Nuovi autismi 17 – La mia faccia
di Giacomo Sartori
La mia faccia non si può cambiare. O meglio, forse con le tecniche di adesso si potrebbe, ma ci vorrebbero determinazione, fiducia nei medici, simpatia per gli ambienti ospedalieri, spregiudicatezza, fede nelle sorti progressive dell’umanità, soldi, coraggio, intraprendenza. Tutti orpelli che mi mancano. E poi mi conosco, sarei altrettanto scontento di quella nuova. Anzi, mi sentirei ancora più beffato, sarei ancora più a disagio. Senz’altro rimpiangerei la vecchia, quella di adesso, perché come dice mia moglie una delle cose che mi viene meglio, come a tutti i nevrotici di una certa gravità, sono i rimpianti. Mi struggerei di nostalgia per la mia faccia svanita nel nulla, mi sembrerebbe di essere infelice perché non l’ho più. Sono fatto così. Senza contare che in fondo ci sono attaccato alla mia faccia di cazzo: a forza di bazzicarli, a forza di averli tra i piedi, ci si affeziona anche ai peggiori soggetti. Una volta non era così, ma adesso viviamo in un’epoca avida di vetrate e superfici riflettenti, che mette specchi dappertutto. Più una superficie riverbera più ci appare al passo con i tempi e accettabile: l’asetticità batteriologica e la formattazione emozionale che l’accompagna rassicurano il nostro frenetico narcisismo, lo saziano di ridondanti conferme. E poi al giorno d’oggi tutti passano il tempo a fotografare e a filmare, quasi non si fidassero più dei loro occhi, così debolucci, così poco selettivi, così smemorati, e gli stessi poteri pubblici e privati piazzano telecamere dappertutto. Di questi tempi puoi fare gli sforzi e inventarti tutte le astuzie che vuoi, prima o poi il tuo bel faccione finisce per sorprenderti da uno schermo o da un pezzo di carta, ti salta addosso quando meno te l’aspetti. Certo poi se dio vuole uno a casa propria fa quello che preferisce: negli appartamenti dove sono vissuto io non ci sono mai stati specchi, o se ci sono stati mancava la luce: impossibile specchiarsi. Radersi diventa arduo, questo sì, e si rischia sempre di uscire di casa con la maglia rovescia, o un baffo di dentifricio sulla guancia, ma almeno non si è costretti a vedersi. Vedermi mi mette quasi sempre di malumore, e vedermi di mattina mi rovina la giornata. È come trovarmi davanti l’ultimo cialtrone che volevo incontrare, uno di quei classici impiastri che ti succhiano via tutta la gioia di vivere, e forse portano anche sfiga. Per lo stesso motivo non mi faccio mai fotografare, a meno che non si tratti di quei turisti che ti includono nelle loro immagini come dettaglio emblematico del paesaggio, e poi se ne ripartono soddisfatti per l’Australia o il Giappone. Certo però con l’età un po’ sono migliorato, e la mia avversione iconoclastica non si spinge più fino agli estremismi fondamentalisti di un tempo: se mi capita di incontrare la mia effige distolgo solo la testa, non sto lì a dare in escandescenze o a vendicarmi. Affretto il passo, svicolo via. Qualche volta penso però alle persone che mi conoscono, e mi dico che sono proprio sfortunate, a doversi sorbire la mia faccia. O anche mi dico che mostrano una pazienza da santi, a non lamentarsene mai: io se fossi in loro non riuscirei a nascondere il disgusto e lo sconcerto. Devono proprio volermi bene, mi dico, rivalutando l’intensità del loro attaccamento. Ma naturalmente pure a me qualche volta succede di immaginare la mia faccia: parlo, o cammino, o anche solo penso, e mi figuro che faccia ho mentre parlo, cammino, o penso. È increscioso, ma succede. Del resto la mia faccia putativa non è così indisponente come quella autentica, non mi dà così noia. È anzi una faccia intelligente, sveglia, recettiva, affidabile. Una faccia che pur rimanendo sempre se stessa si adatta pragmaticamente alle situazioni: assorta ma serena e disponibile, disinteressata ma partecipe, lungimirante, saggia, elevata, di assoluta limpidità. Tutto il contrario insomma di quella vera, che è insulsa, amorfa, equivoca, bassa. E soprattutto corrotta da un tocco di tara ereditaria, di patologia ancorata nel territorio: la stessa stoltezza venata di leggera alienazione mentale che ritrovo nelle fotografie in bianco e nero di mia madre da giovane: non per niente anche lei ha avuto un rapporto conflittuale con la sua faccia, seppure gestito con strategie molto diverse dalle mie. Lei si nascondeva sotto spessi strati di unguenti e rossetti, si camuffava da donna di malaffare. O anche la colgo in certi visi ancora più vicini alla demenza, chiari prodotti di incestuosità alpine, nei quali mi imbatto quando mi avventuro per le strade della cittadina dove sono cresciuto. Ma intendiamoci, la mia faccia non è propriamente brutta: in quanto a bruttezza mi sembra che ci sia di peggio (anche se certo non sono un giudice imparziale). Senza contare che le persone cosiddette brutte a ben guardare non sono mai davvero tali: nel novantanove per cento dei casi quella che chiamiamo bruttezza è una ripugnanza morale: per qualche motivo che non mi è chiaro preferiamo scivolare dal piano dell’etica a quello dell’estetica. Del resto a me le facce cosiddette brutte stanno quasi sempre più simpatiche di quelle cosiddette belle: se davvero la mia faccia fosse molto brutta avrebbe parecchie chance di piacermi, magari anche di sedurmi. E invece mi esaspera con la sua aggressiva pedissequità, e soprattutto con la sua compulsione a raccontare ai quattro venti le mie faccende private. La mia faccia non sa stare zitta, passa il tempo a rivelare i miei segreti, sembra che non abbia altro scopo nella vita. Io vorrei che facessimo combutta, e invece lei gode a crearmi problemi e a mettermi in difficoltà. In fondo è proprio questo che le rimprovero: di tradirmi. Sul progressivo accartocciamento potrei sorvolare, non sono certo l’unico che invecchia, e anche certe ingiustificate assenze, che fanno pensare a una precoce demenza, le scuserei. Io vorrei però che almeno facesse gioco di squadra, adattandosi a come penso di essere, non a come sono. O meglio ancora che cambiasse radicalmente, seguendo alla lettera le mie prescrizioni e dettami. E invece fa quello che vuole, in una maniera talmente previsibile che mi viene quasi da ridere. Ormai la conosco come le mie tasche, so già in anticipo come reagirà in questa o quella situazione, percepisco negli strati profondi che costituiscono la sua retroguardia quello che si prepara a fare. Ma naturalmente quando dico di conoscerla come le mie tasche mento: in realtà ha anche qualcosa di enigmatico, di irriducibile: delle sacche di mistero che non mi è mai riuscito di debellare. Le pochissime volte che la fisso negli occhi mi guarda con quella sua espressione impassibile, fingendo di corrispondere in tutto e per tutto all’idea che ho di lei, trincerandosi in un silenzio fragoroso da autoritratto del rinascimento. Ma non ci casco, non posso cascarci: so che mi nasconde qualcosa, so che pure lei mente. So che mi osserva, che mi giudica, mi disprezza.
(l’immagine: Ranulf Rainer, dalla serie “Face Farces”, 1970-1975)
Prigioniero della propria faccia? E’ perché la nostra faccia appartiene di più agli altri che a noi stessi… Così la nostra faccia è qualcun altro rispetto a noi! Epperò usiamo la faccia per mentire, molto di più che altre parti del corpo. E dunque? Siamo noi che, a furia di sfruttare la faccia per essere diversi da quel che siamo, abbiamo provocato l’ammutinamento dei tratti? O forse aveva ragione il buon Pirandello, e il suo Moscarda, con quel naso che gli diede un sacco di problemacci, a dire che siamo uno… ecc…?
Mi piace pensarla come Sartori, che la faccia ci giochi dei brutti scherzi…
L’autismo più vicino a tutti i miei autismi. Perciò: grazie.
Proprio ieri passavo il mio falso cv a indiani sconosciuti: Mariasole Ariot has a TSO in Urban psychiatry and Public Policies. Currently she is a Post Doc Research Fellow at CSM. Research areas: face transformations.