L’aspra stagione

di Gianluca Veltri

La «storia di un uomo che ha sognato e poi s’è svegliato» è pure la storia dell’Italia degli anni ’70, perché la vicenda di Carlo Rivolta, raccontata da Tommaso De Lorenzis e Mauro Favale nel libro L’aspra stagione, è intrisa delle sorti di quel decennio.
Romano di madre calabrese, Rivolta è un cronista di talento. Giovane professionista già a «Paese Sera», passa alla neonata «Repubblica»: la sua firma campeggia sul primo numero del giornale di Scalfari. «Ha ventisei anni. Magro, poco più di uno e settanta, un fascio di nervi. I capelli neri, portati fin sulle spalle, incorniciano un viso lungo, dal profilo affilato».
Rivolta è stato vicino al PDUP, simpatizza per le frange meno ortodosse della sinistra. Scrive quel che vede, è indipendente ma non neutrale, la giusta distanza è un mito che non gli appartiene. Epoca di sbornie collettive, delusioni elettorali, radio libere, morti ammazzati; intanto è già il ’77, anno grifagno. Carlo del movimento apprezza il lato libertario, ludico, comunitario. Cruciale il suo ruolo a «Repubblica»: cronista del movimento, incide sul Dna del giornale, aumentandone il prestigio nei lettori giovani. Sa ascoltare di Roma rumori e scricchiolii come un sismografo in anticipo sui tempi. Le cronache dalla strada e i resoconti degli scontri di piazza non sono graditi né alle frange più ottuse e meno dialoganti dell’Autonomia, né a un PCI in sindrome d’assedio. In quell’anno decisivo si passa dalla creatività alla violenza, dall’aggregazione alla paura, come si chiudesse un gigantesco portone. «Hippie travestiti da leninisti, maodadaisti, punk sovietizzanti, terzomondisti. Poeti, filosofi, artisti. Indiani metropolitani, autonomi, esagitati, gruppettari». Un pianeta pronto a esplodere, che deflagra nei primi mesi dell’anno seguente, con il sequestro e l’uccisione di Moro, pietra tombale dei movimenti. Confesserà Rivolta: «Per mesi mi sono sentito in colpa. Ero allo stesso tempo partecipe della vicenda umana di Aldo Moro e della sua famiglia, in guerra con gli autonomi, in guerra col Pci, non più in sintonia con il mio giornale che aveva scelto la linea della fermezza. Ero solo con me stesso, per la prima volta senza riferimento politico». «Repubblica» sposa una linea costituzionale. Lui è per il dialogo e la trattativa, il vuoto e il gelo si fanno strada per chi aveva vissuto vita personale e politica in irrimediabile condizionamento reciproco. Si incrina la relazione con la compagna Emanuela; esposto all’incrocio dei venti, Carlo — «né con lo Stato, né con le Br» — prende bastonate da entrambe le parti: «Quest’aspra stagione ha influito anche sulla mia vita privata, sui miei rapporti con il lavoro, con gli amici». Si è rotto qualcosa e non si ricompone più. In redazione è diventato sospetto per una collaborazione, prestata per una testarda idea di tolleranza e garantismo, con l’ambiguo periodico «Metropoli». La galassia in ebollizione, nel dopo-Moro, ha davanti a sé un trivio vorace: riflusso, siringhe, armi. Il movimento si è suicidato e il cronista di questa notte è Carlo Rivolta, che s’interroga su quale fine abbiano fatto le decine di migliaia che manifestavano fino a poco prima. «Ora gli spinelli sono stati soppiantati dal tiro di eroina o di cocaina. Non c’è gioia, ma noia e tristezza». Testimone del riflusso, Rivolta scrive un pezzo d’autobiografia in ogni articolo. Non mette filtro, professionista dell’empatia, si lascia divorare dalle cose di cui si occupa. Lo spingono alla deriva le piazze vuote e mute, la normalizzazione militare, la disgregazione. Passa a «Lotta continua» (direttore Enrico Deaglio), segue terremoto irpino e Vermicino, ‘ndrangheta e droga, guerra russa in Afghanistan. Colleziona «cronache di resistenza», ma intanto sprofonda. Da consumatore occasionale è diventato malato di eroina. Né riflusso né armi per Rivolta. Non poteva abbracciare il terrorismo. Non poteva più tornare a casa.
Carlo Rivolta muore a 32 anni, dopo una settimana di agonia, cadendo dal davanzale di casa durante una crisi di astinenza.
Il ritmo del libro è sincopato, nervoso, a strappi temporali. Avanti e indietro in quella stagione agra, Favale e De Lorenzis firmano un denso, documentato, formidabile ritratto sugli anni del piombo, dell’eroina, dei sogni diventati incubi. Un manuale sul declino degli anni ’70 da leggere come un romanzo.

[pubblicato su Mucchio Selvaggio n. 694, maggio 2012]

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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