Madri figlie follia
di Silvia Contarini
Sto finendo di leggere l’ultimo romanzo di Ornela Vorpsi, Fuorimondo. Mi sconcerta un po’. Non che non mi piaccia, anzi. È che mi aspettavo altro: quando si sono letti diversi libri di un autore, ci si aspetta – scioccamente, certo – di ritrovare le stesse sostanze, quelle che ai nostri occhi fanno il suo mondo. Ma appunto qui siamo “fuorimondo”: non nell’Albania comunista (Il paese dove non si muore mai), non nella Sarajevo del difficile ritorno (La mano che non mordi), Vorpsi non scrive di migrazioni, né di Balcani e Occidente. Qui siamo “fuori”: nel mondo della follia, al femminile. È forse questo che mi ha sorpreso e inquietato, questa storia di madri e figlie e donne folli, folli d’amore, donne che inesorabilmente si innamorano perdutamente, e dunque si perdono, fuori dalla realtà. Il caso vuole che di recente abbia letto altri due romanzi, belli e forti, che raccontano di donne folli. Lo stranissimo Mia figlia follia, di Savina Dolores Massa (Il Maestrale), una sorta di affabulazione, con toni da realismo magico, percorso da una vena pulsante di sofferenza, ha per protagonista una ragazzina, poi donna, ritardata mentale, marginale, che nel suo delirio, vergine isterica puttana, vuole avere un figlio da tre uomini e osserva la pancia gonfiarsi… E il più noto Settanta acrilico trenta lana di Viola Di Grado; molte le recensioni, poche hanno messo il dito in quella che a mio parere è la piaga dolorosa del romanzo: la relazione tra madre e figlia, la felicità femminile impossibile (perché dipende dalla felicità in amore), l’infelicità che sfocia in follia, la perdita di riferimenti nel mondo reale. Senza un uomo che vi ami, non è dato vivere felici. La madre di Camelia chiusa nel suo mutismo fotografa buchi (ovvio l’aspetto simbolico e metaforico del buco); ma l’attrazione per i buchi mi ha ricordato i “pozzi” di Natalia Ginzburg: “le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo […]” Le donne sono una stirpe disgraziata e infelice con tanti secoli di schiavitù sulle spalle e quello che devono fare è difendersi con le unghie e coi denti dalla loro malsana abitudine di cascare nel pozzo ogni tanto, perché un essere libero non casca quasi mai nel pozzo e non pensa così sempre a se stesso ma si occupa di tutte le cose importanti e serie che ci sono al mondo e si occupa di se stesso soltanto per sforzarsi di essere ogni giorno più libero”, scriveva nel Discorso sulle donne, 1950. Nulla è cambiato? Pensavo che la follia (depressione, isteria) per pene d’amore, trasmessa secondo genealogie femminili, di madre in figlia, fosse un tema desueto, un topos socio-culturale e letterario di altri tempi. Di quei tempi in cui le donne non esistevano senza un uomo. Ora riappare, dopo decenni di una letteratura femminile (femminista e postfemminista, per intenderci) che ci aveva abituati a mogli e madri ribelli o “cattive”, a ragazze e donne emancipate o seduttrici; anche quando il malessere le investiva, anche quando l’amore le pervadeva, la follia non era in agguato, non cadevano nel pozzo o ne uscivano rinforzate; madri e figlie non erano incatenate l’una all’altra, non si avvinghiavano a uomini e amori improbabili, non si chiudevano fuori di sé. Benché non appartengano alla stessa generazione, né alla stessa area geografica, benché le loro opzioni linguistiche e narrative siano diverse e distanti pure i loro universi letterari, Vorpsi, Massa e Di Grado manifestano una prossimità che non mi sembra accidentale. Le loro donne matte (per mancanza) d’amore, sono madri e figlie segregate nella dimensione del privato, con un medesimo destino di esclusione sociale, prototipiche di un’umanità ai margini, che parlano da luoghi decentrati (un paesino della Sardegna, un paesino dei Balcani, una grigia città industriale dismessa del nord Inghilterra). Consumano le loro vite nelle periferie del mondo, fuorimondo, anche in questo senso. Penso sia questo ad avermi inquietato, che tre scrittrici di oggi sentano la necessità di scrivere storie di donne rinchiuse in se stesse e nelle proprie follie, un mondo di dentro fuori dal mondo, come se tra loro e il resto non ci fossero ponti. Il mondo di oggi non è fatto per le donne?
PS Mi riprometto di leggere presto Ogni madre, il nuovo libro di Savina Dolores Massa, appena uscito.
proprio in questi giorni mi era ricapitato tra le mani il magnifico “I giorni dell’abbandono” di Elena Ferrante; lì c’è lo sforzo per non cadere nel baratro, rappresentato nella testa della protagonista dall’esempio della vicina nella sua infanzia, la donna prima felice e poi abbandonata dal marito (e quindi trasformata in “la poverella”: “un dolore così appariscente cominciò a disgustarmi); lei invece non vuole non cadere nella follia: “Dovevo resistere,dovevo organizzarmi” … “Via da me le donne spezzate”; il che mi aveva fatto pensare al “Dolore” della Duras …
Davvero interessante queste riflessioni di Silvia Contarini su tre romanzi recenti. In effetti pare di assistere, nelle trame dei romanzi da lei letti, ad una sorta di “rovescio” del “topos dell’emancipazione” tanto a lungo prodotto e criticamente dragato; sembra di percepire dunque, in questa analisi, un ritorno della volontà di indagare “ab imo corde” rapporti di forza (emotivi, socio-culturali, storici) che si credevano oramai storicizzati. O forse è il classico flusso e riflusso della tematica letteraria che, una volta esaurito momentaneamente un filone narrativo, torna a figurare elementi ormai tradizionali… Agli studiosi e alle studiose il compito dunque di chiarificare questo importante elemento, elemnto che già Silvia contarini ha iniziato, ci sembra, ad affrontare.
Davvero interessanti queste riflessioni di Silvia Contarini su romanzi recenti. In effetti pare di assistere, nelle trame dei romanzi da lei letti, ad una sorta di “rovescio” del “topos dell’emancipazione” tanto a lungo prodotto e criticamente dragato; sembra di percepire dunque, in questa analisi, un ritorno della volontà di indagare “ab imo corde” rapporti di forza (emotivi, socio-culturali, storici) che si credevano oramai storicizzati. O forse è il classico flusso e riflusso della tematica letteraria che, una volta esaurito momentaneamente un filone narrativo, torna a figurare elementi ormai tradizionali… Agli studiosi e alle studiose il compito dunque di chiarificare questo importante elemento, elemento che già Silvia Contarini ha iniziato, ci sembra, ad affrontare.
è chiaro che il rapporto con la regressione nella società civile c’è (rivedendo certi filmati degli anni ’70, anche per esempio alcuni di quelli utilizzati da Alina Marazzi, con tante donne arrabbiatissime e pienissime di energia, ci si domanda, o almeno a me è davvero capitato di domandarmi: “viviamo nello stesso paese?”);
mi chiedo però, anche se forse la mia è una domanda da sporco uomo, se proprio questa regressione non permetta adesso di andare al nocciolo del problema, che è profondissimo e radicatissimo, e certo non è stato scalfito più di tanto da qualche decennio di femminismo; certo con tanta e deprecabilissima sofferenza, naturalmente, ma come sappiamo è proprio lì che nasce la buona letteratura; in altre parole in certe scrittrici di una generazione precedente, che pur esplorano in maniera profondissima altri dominii della femminilità (l’infanzia …), e penso per esempio a una Annie Ernaux, che io trovo molto grande, non ci sono in fondo dei silenzi, dei cerotti ideologici, o anche delle scappatoie retoriche (che trovano la loro apoteosi in particolare nella Duras), che coprono le zone di sofferenza in cui questi testi invece sprofondano?;
Ho letto con interesse l’intervento di Silvia Contarini, soprattutto la parte che riguarda “Mia figlia follia”, romanzo che mi è capitato di leggere di recente. Il termine “affabulazione”, secondo me, è la chiave per tentare di proporre una lettura del romanzo che, per inciso, a me è parso piuttosto femminista. La Maddalenina di cui leggiamo fino quasi alla fine del libro, infatti, è puro frutto di fantasia, e non tanto della fantasia dell’autrice (Massa) quanto di quella del narratore (il marito frustrato, sterile e abbandonato, misogino, che vuole vendicarsi della moglie e che per questo, nella fiction, la trasforma in una ritardata, in una folle e in un’isterica). Magari mi sbaglio, ma mi è sembrato che con il coup de théatre finale (ovvero la moltiplicazione dei livelli narrativi) l’autrice prenda le distanze e critichi gran parte della storia della letteratura che è stata (e continua in gran parte a essere) appannaggio degli uomini (scrittori e critici). Mi è sembrato che la Massa volesse dire: badate, tutte le donne simili a Maddalenina (a cominciare da Emma Bovary, direi) nelle quali vi siete imbattuti nei romanzi che avete letto, tutte quelle folli e tutte quelle isteriche, sono il prodotto della fantasia maschile.
Molto interessante, fine, e condivisibile la lettura di Chiara su “Mia figlia follia”. Ma la mia “inquietudine” resta giustificata: se nel 2012 occorre ancora ribadire, in letteratura come nel resto, che le donne non sono come vengono rappresentate (isteriche, folli, innamorate dell’amore, chiuse nel privato, incapaci di esistere di per sé, etc etc), significa che c’è un problema, no? Non è preoccupante che si debba ancora ribaltare uno sguardo (narrazione?) maschilista? Diceva un vecchio slogan femminista: una donna senza un uomo è come un pesce senza bicicletta… Non so se si possa parlare di regressione o di riflusso, anche narrativo, forse si. Per certo, le contraddizioni e le resistenze si rivelano profondissime quando si tocca alla differenza di genere. E per scalfire in profofondità bisogna osare.