Il grande Pardini
(uno dei grandi misteri della narrativa italiana è per me come Vincenzo Pardini non abbia vinto due volte il premio Viareggio, come non sia letto e amato e osannato, come tutta la sua opera non sia stata riunita e ristampata da un grande editore, come non sia considerato un classico, come non venga letto nelle scuole; dalla sua ultima raccolta di racconti “Il viaggio dell’orsa” (Fandango, 2011) ritaglio due stralci quasi a caso: la sua scrittura così desueta e così attuale, sempre così particolare, mi sembra sempre bellissima; GS)
di Vincenzo Pardini
da “La sfida e la pantera”:
La domenica mattina, o il sabato pomeriggio, Mastre e Veronio aprivano la gabbia a Panterina, che usciva nel verziere. Avvicinatasi al tronco d’un fico, lo incideva con gli artigli. Poi fiutava i muri, guardando in alto. Pareva ammirasse il cielo. In contrasto col manto nero, gli occhi gialli erano pepite d’oro. E anche il collare d’acciaio brillava in maniera insolita. Alla carne macinata, preferiva polli e conigli, che loro compravano al supermercato. Talvolta glieli strappava di mano con una zampata, addentatoli. Le ossa scricchiolavano tra le mandibole. Delle galline, lasciava zampe e testa, dei conigli soltanto la testa. Dopo, entrava in casa. Sdraiata sul divano, s’assopiva. Alle loro carezze restava assai distaccata. Avessero insistito, li avrebbe guardati coi suoi occhi traversati da un riverbero cupo. Se invece era lei a voler giocare, gli accostava collo e schiena alle gambe. Durante uno di questi giochi, profittando del fatto che Veronio voleva allargarle il collare, se lo sfilò tirandosi indietro di scatto. Adesso non sapevano come fare per riportarla nella gabbia. Provarono mettendovi della carne. Sazia, la ignorò. Andò dentro, passata mezzanotte.
Venne freddo. Il sole batteva nel suo angolo solo al mattino. Teneva gli occhi socchiusi, il corpo percorso da un tremito. Mastre e Veronio pensarono fosse ammalata. Chiesero a Michelangela se conosceva un veterinario di cui fidarsi. Il veterinario consigliò di metterle paglia nella stia. Animali assai umorali, male accettavano l’inverno, specie in cattività. Loro tanto fecero. Ma lei ammucchiò la paglia in un angolo, muovendo le zampe anteriori alla stregua di braccia. Voleva stare sulla terra nuda. Come di consuetudine, un sabato pomeriggio la liberarono. Uscì, stiracchiandosi e sbadigliando. Poi, salita sul fico, dai rami alti scavalcò il muro, scomparendo. Esterrefatti, Veronio e Mastre si guardarono in silenzio. Dalle case vicine provenne qualche grido, che pareva più di meraviglia che di paura. Colti dal panico, decisero disfarsi della gabbia che, in breve, ridussero a ferraglia. Poi, col furgone, andarono a gettarla in una discarica abusiva, vicina al Tevere. Tornando indietro, trovarono nel quartiere le macchine della polizia.
da “La vendetta del gufo”:
Ormai padrone del territorio, il gufo, nelle sue uscite al calar della sera e all’alba, s’era avvicinato alle case abitate di S. Francesco, planando sui tetti che non sapevano di legno, pietra e camini spenti; emanavano suoni a lui sconosciuti, che lo inquietavano, facendolo sentire in pericolo. Ma, nello stesso tempo, scoprì che attorno a quelle case c’erano pollai, gatti, civette, passeri e storni. Quella mattina, nascosto dietro il comignolo, ghermì una civetta che rientrava al nido, sotto le tegole. Per la femmina afferrò un giovane gatto, in giro attorno a una pagliaio. Gli calò addosso, oscurandogli la vista con le ali; il gatto si inarcò, e lui lo colpì col becco, adunghiandolo sulla schiena, che finì di stritolargli in volo, mentre ancora soffiava e si contorceva. Ma gli animali di terra, sollevati in aria, perdevano forza e coraggio, abbandonandosi. Radente gli alberi, volò al nido. Arrivato, la femmina gonfiò le penne, allungando il collo. Lui, poggiatosi al bordo del covo, gli dette il gatto, che lei tranciò col becco, ingoiandone bocconi che le gonfiavano il collo. In breve, del micio rimasero pelliccia, zampe e testa, che gettò nel dirupo. Il maschio le fece delle effusioni, strofinandola con la testa. La pioggia scorreva sul loro piumaggio come fosse unto. Spuntava un’alba di nubi. Dal bosco provenivano i canti degli uccelli del giorno che, da quei dintorni, s’erano allontanati. Il maschio li aveva cacciati e rapiti. Sotto i suoi colpi erano cadute cornacchie, ghiandaie, un falchetto e storni. Era entrato nel loro stormo, alla sera, quando calavano. Sazi, lui e la femmina s’apprestavano a trascorrere la giornata.
La pattuglia del Corpo Forestale, comandata dal brigadiere Saleo De Fernandi, era arrivata a S. Francesco ch’era appena giorno. Non si spinse nello spiazzo del crinale, in mezzo alle case e le capanne dislocate sui dossi. Si fermò tra castagni, lecci e muri a secco. L’intento del brigadiere era di nascondersi in un cortile abbandonato, da dove osservare le mosse di Faido Alterchi. Aveva percezione che, profittando del cattivo tempo e sentendosi al sicuro, facesse qualche mossa falsa. Pioveva, e l’acqua scivolava dal pastrano grigioverde dei due agenti. Nubi calavano a sghembo dalla montagna, unendosi alla nebbia della Valle, mossa da folate gelide. Una primavera che sembrava inverno. Appostato davanti casa Alterchi, il brigadiere mise mano al binocolo, inquadrandone l’aia. Non c’era movimento, se non il fumo del caminetto. Ma i cani (ne avevano quattro, due da gregge e due da pagliaio) abbaiarono, puntando verso di loro. S’aprì una finestra e s’affacciò la madre di Faido. Si ritrasse, lasciandola aperta. Dai costoni s’alzò il gauuu di un lupo. Solitario e cavernoso, pareva disperdersi nella nebbia. Un altro gli fece eco dall’altra parte della montagna. I cani si azzittirono. Dopo un concitato vociare, e uno sbattere di porte, Faido uscì, incamminandosi all’ovile, situato nei pianori sottostanti la casa. Da lì non l’avrebbero controllato e allora si spostarono verso un’altura che gli permetteva di spaziare il territorio sottostante. Le nubi s’erano fatte più nere, ma la pioggia aveva rallentato. Col binocolo, il brigadiere inquadrò l’obiettivo. Arrivato all’ovile, Faido fece uscire il gregge, che seguì riparandosi col pastrano. Il brigadiere avrebbe voluto andarsene. Ma l’agente, giovane e curioso, gli chiese di perseverare. Il brigadiere acconsentì. Pochi istanti e Faido, allontanatosi dal gregge, raggiunse una capanna fatiscente, salendo sul tetto. Piegato sulle tegole, parve prelevare o deporre qualcosa. Scese, guardando attorno.
certe cose vorrei saperle anch’io
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che splendore
meraviglioso…grazie per avermelo fatto scoprire.
Nessun mistero. Ha numerosi difetti: è bravissimo, è italiano e (soprattutto) è ancora vivo. Di solito l’intellighenzia nostrana attribuisce riconoscimenti e onori ad autori defunti da almeno vent’anni quando, insomma, sono “maturi” per finire in qualche antologia di Adelphi.
sì, è evidente,quelle che dici sono “MACROVERITA'” che hanno tanto conferme, e che quindi conosciamo bene; però ecco, COME può avvenire questo? è questo che mi intriga e in qualche modo affascina; qualche giornalista culturale e qualche critico lo aprirà pure, il libro che riceve dalla casa editrice, leggerà una frase, no? come può non accorgersi della qualità? come è possibile che a nessuno venga voglia di parlarne, che nessuno si entusiasmi/innamori (di questo testo stesso che morto l’autore – speriamo per Pardini il più tardi possibile – manderà TANTI in visibilio); idem per le singole persone delle case editrici, i singoli giurati dei premi …; è una “banalità dell’ignavia” che appunto è facile riconoscere e catalogare nelle sue macromanifestazioni (il conformismo degli italiani …), ma appunto -almeno per me – è misteriosissima nel suo avverarsi caso per caso, persona per persona; quali sono, caso per caso, i paraocchi che impediscono di vedere ciò che letteralmente salta agli occhi?; i paraocchi sono gli stessi, o ciascuno ha i suoi (un modello, una “marca” un po’ differente)?;
Giacomo, non vorrei commettere la svista opposta ossia che ciò che io trovo valido dovrebbe esserlo erga omnes. In questo “gioco” dalle strane ragole (che comunque ci sono) accade che quello che per noi è imprescindibile possa essere ignorato, e quello che per noi è di scarso pregio ottenga riconoscimenti. Ma vale per i dischi, per i film, per i quadri, per le commedie e per tanto altro. Tutto sommato Pardini è uno che, come suol dirsi, “pubblica bene”. E’ già una cosa.
Pardini è un grande scrittore (immediatamente riconosciuto come tale da molti nostri big, ancora vivi quando ha esordito), che pubblica molto male: basta vedere il zig-zag di editori piccoli e grandi per i quali è passato; ed è stato per anni e anni(anche un decennio, se ricordo bene quello che mi ha detto la sola volta che l’ho incontrato), senza poter pubblicare, perchè nessuno lo pubblicava; per fortuna ora Fandango lo ha preso sotto la sua ala, però i suoi tanti libri precedenti non sono disponibili; per me non è una gran cosa, è una vergogna;
io non penso che sia imprescindibile, e a dire la verità per molti aspetti è agli antipodi della mia idea di narrativa; dico che la sua scrittura è un abisso di profondità e bellezza; e dico che per quanto ne so io in nessun altro paese scrittori di grande calibro possono essere tanto sottovalutati (fino alla macabra adelfizzazione di cui parli tu stesso) come da noi;
ma certo, tutto ciò può essere considerato un parere personale (condiviso – magra pezza di appoggio – da molti gli scrittori che stimo), e di qui potrebbe partire il solito dibattito sui criteri e sulla stessa essenza della “qualità”;
posso dire – egoisticamente, me ne rendo conto! – che sovente mi ritrovo a pensare che il fatto che Pardini resti uno scrittore di nicchia spesso me lo faccia sentire più “mio”, quasi che scoprirlo e abbeverarsi alla grandezza di ogni suo nuovo lavoro sia un continuo dono che mi viene fatto da qualche divinità delle buone letture…
Ovviamente auguro al bardo della Garfagnana ogni successo, ma almeno così, con una punta di infantile contemplazione, il fatto che un maestro come lui sia confinato ai margini si fa (un poco) più sopportabile.
Io penso che sia, sempre di più, un problema di quantità. Ci sono tanti scrittori che potrebbero costituire una rivelazione, tanti libri potenzialmente da leggere. Chi può tenere conto di tutti? Chi può avere un’informazione completa, avere fiuto per tutti? I nostri tempi sono caratterizzati da una ingestibile, e del tutto nuova storicamente, possibilità di scelta, chiamiamola così. Secondo me non si è ancora riflettuto abbastanza su questo aspetto, che pure non può non avere conseguenze sul piano critico e in merito allo statuto ontologico stesso della letteratura. Il rapporto tra quantità, informazione e umani limiti deve ancora essere pensato.
bof, negli altri paesi ricchi si pubblicano molti più romanzi “autoctoni” che da noi, a dispetto dei nostri luoghi comuni(“si scrive troppo”, “le case editrici pubblicano troppo” …); ma i premi, le recensioni, il lavoro dei librai, l’esistenza di lettori esigenti, costituiscono nel loro insieme un filtro, che – a dispetto dell’impossibilità di definire cosa è la qualità, di cui si è parlato molto anche proprio qui su NI – mettono in luce di fatto i testi di qualità; questo non vuol dire che molta ottima letteratura non resti poi di nicchia, per carità; ma pubblicata degnamente e riconosciuta dai pari: è già qualcosa; in Francia non esiste la figura, da noi inflazionata, del “grande scrittore” che viene riconosciuto dopo morto;
ma è chiaro, in mancanza di tutto ciò, il singolo critico – e men che meno il comune mortale – non potrà mai leggere, anche se lo volesse, tutto quello che esce;
Non è un problema di quantità, ma solo un problema di scarsa qualità… dell’editoria.