Overbooking: Attilio Wanderlingh
di
Gigi Spina
Ho appena finito di leggere “Prima del disincanto” di Attilio Wanderlingh (Intra Moenia, Napoli 2012), “diario di una generazione in qualche racconto 1968-1980”, e ho subito cercato di individuare il posto dove collocarmi e, di lì, parlarne. L’ho trovato dopo l’ultimo rigo di pagina 84, alla fine del capitolo intitolato “Carlos”, in quello spazio bianco che prepara il capitolo successivo, “Praga”. Lì ho potuto ricordare quello che già la foto di copertina mi aveva fatto balenare: l’autore ‘guerrigliero’ con tanto di mitra, in mezzo a due molto più duri di lui, che sorride spavaldo. Misi piede nella sede del Manifesto di Napoli, in via Pessina, nell’autunno del 1970 (mi pare), perché curioso di ascoltare un tale Attilio Wanderlingh che avrebbe parlato delle sua esperienze in Medio Oriente. Al Manifesto di Napoli si parlava di politica, internazionale e interna, con alcuni storici dirigenti usciti dal PCI; al Manifesto di Salerno, che avevo cominciato a frequentare nel mio incipiente pendolarismo, l’attivismo era forse più ideologicamente giovanile e ‘intergruppi’. Ricordo una stanza in cui le compagne, fra cui Lucia (forse Annunziata?), preparavano striscioni, mentre un compagno, Michele (forse Santoro?), leggeva ad alta voce il libretto di Mao.
Ecco, da questo piccolo spazio bianco, da questo punto di vista datato e sinceramente confessato, e per nulla autocriticato, comincio a dire che Attilio Wanderlingh, il cui cognome continua a conservare un fascino misterioso (per questo lo siglerò AttilioW), ha scritto uno dei pochi libri che risponde alla domanda che apre la quarta di copertina: “è possibile narrare la generazione che ha fatto il ’68 e ha attraversato gli anni ’70, senza cadere nella retorica, o all’opposto nella cupezza?”. Non solo è possibile, sarebbe necessario e salutare mettere a confronto esperienze e riflessioni personali, individuali, che riuscissero a rendere più comprensibile la vicenda complessa e per nulla uniforme e monocorde di tanti protagonisti di quelle generazioni di militanti, giovani e meno giovani. Francesco De Sanctis ha scritto, in un saggio su George Gottfried Gervinus, lo storico tedesco neoliberale vissuto in pieno XIX secolo: “Verrà un tempo che il concetto di umanità sarà sostituito a quello di nazionalità: né però gli storici futuri avranno il diritto di censurare il movimento nazionale odierno” (“Saggi critici”, I, p. 226).
Ciascuno potrà cambiare i termini che ho indicato in grassetto con quelli che rappresentino, a suo avviso, il lessico forte delle ‘sostituzioni’ di questi ultimi quarant’anni, purché rimanga fermo l’assunto finale. Censurare a distanza è molto comodo, come anche ‘pentirsi’ e cambiare parere sui se stessi di allora. Diverso è, invece, come mi pare faccia AttilioW lucidamente, ripensare un periodo col filtro dell’oggi (che AttilioW battezza programmaticamente ‘disincanto’), cioè con le sue conseguenze storiche, ma senza perdere la sostanza profonda delle idee, delle ingenuità, delle forzature, e anche delle vere e proprie colpe dell’ieri. Il dibattito che si sta aprendo, ad esempio, sul film “Romanzo di una strage” di Marco T. Giordana, rischia davvero di riproporre difese e accuse stereotipate, in mancanza di voci meno retoriche e meno cupe (e più oneste intellettualmente).
Ma torniamo ad AttilioW e al suo racconto. Che è diviso in sei capitoli, i primi cinque internazionali (Morte per fucilazione, Acqua, Beirut, Carlos, Praga), solo l’ultimo, per così dire, più italiano: La contestazione. Il tempo del racconto non è lineare, non coincide con quello della storia, si va avanti e indietro sull’onda del ricordo. Ciascun viaggio, con i suoi pericoli e le sue ostinate progettualità, è una storia a sé, che però si lega agli altri con un filo rosso riconoscibile: la sensazione che lo scacchiere su cui muoversi politicamente, scoprirsi protagonisti della propria vita, potesse essere solo internazionale. L’idea che una manifestazione con i suoi slogan diretti o una riunione in una piccola sezione potessero condizionare azioni e decisioni in paesi lontani era introiettata e vissuta senza problemi. Sentirsi parte di un movimento internazionale e, a questo titolo, rivendicare il proprio diritto di parola, di giudizio e di intervento, prima ancora che essere valutato, a distanza, come ingenuità, furbizia o solo pessima retorica (ciascuno scelga), andrà riletto come esigenza sacrosanta alla lunga inevasa. Domande che restano e magari si incanalano oggi sul web, creando comunità altrettanto ‘ingenue’, per certi versi, sulle quali si discuterà fra qualche decennio (allora ricordiamoci di quello che ci muove e ci spinge adesso). Ma forse lo stacco, la frattura più forte che i racconti di AttilioW – le sue esperienze rischiose – mettono in luce, per chi le ricordi e ne scriva oggi, è la sensazione di due realtà che si muovevano parallelamente, quasi a rispecchiare i ragionamenti marxiani su ‘struttura e sovrastruttura’ sui quali ci si accapigliava in quegli anni.
E ‘noi’, forse, facevamo parte di quella realtà di superficie più visibile e loquace, e come tale più esposta alle manovre dell’altra, che continuava a organizzare e dirigere meno esposta. Quella che AttilioW fissa, nel capitolo sull’invasione sovietica di Praga (p. 100), come “la frattura fra la partecipazione corale della gente e l’impossibilità di uno sbocco politico, o meglio l’insostenibilità di un rapporto di forze fra chi aveva solo la voce e chi invece le armi”, potrebbe essere la realistica riflessione sull’esperienza di quegli anni in tanti paesi europei, in Italia in particolare. Solo che, chi pensò di ridurre questa frattura o alleviare l’insostenibilità mettendosi dalla parte delle armi, invece di tentare di ampliare il numero e il volume di quelle voci, finì con l’indebolire le voci stesse, oltre che mettersi dalla parte degli assassini, a quel punto davvero senza colore. Cicerone, nel passaggio cruciale fra repubblica e impero, auspicava che “cedessero le armi alle toghe”, alla parola degli oratori. Segno di un conflitto non risolto una volta per tutte, o forse non risolto mai.
I racconti di AttilioW, racconti individuali e collettivi insieme, mostrano come una parte importante di quella generazione continuò a scegliere la via delle voci, che rimane il patrimonio più prezioso affidato alle generazioni successive. L’urgenza di narrare, di tracciare bilanci, di esporsi agli altri anche quando si è meno sicuri e meno ottimisti, porta AttilioW a delimitare i suoi racconti con la cornice costituita dall’esergo pasoliniano e dalle ultime parole del libro. Entrambe queste voci definiscono il ‘disincanto’ del titolo. Pasolini scriveva ne “La religione del mio tempo”: …il doloroso stupore / di sapere che tutta quella luce, / per cui vivemmo, fu soltanto un sogno / ingiustificato, inoggettivo, fonte / ora di solitarie, vergognose lacrime”. AttilioW conclude (p. 127): “Tale era l’accaduto dell’epoca come io lo vissi, e nulla ancora si sapeva di questo nostro attuale diffuso grande niente”. Fra la luce di un sogno ingannatore e il diffuso grande niente non si saprebbe cosa scegliere: se il disincanto, appunto, che porta alle lacrime, o l’inerzia inattiva del nulla. Devo dire, però, che nelle ultime righe della quarta di copertina appare la risposta più vera e personale che lo stesso AttilioW si è data, e che forse fa anche del disincanto una fase passata, ‘sostituita’: “vive sei mesi all’anno in Africa per continuare a illudersi di fare qualcosa di utile”. Il disincanto uccide, se lo si blocca come momento fondante della propria vita, l’illusione attiva, fatta di obiettivi concreti e ‘sostenibili’ – come scavare pozzi per l’acqua per i villaggi dell’interno in Kenya – ricostruisce una interazione di cui possono avvantaggiarsi in molti. E non è detto che debba trasformarsi anch’essa in disincanto.
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non ho ancora letto il libro, ma anch’io penso che le testimonianze personali siano fondamentali per vederci un po’ chiaro in questo passato così recente e reso così lontano dagli stereotipi imperanti; abbiamo decine e decine di testimonianze di persone che sono state implicate nella lotta armata, ma quante invece di persone che se ne sono tenute lontane?
e naturalmente uscire dagli stereotipi è tanto più difficile per chi quei tempi non li vissuti; l’esempio che mi viene sempre in mente quando penso a queste cose: Demetrio Paolin che parla degli anni di piombo, dando per scontato che il clima di quell’epoca, e il modo di ragionare, e il livello di violenza …, fossero quelli di adesso; perfino nell’articolo (oggi su Repubblica) sul libro su Carlo Rivolta, il lucido Gotor,il quale pure racconta che proprio leggendo Rivolta è uscito dagli stereotipi,lascia poi riaffiorare surretiziamente qualche stereotipo(la morte di Rivolta come sintomatica e ineluttabile …)
Grazie a Gigi Spina per la segnalazione di un libro e di un personaggio che ha subito catturato l’attenzione. Io non ho vissuto un periodo storico così caotico e utopico, sebbene da ragazzo abbia fatto parte anch’io di quel mondo in cui trovarsi nelle sezioni di partito, dibattere, urlare i propri slogan e difendere le idee, proprie o altrui, quand’anche opposte, era un’illusione entro cui potevamo ancora muoverci con agio.
Credo fermamente che le parole debbano annientare la voce delle armi e che la protesta può essere efficace anche se non violenta; ma credo anche che ci siano momenti storici in cui imbracciare una mitraglietta sembri più risolutivo e non mi sento affatto di condannare un atteggiamento del genere. Semplicemente perché l’illusione attiva a volte si dimostra imprevedibile.
Ovviamente condivido appieno la sostituzione del disincanto con l’opera continua, assidua e testarda a favore delle proprie illusioni.
Lo cercherò e lo leggerò.
mdp