’ambiente dell’edizione le donne, quasi mai presenti ai vertici, mi sono sempre sembrate – lasciando stare le tristi eccezioni – meno stolte, meno arroganti, e meno colonizzate da quei baldanzosi apriorismi che molto spesso trasformano i nostri editori in caricature di se stessi. Ma soprattutto era uno di quegli editori che quando prendono un autore se lo curano e se lo coccolano, con un rapporto personale e attento, come si usava una volta. Insomma, da qualsiasi punto di vista abbordassi la questione cozzavo nella piacevole conclusione che l’occasione che mi si presentava era esattamente la manna che aspettavo da tempo.
Per certi versi stentavo a crederci. Dopo anni di disavventure e tribolazioni editoriali ero diventato sempre più pessimista, e invece a quanto pareva c’era ancora gente in giro che sapeva apprezzare i miei testi così lontani da ogni convenzione implicita o esplicita, così eterocliti, così poco etichettabili, e nello stesso tempo – cosa forse più grave di tutte – così poco appariscenti, così apparentemente dimessi. Se dio vuole c’era ancora qualcuno in giro che capiva che la mia scrittura non era piana e banale come poteva sembrare a una lettura disattenta o poco sensibile, era una raffinata e elaboratissima scrittura, che senza darlo a vedere rifuggiva come la peste ogni pedissequa scorciatoia, ogni minima banalità. C’era gente disposta a investire e a scommettere sopra quelle mie profondità camuffate, soprattutto in quell’ultimo testo, sotto una scorza rozza e violenta. La situazione non era insomma così degradata come avevo finito per pensare: esistevano ancora dei veri editori.
Anche la ragazza che aveva fatto da tramite era molto contenta e ottimista. Lei apprezzava parecchio quello che scrivevo, e mi faceva ogni volta calorosissime lodi. Tra le altre cose sosteneva che nella nostra narrativa nessuno è in grado di descrivere il sesso come lo faccio io. I suoi apprezzamenti mi facevano piacere, perché la stimo molto, e la considero assai intelligente, o per meglio dire mostruosamente intelligente. Di rado mi è capitato di essere a tal punto colpito dall’intelligenza di una persona. Come dire, la sua è un’intelligenza quasi allo stato puro, quasi impudica, quasi minacciosa, come i grovigli di muscoli di un culturista, che per il momento sono impegnati solo a maneggiare un cucchiaino, ma che al bisogno potrebbero dedicarsi a attività infinitamente più pericolose, al limite potrebbero fracassare tutto. Lei lavorava nella casa editrice da qualche anno, e era molto intima di una delle due editrici, la più importante, dalla quale era molto apprezzata. Tutto era andato quindi liscio come l’olio: io le avevo mandato il mio ultimo testo, lei lo aveva subito letto, e avendolo trovato molto forte lo aveva passato all’editrice. In quattro e quattr’otto erano state bruciate le tappe che di solito prendono parecchio tempo, almeno per un autore pochissimo conosciuto quale sono. E adesso ero convocato nella grande città. Anzi, siccome poi dovevo partire per l’estero, avevo ottenuto di anticipare l’appuntamento. Un ottimo segno.
Mi accorgevo che tutto era diverso, adesso. Continuavo le mie attività scientifiche e facevo quello che dovevo fare, le cose di sempre, ma con un’energia diversa, con un ben altro spirito. Per la prima volta dopo tanti anni mi sentivo tranquillo, appagato. Non potevo non vedere che nella mia traiettoria ciò che stava accadendo era un punto di arrivo: avevo trovato un porto in cui attraccare. Ma era soprattutto il futuro che mi si presentava in maniera diversa: tutto mi sembrava facile, fattibile. Potevo quindi prendermela con calma, tirare un po’ il fiato. Ero tanto più sollevato in quanto sapevo bene che quella svolta avveniva al momento giusto, o per meglio dire appena prima che le cose si facessero davvero difficili, per non dire tragiche. Avevo preferito nascondermelo, ma alla lunga le difficoltà avevano finito per usurarmi, per minarmi dall’interno, e sentivo che ero arrivato molto vicino al limite: se fossero continuate mi sarei certo spezzato. Come si sono spezzati scrittori ben più grandi di me.
Guardando con più calma il catalogo dalla casa editrice mi accorgevo che alcune cose cavalcavano in realtà l’onda mediocre dei tempi, e qua e là c’era qualche clamorosa caduta. Ma soprattutto sul sito campeggiava una frase che esaltava i testi brevi. Se c’è una cosa che non sopporto in rapporto alla letteratura sono proprio le idee preconcette e le uscite normative, e quel’apoftegma in particolare mi sembrava indisponente e completamente idiota. Però in qualche modo doveva essere un precetto dell’editore, perché a ben guardare tutti i testi pubblicati erano piuttosto corti. Lo stesso nome della casa editrice alludeva a una fruizione letteraria confinata nel tempo e non prolungata. E a dire il vero anche la grafica a guardarla con attenzione non era propriamente riuscita, sembrava la brutta copia di quella di una storica casa editrice molto prestigiosa. Ma insomma era pur sempre sobria e nitida: non bellissima, ma dignitosa. E anche gli altri piccoli nei mi sembravano scusabilissimi, quasi normali: nel complesso restava una gran bella casa editrice. Non so perché facevo però un po’ fatica a rappresentarmi i miei libri, pur di solito brevi, in quella veste loro grafica al contempo ricercata e un po’ dozzinale. Conoscendomi mi dicevo che era la mia solita propensione per il pessimismo e le prospettive negative. Devo ancora abituarmi all’idea, mi dicevo.
Pensavo spesso alla ragazza che aveva fatto da tramite. In realtà l’avevo incontrata di persona solo una volta, e ci eravamo seduti a chiacchierare sulla terrazza all’aperto di un bar di un quartiere turistico. Era una giornata grigia e fredda, e nel vento madido di umidità marine mi era sembrata fragile, tremante come tremano certi piccoli uccelli. In lei c’era qualcosa di molto struggente, che affiorava nei movimenti rapidissimi degli occhi dietro gli occhiali rettangolari da intellettuale, in certi crolli improvvisi delle palpebre. Ma in realtà quel suo corpo magro era solido, e anzi rigido come un carapace, e chi lo faceva vibrare dall’interno era l’intelligenza mostruosa: a ben vedere non si trattava di palpitazioni di uccello indifeso. Fumava delle sigarette che si arrotolava lei stessa con un’applicazione concentrata di bambina già adulta, con gesti troppo vicini al corpo. Con la sua voce piena da ragazzino preadolescente in quel breve incontro mi aveva raccontato che fin da piccola aveva sempre dormito solo poche ore per notte. All’inizio i suoi genitori erano molto preoccupati, e si erano rivolti a ogni sorta di medici, e invece poi era venuto fuori che era una di quelle persone, tra le quali ci sono non pochi importanti uomini politici e scienziati, che dormono solo quattro o cinque ore. Era così, non c’era niente da fare. Io cercavo di mettermi nei suoi panni, e provavo disagio. Anche occupandosi di un sacco di cose, anche lavorando moltissimo, come faceva, le sue giornate dovevano rimanere pur sempre interminabili, le notti – in preda alla sua micidiale e forse pericolosa intelligenza – non dovevano finire mai. Mi dicevo però che doveva senz’altro essere un’ottima redattrice, e mi allettava la prospettiva di lavorare con lei sul mio testo. Avevo sempre trovato le sue osservazioni pertinenti, anche se qualche volta avvolte da una fumosità tutta cerebrale, come una cortina troppo spessa di idee affastellate.
L’appuntamento era fissato di lunedì: mi sono detto che potevo passare il fine settimana nella grande città. Ho quindi chiamato l’amico che mi ospita sempre quando vado da quelle parti, e col quale ci vediamo sempre molto volentieri: gli ho detto che sarei venuto. Lui come sempre ha organizzato un serrato programma di visite culturali e di appuntamenti culinari esotici, perché a differenza di me è una persona molto attiva, e ha il gusto degli sperimenti: abbiamo passato due giorni pieni e davvero belli. Il rosso esausto della vecchia città si stagliava contro il cielo azzurro scuro, c’erano cascate di glicini e lillà dappertutto, e la temperatura era gradevolissima. Ma soprattutto io ero di buon umore, e qualsiasi cosa vedessi mi sembrava bella, qualsiasi cosa facessimo mi pareva divertente. Mi piaceva parlare quel nostro gergo burlone e irriverente sedimentatosi in moltissimi anni di conoscenza. Mi piaceva che la sua nuova ragazza ci guardasse con sgranamenti interdetti degli occhioni neri e con sussulti involontari delle sopracciglia. Anche il mio amico era contento che stessi per accasarmi – l’espressione l’aveva tirata fuori lui stesso – con una casa editrice di qualità, e che fossi così di buon umore. Lui mi conosceva, sapeva che il vero motivo era quello. Del resto anche lui si era appena messo a convivere con quella ragazza lunga e ieratica, anche lui era contento come lo sono certi uomini che trovano una donna con venti anni di meno.
In un momento di solitudine ho cercato la via, che era trafficata e non accoglientissima, della casa editrice, ci sono passato davanti. Quel piano terra con ampie vetrine di un palazzo signorile sembrava forse più adatto per una boutique di alta moda, o di scarpe di lusso, ma insomma era la sede del mio futuro editore. Quello era il posto dove di tanto in tanto sarei venuto a definire i dettagli delle mie pubblicazioni, dove si sarebbe operato per una loro diffusione più vasta possibile.
Il lunedì mattina mi sono ritrovato con un discreto anticipo, io che non arrivo mai prima dell’ora, nella via non bellissima della sede della casa editrice. La città si era attivata, sciogliendo in una tensione per molti versi pedissequa un po’ della sua magia, ma era pur sempre attraente. Il cielo continuava a essere azzurro scuro, l’aria era ancora tiepida al punto giusto. Per ammazzare il tempo mi sono infilato in una viuzza laterale, dalla quale partivano altri disordinati vicoli: ho cercato un bar per bermi un caffè. Mi faceva piacere conoscere l’editrice, ma non ero impaziente: mi dicevo che l’importante era che la cosa avesse funzionato.
All’ora stabilita mi sono presentato alla sede. Una segretaria che sembrava un po’ imbarazzata mi ha detto che l’editrice si scusava, ma sarebbe arrivata solo due ore dopo, perché aveva scordato l’appuntamento con un medico. A me la cosa non è sembrata tanto grave: ho ribattuto che non c’erano problemi, sarei tornato più tardi. Sono quindi ripartito alla volta degli stessi vicoletti, sono finito in un bar all’aperto non lontano dal primo. Ho bevuto un altro caffè, ho continuato a pensare al romanzo che avevo in sospeso. Mi piaceva constatare che non avevo più l’impazienza e la fretta di prima, che non ero più angosciato. Quello che era successo aveva mutato il mio rapporto con il tempo: adesso potevo permettermi finalmente di prendermela con calma, di tirare il fiato. Mi sono alzato, ho camminato, ho bevuto qualcosa in un altro bar. A differenza dello stradone cupo della casa editrice quel settore della città era molto bello, dava voglia di abitarci. Alzando la testa guardavo le piante delle terrazze degli ultimi piani, mi immaginavo la vista che si doveva avere. Mi faceva piacere l’idea che adesso avrei dovuto venire in quella città più spesso, avrei avuto modo di conoscerla meglio.
Nota: seguirà tra due giorni, se qualcuno avesse la pazienza, la seconda e ultima parte
(l’illustrazione: Michel Nedjar, senza titolo, 1996)
Due giorni? Vorrei leggerlo subito, è troppo avvincente!
idem, come sopra Baldrati.
il problema è che non è ancora finito!
sursum corda!
Ho come l’impressione che stia per succedere qualcosa di terribile.
pur limitandomi personalmente a scrivere poco più che la lista della spesa, ho a che fare con case editrici e condivido empaticamente una particolare “vicenda letteraria/editoriale” -non posso dire di più perché in questi momenti divento molto scaramantica- , perciò ho letto questo nuovo autismo con palpitazioni pericolose.
D’accordo,io aspetto due giorni per il seguito, ma ti prego G.S. fa’ che finisca bene!
farò del mio meglio, ma la vedo male
:))
Molto avvincente.
Sartori bravo bravo bravo come sempre.
Spero che succeda qualcosa di terribile.
I CAN’T WAIT!
Mi sembra di intravedere l’ombra caustica del sempreverde Bianciardi :)
in realtà non sapevo – sono via – che il terremoto di oggi fosse stato così grave: altrimenti avrei rimandato l’uscita del post, che è su un tutt’altro umore
Bel racconto. anch’io dico come gli altri che invoglia a proseguire la lettura. Mi torna alla mente un altro racconto, il tema sempre una vicenda editoriale, apparso un po’ di tempo fa sulla rivista Maltese Narrazioni, di Piersandro Pallavicini, intitolato Siluri, se ricordo bene.