Due modi per occuparsi sbrigativamente di James Joyce
di Giuseppe Zucco
Così Jonathan Franzen:
In uno dei suoi saggi parla con freddezza dell’Ulisse di Joyce.
Ovviamente stiamo parlando di un grande capolavoro per il quale provo un’enorme ammirazione, tuttavia ritengo che sia un progetto letterario freddo, paragonato a esempio a quello che è riuscito a fare Beckett per descrivere l’orrore dell’esistenza e creare un testo sperimentale che corrispondesse a quel sentimento. Non si tratta di una questione di grandezza, ma di vulnerabilità: leggere Joyce mi dà l’impressione di trovarmi di fronte a quelle brillanti menti gesuite che prima pensano e poi provano dei sentimenti.
da un’intervista di Antonio Monda a Jonathan Franzen pubblicata su La Repubblica del 23/5/2012
Così Carmelo Bene:
tratto da “Una sera, un libro” di M. Cascavilla, A. Debenedetti, S. Gusberti, 1988
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Se quello di Franzen mi sembra sì una scempiaggine in piena regola ma di entità minore rispetto al paragone che Zucco vuol fare con la ” memoria” di Bene. Vainifica, nella sua caduta di graffio, tonnellate di inutile saggistica.
e pensare che
mi era parso
ma solo parso
che si contrapponesse al grossier Franzen
l’assoluto ⇨ esprit de finesse di Bene…
a me mi pare che Joyce,e l’Ulisse in particolare,stia agli antipodi del pensiero gesuita in quanto è uno dei pochi autori che prescinde l’esistenza di qualsiasi entità divina che sia esterna all’essere.E penso di avere la stessa autorevolezza di Franzen nello sfornare fesserie(per la cronaca di lui non ho mai letto nulla ma,facendomi scudo con la mia ignoranza un po stronzetta,penso che quello che Buckowski mette in bocca provocatoriamente al suo protagonista in pulp a proposito di Mann gli si possa adattare,almeno per sentito dire:quell’uomo “pensa che la noia sia un’arte”.Mentre la lettura dei 18 capitoli del vecchio James hanno in qualche maniera ricalibrato la mia vita.A prescindere da quanto sia stato bravo a interpretare quanto da altri arditamente tradotto)
sono circa 10 anni che non sento dire da Franzen qualcosa che mi piaccia (il che include peraltro tutto Freedom) o che apra qualche fronte nuovo (il che include peraltro tutto Freedom).
Per coloro che sono abbacinati, coprire la luce è un beneficio; per i prigionieri, il deserto sconfinato è un paradiso.
Il non dover più essere bello e buono e intelligente è addirittura una rdenzione per l’uomo medievale, poiché per l’uomo d’ombra gli ideali non sono atti creatori o fari posti sulle montagne, bensì carcerieri e carceri; sono come una polizia metafisica, inventata originariamente sul Sinai, ad opera di Mosè, conduttore di orde selvagge, e imposta all’umanità con abile inganno.
Considerato da punto di vista causale, Joyce è una vittima dell’autorità cattolica; dal punto di vista teleologico, è un riformatore, a cui per intanto riesce solo la negazione; un protestante che, in attesa del meglio, vive la sua protesta. Caratteristica per l’uomo moderno è però l’atrofia del sentimento, che secondo quanto ci dice una lunga esperienza sorge solitamente come una reazione contro il troppo sentimentto e soprattutto quando si sono avuti troppi sentimenti falsi. L’insensibilità dell’Ulisse ci permette di desumere una disperata sentimentalità. Siamo dunque ancora tanto sentimentali?
Ecco un’altra domanda alla quale soltanto un lontano futuro potrebbe fornire una risposta soddisfacente! Eppure noi possediamo più di un riferimento per affermare che la nostra frode sentimentale ha assunto proporzioni certamente indebide. Si pensi soltanto alla parte addirittura catastrofica dei sentimenti opolari in tempo di guerra! Si pensi alla cosiddetta umanità! Nessuno più di uno psichiatra potrebbe spiegare sino a quale punto tutti gli uomini sono vittime, impotenti ma indegne di compassione, dei propri sentimenti. La sentimentalità è una sovrastruttura della brutalità.
Io sono profondamente convinto che noi siamo prigionieri non solo del Medioevo, bansì anche della sentimentalità; quindi ci riuscirà plausibile che dalla nostra cultura debba sorgere un profeta dell’inmsensibilità compensatoria.
Non vi è molta traccia di sentimento nell’Ulisse, e ogni esteta ne sarà lieto. Ma supponiamo che la coscienza dell’Ulisse non fosse una fredda luna, ma un Io nel possesso di una mente giudicante e di un cuore senziente, allora il cammino attraverso i diciotto capitoli, più che un dispiacere, sarebbe un vero calvario, a al calare della sera ogni viandante, vinto dal dolore e dall’insensatezza di questo mondo, portato alla disperazione, cadrebbe fra le braccia della Grande Madre, che significa il principio e la fine della vita. Sotto il cinismo dell’Ulisse si asconde una grande pietà, si offre il mondo che non è né buono né bello, ma anzi, ciò che è peggio, senza speranza.
L’orrenda noia e la spaventosa monotonia di un linguaggio indicibilmente ricco, dalle mille e mille faccettature, trascinantesi per capitoli simili a una tenia, sono di un’epica grandiosità e formano un vero Mahabharata delle insufficienze di un mondo umano nascosto negli angoli e dei folli e demoniaci substrati di esso: “From drains, clefts, cessppols, middens, arise on all sides stagnant fumes.”
C.G.Jung, Joyce (1932) in “Realtà dell’anima”, Boringhieri 1970.
Ma non è che Jung fosse un po’ l’Alberoni dei suoi tempi? Mi sembra che ci fossero pochi temi che non meritassero un suo commento dalle colonne della Neue Zürcher Zeitung. Cos’è che diceva di Picasso?
[…] Ulysses si presenta […] come l’inquietante crogiolo in cui si sta verificando qualcosa di inedito: la distruzione dei rapporti oggettivi sanciti da una tradizione millenaria. Badiamo: non si tratta più della distruzione dei rapporti che legano un evento singolo al suo contesto originario, per rifonderlo in un nuovo contesto attraverso la visione lirico-oggettiva del giovane artista. Qui l’oggetto della distruzione è più vasto, è l’universo della cultura e – attraverso esso – l’universo tout court. Ma questa operazione non viene attuata sulle cose: si attua nel linguaggio, col linguaggio e sul linguaggio (sulle cose viste attraverso il linguaggio). Di questo si era accorto con molta lucidità Carl Gustav Jung, nell’occuparsi di questo libro al suo apparire; e rilevava come, attraverso un “abbassamento del livello mentale”, all’abolizione della “fonction du réel”, si confondesse qui la dualità di soggettivo e oggettivo portando alla luce “una tenia che non si sa se appartenga all’ordine fisico o a quello trascendentale”. Con una doverosa deformazione professionale Jung notava che a prima vista il discorso di Ulysses appare come il monologo di uno schizofrenico: ma sapendo cogliere l’intenzione che si celava dietro la risoluzione della scrittura, Jung si avvedeva che la schizofrenia assumeva il valore di un riferimento analogico e andava vista come una sorta di operazione “cubista” in cui Joyce, come tutta l’arte moderna, scioglieva l’immgine della realtà in un quadro illimitatamente complesso “il cui tono è dato dalla malinconia dell’obiettività astratta”. Ma in questa operazione, avverte Jung, lo scrittore non distrugge, come fa lo schizofrenico, la propria personalità: ritrova e fonda l’unità della sua personalità nel distruggere qualcos’altro. E questo qualcos’altro è l’immagine classica del mondo.
[…] Jung che assume l’opera di Joyce come materiale clinico da studiare al microscopio non conferisce al suo saggio un aspetto completamente benevolo; e forse per questo Joyce non perdonò mai a Jung questa recensione. Tuttavia gli apprezzamenti junghiani, proprio perché alieni da preoccupazioni di indagine o polemica letteraria, sono forse tra le affermazioni più lucide sulla portata teoretica dello Ulisses. Il tema della rottura e della distruzione di un mondo, così drammaticamente enunciate dallo psicologo svizzero, trova una serie di riconferme nello stesso testo joyciano e si costituisce per via indiretta come uno dei tanti capitoli di una poetica del libro.
UMBERTO ECO, Le poetiche di Joyce, Bompiani 1982, pagg. 61,62.
grazie Giuseppe, bellissima intervista, che mai avevo visto, del resto Bene resta uno dei grandi che abbiamo avuto, come ho già avuto modo di mostrare qui.
il guaio del 2ooo è che ancora non si può fare a meno di Joyce e di tutto quel che sembra miracoloso,contesto in cui è incastonato , solo un parossistico bel riso di adolescenti,né potrebbe parlare in termini di noia che si gratta i brufoli, quello che scrive Jung non scalfisce Joyce è un argomentare carino e per nulla sciocco.
Oh… cosi mi pare ….
jung alberoni dei suoi tempi è favoloso…
@sparz: e però questo intervento mi sembra davvero sbrigativo da parte di bene, forse meno superficiale di quello di franzen eppure insoddisfacente (anzi a tratti mi viene il sospetto che sia volutamente e pesantemente parodico). e poi ridurre un testo come l’ulisse, ma in verità qualunque testo, alle solite categorie del freddo, del significante/significato e la donnetta e quello che non ha fatto il cinema etc. …
il miei due centesimi: consiglio la lettura finissima anche se per nulla benevola che fa nabokov dell’ulisse come romanzo nelle sue lezioni di letteratura. e ovviamente consiglio di rileggere a oltranza l’ulisse.
Joyce, con Proust, sembra essere diventato uno dei ‘cattivi’ da combattere, nella cultura letteraria della Rete. E’ difficile, non è di ‘genere’ e rappresenta tutto quel che c’è di male nella cultura letteraria del Novecento.
Di recente ho letto ‘Re Joyce’, uno studio del 1965 ad opera di un autore purtroppo sulla strada dell’oblio, Anthony Burgess, che oggi sopravvive grazie a un unico libro e soprattutto grazie a un unico film, Arancia Meccanica. Eppure poteva scrivere con favolosa vivacità in una quantità di generi e stili diversi (fra le poche cose sue ancora in commercio c’è il delizioso ‘Abba Abba’, che immagina un incontro romano fra Keats e il Belli). Burgess era un fanatico di Joyce, di cui condivideva l’esuberanza linguistica. ‘Re Joyce’ è una delizia e inoltre offre una dettagliata sinossi di Finnegans Wake (Burgess pubblicò anche una versione ‘abridged’ e annotata dell’impenetrabile romanzo). Per Burgess Joyce è il maestro dell’uomo comune e di tutte le sue incredibili potenzialità – uno dei tanti motivi della sua impopolarità oggi…
E’ difficile rileggere Ulisse e La Recherche, quando non si è più giovani. E come? La sera, prima d’andare a letto? Al mare? Ci vogliono spalle larghe.
La mia personale esperienza di lettura, più di quarant’anni fa, richiese una dedizione quotidiana, impiegatizia: lo sgombro del tavolo da pranzo, la sistemazione del libro a distanza ottimale, l’esordio ad alta voce (una pagina o due), in attesa che la voce si riducesse da sè ad esalazione e infine cedesse al suono solo interiore. Quattro o cinque ore filate, in apnea; ma che pacchia! che spasso!
C’è un altro modo di entrare in quei libri? Ne seguì un’idea di letteratura paralizzante (in questo Bene non aveva torto, e spiega perchè oggi Joyce e Proust siano i cattivi da combattere).
quest’ansia comunicativa, emotiva, porta, non diritta ma inarrestabile, agli allevi
Marquez, nella sua autobiografia, ha scritto qualcosa come: i grandi libri sono quelli che nella vita torniamo a leggere più di una volta. Magari mi sbaglierò, eppure io “Ulisse” l’ho letto tre volte.