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Piazza Macao


di Gianni Biondillo

(ero in Piazza Macao il giorno dello sgombero. Ho scritto una cosa, “all’impronta”, che solo ora riesco a pubblicare)

“Sei stato a Macao?” mi chiede via skype Marco Rovelli e io non capisco la domanda. Vengo a conoscenza così dell’occupazione della torre Galfa, gioiello dell’International Style meneghino tanto amato da Gio Ponti. Ma quelli erano gli anni Cinquanta e bastava Melochiorre Bega per farsi ammirare dal mondo, senza bisogno di chiamare archistar irachene o giapponesi per rifare il trucco alla città. Ho passato, per lavoro, buona parte della scorsa settimana fuori Milano. “Ci vado appena posso”, ho risposto, convinto che l’occupazione sarebbe durata più a lungo. Non per romantico spirito ribellista, ma per ingenua convinzione che l’inerzia avrebbe sopraffatto tutto, come al solito. In fondo il grattacielo è rimasto vuoto per quindici anni, a pochi passi da un ganglio urbano in piena trasformazione. Un vuoto sordo, incomprensibile. Che artisti, musicisti, designer, scrittori, avessero deciso di trasformarlo in un luogo vero, pieno di contenuti condivisi con la cittadinanza mi sembrava una cosa importante, oggi, in un tempo del quale persino il Ministro della Cultura sembra un desaparecido (qualcuno di voi sa cosa sta facendo? Ha notizie dal Ministero? Com’è che inizio a provare una nostalgia indicibile per Bondi?).

Come al solito la sinistra meneghina non ha capito niente. Il capogruppo PD al Comune, Carmela Rozza, innervosita, ha trattato gli occupanti come dei perdigiorno radical chic. I “cosiddetti creativi”, così li ha apostrofati, vadano a Quarto Oggiaro, ché lì c’è bisogno di cultura. Eppure Rozza, per la sua storia personale, dovrebbe sapere che in quel quartiere già molta gente lavora sul territorio, organizza eventi, invita scrittori. C’è Vill@perta, Quarto Posto, Il Baluardo… Associazioni che fanno tutto – e tanto – nell’indifferenza dei media e, sospetto, della politica. Occupare la Torre Galfa – il “torracchione” che, nella Vita Agra di Lizzani, Ugo Tognazzi vuol far saltare in aria -, trasformarla in un “Temporary Cultural Center”, dopo tanti inutili “Temporary Shop”, è un gesto oculato, intelligente, fortemente mediatico. Significa, in breve, che la democrazia partecipata, quella che ha portato a Palazzo Marino questa giunta, vuole fare di un simbolo del capitale finanziario un luogo di cultura popolare.

Perché questi che sono stati sgomberati stamattina non sono ragazzi capricciosi, finiamola con la retorica paternalistica dello Stato forte ma giusto. Li vedo, ora che li ho raggiunti in bicicletta, mentre occupano la strada, trasformata in una forzosa piazza pedonale. Ci sono studenti universitari, designer, artisti, musicisti, scrittori. Non c’è la cupa e passatista atmosfera da centro sociale – “poche birre, niente cani”, m’è stato detto, per gioco -, sembra più un vernissage, un Fuori Salone. Questi con cui parlo sono persone che vorrebbero e dovrebbero vivere di cultura ma non ce la fanno, perché mai come in questi anni l’unico talento che potrebbe farci uscire dalla crisi, il loro, viene continuamente represso. Sono la classe creativa, gli intellettuali, gli artisti, che nel resto d’Europa avrebbero già spazi dove esprimere le loro idee innovative, senza doverli rubare ad un capitalismo indifferente alle novità. Sapevano benissimo di aver forzato la mano, sapevano benissimo che li avrebbero sgomberati. Sono usciti senza opporre resistenza.

Guardo i pochi poliziotti e finanzieri in assetto da battaglia, che presidiano l’ingresso, sbadigliando sotto il sole. Nessuno li considera, tutti presi come sono a inventarsi altre forme di lotta creativa. Mi dispiace davvero di non aver visto i concerti gratuiti, le letture, i dibattiti dentro la torre, assieme a loro. Di non aver goduto del panorama agli ultimi piani. Ho perso un’occasione, penso. Ma, quel che è peggio, è che forse anche la politica ha perso la sua, di occasione. Speriamo sappia recuperare al più presto questo inespresso desiderio di dignità e di gioia collettiva. Conviene.

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14 Commenti

  1. Gianni, l’anomalia sei tu, che prima di aprire bocca vai a vedere, constati, ti chiedi quali potenzialità abbia questa o quella realtà.
    Proprio mentre sgomberavano Macao e giornalisti e politici locali scrivevano articoli o leggevano interventi scritti “a prescindere”, senza aver mosos il culo per andare a vedere cos’era davvero questa occupazione, Maria Pia Garavaglia (PD) solidarizzava con la marcia pro-life organizzata dal Movimento per la vita cui aderivano Milizia Christi e Forza Nuova, noi insegnanti ci ritrovavamo soli senza uno straccio di partito (di quelli “grossi”, “importanti”, di quelli che vanno in TV) accanto a farci sentire meno soli, tanto per citare i primi due soggetti sociali che mi vengono in mente. Non è che la politica ha perso un’occasione: la politica è questa. Facciamocene una ragione.

  2. Che serate magnifiche che ti sei perso.

    Bastava andare al primo piano e avreti trovato un praticello di fragole selvatiche.

    Era questione di ore, lo sapevamo tutti.

  3. la forza dell’arte è che,come l’acqua,un modo per esondare lo trova sempre.Nel mentre che ciò accade direi che come suggerito da queste parti tempo fa si sopperisca con l’inventiva,il ritmo e l’azione.E per fare un esempio concreto non sarebbe male un sit-in pervaso dalla gioia che in modalità carnascialesca fuori stagione si traveste da kurtz e si immerge in un silenzio zen per emergere con una citazione significativa(“l’orrore.L’orrore”)

    http://www.densdiner.com/Music_A_L/El%20Condor%20Pasa%20(If%20I%20Could)%20-%20Simon%20&%20Garfunkel%20'70.mp3

  4. I personaggi che occupano Macao sono riusciti a non sentire e a non vedere le notizie che arrivavano da Brindisi e hanno completato l’impresa non considerando la manifestazione spontanea che si è conclusa a Piazza Scala.
    Inoltre, nonostante i tentativi e le offerte di nuovi spazi (bellissimo quello dell’ex Ansaldo), hanno rifiutato per una ragione molto semplice: vogliono spazi mediadicamente “appealing”, e dunque sempre in centro città.
    Ma noi abbiamo bisogno di questa gente qua? la cultura italiana ha bisogno di radical chic di questa risma?
    All’inizio pensavo che Carmela Rozza avesse reagito troppo duramente, ora penso che abbiano fatto bene a sgombrare dei perdigiorno simili, tutti impegnati nella costruzione di una loro visibilità…

    • Gli artisti milanesi merita il centro, dopo anni di sottoscala e periferie degradate; Lì già ci siamo, ora si vuole il centro città.
      L’ex Ansaldo è un luogo che è ancora tutto da costruire, ora più che mai la cultura deve essere accessibile, facilmente raggiungibile e riconosciuta al pari di un istituto finaziario collocato in centro.

  5. Lo leggo con interesse, io che sono un po’ prevenuto verso l’esperienza di Macao. Tra i motivi di dubbio, ne cito uno: possibile che in un grattacielo i nostri artisti non vedano un’opera dell’architettura ma solo (come scrivono assai spesso) “un mostro di cemento”? È una considerazione ben misera della città, mi sembra

    • Un opera architettonica, svuotata di ogni senso d’esistenza “è” un mostro di cemento …in questo caso di cemento armatro, vetro e alluminio.

  6. Se siamo prevenuti con i ragazzi di macao che non capiscono l’architettura, dobbiamo allo stesso modo essere prevenuti con i borghesotti che non capiscono la street-art (che ha significato, tanto per fare un esempio, perdere opere di Banksy).

  7. l’affermazione “l’unico talento che potrebbe farci uscire dalla crisi” mi sembra davvero poco plausibile. Lo spreco di intelligenze e di capacità è innegabile, drammatico e solo un fanatico liberista può descriverlo come un fenomeno transitorio, destinato ad essere riassorbito grazie ad un’ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro e/o a una riduzione del suo costo. L’idea che questo “talento” possa in qualche modo configurarsi come una variabile di per sé “propulsiva” mi sembra però (sfortunatamente) priva di sostanza.
    La spesa pubblica centrale e locale è sotto pressione e in questi casi, come noto, è la “cultura” la prima a risentirne. Non ho statistiche recenti sull’andamento del settore “culturale” e dell’editoria, ma non credo siano rose e fiori, anche perché mi pare che siano in corso sconvolgimenti profondi dei modelli di business tradizionali.
    Le famose startup innovative? Qualcosa si muove su questo versante, ad esempio sul fronte delle semplificazioni burocratiche e del credito fiscale, ma il vincolo principale rimane l’accesso al credito (sono attività ad alto rischio), in un paese, poi, in cui la presenza di venture capital è ridicola. Anche l’arretratezza per quanto riguarda l’ICT gioca un ruolo negativo e non può essere recuperata nel brevissimo periodo. Dubito comunque che le startup, che possono effettivamente creare nuova occupazione, saranno in grado di dare nel breve un contributo significativo alla crescita (sempre che arrivino al break-even).
    L’idea che “ci salverà l’innovazione” è tutta da vedere: non è affatto detto che a fronte di un eccesso di capacità produttiva, con domanda debole e ampia disponibilità di un “esercito industriale di riserva” flessibile le imprese siano tanto propense a investire e soprattutto a rischiare in attività innovative (e chi glieli dà i soldi?), specie in settori tradizionali in cui la competizione sul prezzo ha importanza. Volendo, ci sarebbe anche da valutare la potenziale concorrenza di lavoratori stranieri qualificati ma meno costosi, magari veicolata da marketplace globali, come già accade nel caso del software.

  8. Non mi pare di aver terminato dicendo “e quindi tornatevene a casa a pensarci su”. Ragionare sul tipo di dinamiche che (molto sommariamente) ho elencato non significa però “lasciarsi soffocare dalle perplessità”, ma, credo, assumere un punto di vista corretto sulla propria condizione materiale e sulle concrete possibilità di modificarla, quindi sulle strategie più adeguate da assumere (alleanze incluse). Il resto è falsa coscienza, favola bella, wishful thinking.
    Il punto è molto semplice: la crisi ha solo aggravato quelle caratteristiche strutturali dell’economia e della società italiana che impediscono la valorizzazione e lo sviluppo del “talento”. Queste stesse caratteristiche contribuiscono ad ostacolare il processo di uscita dalla crisi. Stiamo parlando di fenomeni ormai consolidati, di avvitamenti verso il basso che percorrono gli ultimi decenni e che quindi non possono (potrebbero) essere corretti se non nel lungo periodo.
    Ci sarebbe poi da valutare la qualità media di questo “talento”, cresciuto nel sistema scolastico e nel clima culturale che sappiamo e destinato a impoverirsi in assenza di applicazioni “coerenti” (non il call center, per intenderci) e di aggiornamento continuo, in cui le imprese non hanno interesse a investire e il cui onere ricade sulle spalle dei singoli e delle loro famiglie.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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