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L’amore segreto di Fatima

di
Azra Nuhefendić
Tra le strette mura di Dubrovnik ha trovato dimora una piccola comunità di bosniaci. Sono i discendenti di manovali, braccianti, lavandaie, domestiche, di poveri e di avventurieri che nel passato erano arrivati dalla Bosnia Erzegovina in cerca di lavoro e di una vita migliore. Oggi la comunità bosniaca è fatta di capitani, medici, artisti, professori, pittori, ingegneri.
A Dubrovnik ci sono nati, ci vivono, frequentano le scuole, lavorano, si innamorano, muoiono. Durante l’ultima guerra, quando i serbi bombardavano la città per “costruire una Dubrovnik più antica e più bella” (come diceva il camionista Bozidar Vucurevic, il capo dei serbi durante la guerra), 23 musulmani persero la vita difendendo la propria città. A differenza dei concittadini cristiani, i bosniaci portano un peso che, con l’età, preme sempre di più. Nel cimitero non c’è più posto per la sepoltura dei musulmani, e le autorità locali rimandano la decisione di trovare un altro luogo vicino e idoneo. Il decesso per i musulmani di Dubrovnik è l’inizio di un viaggio, non verso la pace e l’eterno riposo, ma verso terre lontane e sconosciute.

L’immediato entroterra di Dubrovnik, l’Erzegovina, oggi appartiene ai serbi e ai croati. Entrambi con la guerra hanno ottenuto zone etnicamente pure, e non ci pensano proprio di concedere agli infedeli un pezzetto di terra, neanche per la sepoltura. Così i musulmani che muoiono a Dubrovnik subiscono una sorta di pulizia etnica, vengono trasportati a centinaia di chilometri di distanza, in luoghi sconosciuti sia al defunto che ai suoi antenati. Quando si viene seppelliti così lontano, l’addio è definitivo e per sempre.

A soli duecento chilometri da Dubrovnik, sempre in Croazia, nella città di Imotski i politici locali si contendono, con i bosniaci e i serbi, il possesso di una donna musulmana, morta circa tre secoli fa. “È nostra, è sepolta qui”, pretendono i croati. “No, è nostra”, dicono i serbi e avanzano la teoria secondo cui i musulmani sono comunque autoctoni serbi. “Non si discute, è ovvio dal suo nome che è nostra”, dichiarano i bosniaci.

I croati sono passati dalle parole ai fatti. A tale Fatima Pintorovic Arapovic, appunto una musulmana, stanno costruendo un monumento a due secoli e mezzo dalla sua morte. Sul blocco solido di marmo pregiato sarà scolpito il nome della buon’anima, in ben 15 lingue. Il monumento lo stanno edificando sulle ripide rocce che racchiudono una meraviglia naturale, il Modro jezero, (il Lago Blu).

A Imotski sperano che il lago e il monumento, insieme, saranno un solido sostegno per il turismo e per promuovere il nome della Croazia “come altri prodotti o invenzioni di origine croata tipo la cravatta, la vegeta, il prosciutto crudo”, sostiene un patriota locale, tale Milan Puliz.

Il nome Fatima Pintorovic Arapovic così com’è non ci dice niente. Ma, con la precisazione Hasanaginica, milioni di persone in tutto il mondo riconoscerebbero lei e la sua storia.

La Hasanaginica (che letteralmente significa la moglie di Hasan-aga,) era la sposa di un nobile bosniaco, tale Hasan-aga, ed è il titolo dell’omonima ballata che, secondo gli esperti, è tra le più belle del mondo. La poesia epica, che narra di un amore tragico, è apparsa intorno al 1645. Per un secolo fu tramandata oralmente presso le genti che abitavano nella Dalmatinska Zagora, cioè nell’entroterra dalmata. L’ha salvata dall’oblio il viaggiatore ed etnografo italiano Alberto Fortis. Egli fece un viaggio nella zona considerata all’epoca incognita e barbara. Fortis cercava “la poesia e le virtù primitive”, e trovò “la sincerità, fiducia ed onestà di queste buone genti, sì nelle azioni giornaliere della vita come ne’ contratti, che degenera qualche volta in soverchia dabbenaggine e semplicità”, nota Fortis nel suo libro “Viaggio in Dalmazia”, pubblicato nel 1745.

Fu durante quell’avventura che Fortis scoprì quella che lui chiamava una “ballata morlacca”, conosciuta in seguito come Hasanaginica, e la pubblicò nel suo libro, simultaneamente in italiano e in serbo-croato.
La ballata racconta che Hasan-aga Arapovic, mentre giaceva ferito in seguito a una battaglia, chiamò sua moglie affinché andasse a fargli visita nel campo. Anche se tormentata dal desiderio di vedere il marito, Hasanaginica, rispettosa delle regole della società patriarcale cui apparteneva, rimase a casa, per pudore. A quei tempi alla donna non era consentito mostrare i propri sentimenti per il marito, né le era permesso uscire di casa. Profondamente irritato e indispettito, Hasan-aga invia alla moglie un messaggio ordinandole di lasciare il castello, ma senza portare con sé i loro cinque figlioletti, di cui uno in culla. Il fratello Pintorović- bey la conduce allora a casa dai genitori, a Klis, e si affretta a fare risposare la sorella con un ricco cadì. Hasan aga, guarito, torna al castello ma per orgoglio non vuole ammettere di aver sbagliato. Lei, invano, supplica il fratello di non darla in sposa a un altro. Come ultimo desiderio, prima delle nozze, Hasanaginica chiede al fratello di coprirla con un lungo velo in modo da non poter vedere i propri figli nel passare davanti al castello di Hasan-aga. Ma i suoi figli la vedono, la chiamano, il corteo nuziale si ferma, lei vuole baciare per l’ultima volta i suoi bambini, ma le si spezza il cuore e muore.

Dopo la pubblicazione, la ballata ebbe un successo istantaneo. Tale entusiastico interesse può essere paragonato a un moderno “best seller”. Alcuni grandi letterati dell’epoca ne furono impressionati. In tedesco l’ha tradotta Goethe, in inglese Scott, in russo Puskin e poi Anna Achmatova e Lermontov, Mickiewicz, in francese Mérimée.

Ancora oggi si discute sul fatto se la ballata sia una finzione poetica, oppure basata su eventi reali. Di preciso si sa che i principali personaggi sono realmente esistiti. La Hasanaginica, cioè Fatima, e suo fratello appartenevano alla nobile famiglia bosniaca dei Pintorovic. Le proprietà dei bey Pintorovic, nei pressi di Imotski, dopo la cacciata dei turchi passarono ai frati francescani che vi costruirono un monastero. La tomba di Hasanaginica si trova a sud-ovest del Lago Blu. Hasan Arapovic, è stato ucciso alla fine della guerra di Candia (Creta) nel 1669. La vicenda si è svolta a Vrdol che una volta apparteneva alla Bosnia (oggi Zagvozd), vicino alla montagna Biokovo dove Hasan-aga Arapovic aveva un latifondo. Le rovine delle torri di Hasan-aga esistono ancora e i suoi discendenti si possono individuare tutt’oggi.

Uno dei misteri ancora irrisolti è il vero significato del termine “morlacchi” (morlak). Fortis l’ha usato per distinguere il popolo che abitava nell’entroterra dalmata dalla gente che viveva sulla costa. Morlacchi oppure “mavrovlachos”, “karavlah”, “crni vlah”, “karagounides” o “crnogunjci”, tutti questi termini si riferiscono ai valacchi, provenienti dai Balcani orientali che, fuggendo dai turchi, si erano stabiliti nell’entroterra dalmata. Secondo una versione il nome deriva dal fatto che portavano dei mantelli neri.

A causa dei loro metodi crudeli e dei combattimenti irregolari, i Morlacchi erano considerati un popolo primitivo e spietato. Mi ricordo, da piccola, quando volevano spaventarci, gli adulti ci minacciavano con i caravlasi.

Questa percezione sui Morlacchi, Fortis non la conferma nel suo libro. Egli scrive che “sono per la maggior parte di maniere dolci, rispettosi, docili; quelli di Vergoraz aspri, alteri, audaci, intraprendenti.” “I Morlacchi riescono in ogni sorta di ingegno. Nel mestiere dell’armi, quando sono ben diretti, prestano un ottimo servigio.”
Riguardo poi al valore forte e sacro dell’amicizia presso i Morlacchi, il Fortis, assistendo a una cerimonia tra due fanciulle davanti all’altare e alla presenza di tutto il popolo, scrive: “La contentezza, che trapelava dagli occhi loro, dopo d’aver stretto quel sacro legame, provava agli astanti quanta delicatezza di sentimento possa allignare nell’anime non formate o, per meglio dire, non corrotte dalla società, che noi chiamiamo colta”.

Nel corso del diciannovesimo e ventesimo secolo il nome “morlacchi” sarebbe caduto in disuso. È plausibile sostenere che, come popolo, sono stati riclassificati in base alle denominazioni nazionali più persuasive.

L’intreccio tra realtà e fantasia, lo scontro tra il dovere e l’amore, l’impossibilità di conciliare le regole sociali e la passione intima, un insieme di personaggi veri e di popoli sconosciuti o scomparsi, l’innocenza e l’ingiustizia, tutto questo rende la Hasanaginica, ancora dopo tre secoli, affascinante. La drammatica storia piena di grandi passioni d’amore e di dolore, l’obbedienza, l’orgoglio e la vergogna, è servita da pretesto per una serie di drammatizzazioni. In Serbia, Croazia e Bosnia sono stati fatti due film, tre testi teatrali, e la ballata servì come libretto per la prima opera lirica bosniaca.

Leggere i versi di “Hasanaginica” per me è come guardare delle fotografie. Sono tantissimi gli Hasan-aga che vedo intorno a me tra i vicini, gli amici, i cugini. C’è una somiglianza incredibile, anzi sembrano specchiarsi a vicenda. Sono quegli uomini prijeki, si dice in Bosnia, quelli che prima distruggono e poi ci ripensano, ma orgogliosi a tal punto da rovinare se stessi e quelli che amano, piuttosto che riconoscere di aver sbagliato. Disposti a morire per una sciocchezza, in nome dell’amicizia, e per una stupidaggine capaci di ammazzarti senza pensarci due volte.

La Hasanaginica, Fatima Pintorovic Arapovic, è una delle figure più tragiche della letteratura europea. La sua personalità riunisce tutte le norme che, nei secoli, la società prescriveva alla donna: di essere una moglie fedele, una madre tenera, una che si sottomette alle esigenze e all’onore della famiglia. È proprio la sua perfezione che la mette al centro di una tragedia.

La Hasanaginica, non aveva diritto di decidere sulla sua vita. Il suo destino era nelle mani del marito e del fratello. Sono gli altri che decidono per lei, che la comandano. Il suo destino è segnato dal fatto di essere donna, non dalla sua debolezza. Mai di se stessa, sempre di qualcun altro.

In questo “mai di se stessa, sempre di qualcun altro”, si accostano la tragica sorte individuale e quella della Bosnia. Fin dall’antichità, quando la Bosnia faceva da limes, cioè da frontiera, per l’impero romano e quando il Papa nell’undicesimo secolo inviava gli emissari da Roma per mettere ordine tra i bosniaci che pregavano e praticavano la propria fede. Poi durante i 400 anni di dominazione ottomana, cui seguirono l’annessione austro-ungarica e la breve incorporazione nello stato fascista NDH degli ustascia croati, fino alle odierne pretese dei serbi e dei croati.

La Bosnia è sempre stata contesa e contestata, sempre violata, messa a ferro e fuoco per aver rifiutato di essere qualcos’altro tranne se stessa.

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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