Dopo tre giorni sono iniziate le sinfonie notturne.

di Mariasole Ariot

 

Dopo tre giorni sono iniziate le sinfonie notturne.

La volpe è bella. È una donna potente, i suoi occhi sono pozzi neri. Ribaltano il visibile, cammuffano la noia. Mi racconta dei figli dispersi, un figlio dopo l’altro, il primo ferito nel ventre, il secondo nella vodka, il terzo dall’incendio di casa. La volpe continua a figliare, e poi non figlia mai. Ha le gambe corte, le rialza con piccoli inganni, ma resta terribilmente bella anche quando mente, quando si scortica la pelle fino all’incandescenza.
Ogni notte casco a perdifiato nei suoi pozzi neri, ci rannicchiamo al lato destro dei termosifoni, ritagliamo lenzuola per costruire una corda. Dice di aver intravisto un buco, oltre la siepe. La terra sprofonda, e le maglie della rete si lacerano. Poi ritagliamo lembi di stoffa per costruire le bende per Nicolien. Nicolien che sta sempre zitta, che si taglia le vene a trentasei denti, Nicolien che ha troppi denti, Nicolien che è senza lingua.

Usciremo da quella parte, quando sarà momento, le continuo a ripetere.

Lei mi chiede di imitare la voce del Signor C, della donnina figlia del falegname, la voce di Valentina, di fare la scena in cui si alza di notte e cerca i suoi capelli. E io faccio il teatrino, e la volpe ride, e poi ridiamo a squarciagola fino a che le gole si spaccano. Le gole spaccate anestetizziano il linguaggio, ci proteggono dalle maledizioni.

Dice che se non mi confondesse per figlia mi prenderebbe con sé, mi bacerebbe a lungo, sfiorerebbe i miei seni, sfiorirebbe sui seni. Mi chiama cucciolo di volpe, e io la chiamo mamma volpe. Questa melassa sdolcinata qui dentro diventa l’unica vera medicina, ci aggrappiamo agli affetti per non morire di noia, per bonificare il campo dagli orrori.

Ma poi dal buco nella rete anziché uscire si continua ad entrare. Arrivano la notte a gruppi di cinque, scavalcano, si sfregiano le maglie con filo di ferro, ci portano in dono veleni dolci. Ogni sera, nella pausa tra cena e spuntino ci ubriachiamo di polline, ormai sappiamo riconoscere i tranelli. Il polline maschio, la femmina, il cioccolato, il libanese, l’erba strega, la bile. Riesco a rollare la canna con una mano, mi trasformo in giocoliere, ubriaco il cuore di Nicolien, le tette da latte di Ilaria, le gambe secche di Marco. Ci tuffiamo nell’erba fresca, guardiamo le scimmie nelle gabbie illuminate a vista, dove tra poco rientreremo anche noi. Ma ora siamo qui, sospesi in un delirio secco, nella parte che ci siamo scelti.

Due di noi sono in carrozzina. Alla partita a scacchi hanno vinto per un pelo entrambi. Sono robusti, uomini del sud. Mi siedo sempre sulle gambe di R a leccare la cartina prima di chiuderla, poi lui lecca le mie mani, poi ci baciamo. Il mio peso sulle  sue ginocchia non fa alcuna differenza, sono sospesa nel vuoto, in questo niente che scorre nella sua carne morta, un alibi per il tradimento.

È un rituale di nervi, uno spasmo, il resto di un riflesso vagale: basta uno strappo e si finisce in arresto cardiaco. Il desiderio non c’entra, tanto meno l’amore. Questi baci sono solo lingue, lingue di bestiole aggrappate al terriccio, che si intrecciano per non cadere, che si fingono lupi mannari.

La vecchia volpe, invece, ha un debole per le donne. E qui dentro ce ne sono di bellissime, alcune arrivate proprio per questo, perché troppo belle, perché erano belle anche a sette anni, perché sono state prese a cinque.

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17 Commenti

  1. normalmente, diffido dalle prose troppo sexy. ma questa è sexy al quadrato, la violenza della soggezione sfonda la stessa suggestione. quasi come quando, in Partita (Antonio Porta), compare Màstica sulla scena. è impossibile resistere.

  2. “cammuffano la noia”, meglio forse “camuffano la noia”.
    Frase più apprezzata: “ci aggrappiamo agli affetti per non morire di noia, per bonificare il campo dagli orrori”.
    Per il resto, non si è capito cosa si dice o di cosa si parla. O ancora meno di cosa si racconta.
    Però c’è un bel fare. Continua. Forse, andando avanti, ti chiarirai.

  3. Non mi sembra una favola, ma un crudo spaccato di realtà. il dosaggio tra il distacco del cronista e il climax sincopato dell’ambiente psichiatrico riflesso dall’interno lascia un sapore anfetaminico molto appropriato per descrivere certi ambienti. Il flusso di coscienza partorisce l’idea di una distanza forzata, non tanto dal “se”, ma dall'”altro”: l’impotenza si riscatta dagli abusi del potere proprio partendo da questo consapevolezza. sintetico e forte, in e per tutti i sensi! chapeau

  4. la viol’azione. un livido che racconta ferite. uno sgorgare continuo di visioni. una scrittura nitida nel suo simbolismo crudo, secco, reale. (e c’è anche tanta musica dentro, o sono io a sentirla?)
    brava, sempre.

  5. crudo come la verità, bellissimo e inaspettato come l’ultimo pasto del condannato a morte. Grandiosa e incisiva Sole, come solo tu sai essere, che trasformi il dolore in poesia

  6. C’è chi non capisce, chi non vede. Ma è perché la luce, quando è in lame affilate, può accecare. Ma noi vogliamo altra luce, Mariasole, ne vogliamo ancora. Non possiamo farne a meno.

  7. Grazie davvero -a tutti- per questi commenti, per il rimando A Scanner Darkly, per ogni singola parola.

  8. non solo la donna “volpe”, pure l’insieme della scrittura qui è potente. una prima persona densa di lingua a squarciagola, dove gli umori dispersi si mescolano secondo una *liturgia comune* che si affida più al piano tattile che alla parola in sé (anestetizzata dal *luogo comune*). difatti, come ci si protegge dalle male-lingue, nonché dalle male-dizioni? semplicemente tornando a comunicare mediante una lingua animale, una lingua bestiola che *intreccia* relazioni mediante il nudo contatto fisico: “scortica”, “incandescenza”, “termosifoni”,“veleni dolci”, “bile”, “mani”, “erba fresca”, “secco”, “leccare”, “peso”, “spasmo”, “strappo”, “aggrappate”, sono le sensorialità tattili, viscerali e gustative che farciscono il racconto. la risata stessa (grassa, di pancia, che spacca le gole) è un esorcismo privo di parole. ed ecco allora che il buco nella rete in cui si entra, più che richi-amare erotismo o desiderio, come esplicitato a corpo testo, è una nicchia in cui rannicchiarsi insieme, a mo’ di riflesso vagale da “sistema nervoso autonomo”, che m’ha fatto pensare non solo alle api (visto il “polline”), insetti “sociali” per eccellenza, ma anche (saranno i miei trascorsi da ricercatore) alle gabbie nello stabulario, dove i ratti si radunano ammonticchiandosi uno sull’altro, in un angolo.
    fragile umanità messa all’angolo, si potrebbe chiosare, quindi, dannatamente viva e adorabilmente sghemba, che forse per l’intonazione m’ha ricordato il donoso migliore, quando *saliva* in cattedra e leccava capolavori sulla carta-cartina come “un posto che non ha confini” o “l’uccello osceno della notte”.
    cheddire di più? almeno un elemento di perplessità, sennò il commento è inutile.
    : ))
    mmm…tornando allo stabulario di prima, entrando nel locale ciò che si nota è subito l’odore. ecco… qui ciò che m’è parso particolarmente debole è proprio il piano olfattivo, che è quello più animale in assoluto. i “pozzi neri” in incipit lasciavano ben sperare, e invece in seguito si transita apnea di riga in riga, perdendo l’occasione di immergersi completamente nell’ostello scalcinato della realtà più scomoda, laddove, per vivere fino in fondo, bisogna ficcarci il naso.
    my compliments.

  9. @malosmannaja,letture attente come la tua sono rare e fanno bene. Anche – e forse tanto più- per l’appunto finale, la perplessità di quel “transitare in apnea” che hai ben colto – e di cui ti ringrazio per aver scritto. Ficcarci il naso, scrivi, e dici bene.
    Nel pezzo che è uscito oggi, spero che quell’odore animale, di vita al grado zero, umori liquidi e fastidiosi, sia riuscito ad emergere, a farsi spazio (se non a prenderselo tutto). Mi piacerebbe sapere che ne pensi a riguardo. Intanto ti ringrazio per esserti calato in questi bassifondi.

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