Femminicidio

[Oggi, 8 marzo, la voce delle donne deve farsi sentire. Ma non solo quella. Ciò che mi inquieta è il nostro silenzio, Il silenzio degli uomini, così come ci viene raccontato dal bel libro di Iaia Caputo. L’autrice ci regala qui di seguito un capitolo del suo saggio, sul quale riflettere. Per farci dire finalmente qualcosa, che non sia pelosamente d’occasione. G.B.]

di Iaia Caputo

Esiste un luogo nel mondo, al confine tra Messico e Stati Uniti, che vanta un macabro primato: il più alto numero di donne uccise del pianeta. È un territorio di polvere e pietre, dove vive un milione e mezzo di abitanti (di cui ottantamila sono cocainomani), in 188 chilometri quadrati, crocevia del traffico di droga tra i due Stati. A Ciudad Juárez, sono morte in vent’anni cinquecento donne (ma c’è chi stima che siano almeno il doppio), tra i quattordici e i quarant’anni; violentate e torturate, sono tutte uscite di casa un giorno qualunque e mai più tornate. Solo trentasei tra loro sono nel cimitero di San Rafael, appena fuori dalla città-mattatoio; tutte le altre risultano scomparse, e molte hanno trovato sepoltura in una fossa comune a trenta chilometri da Ciudad Juárez, insieme a tutti i morti che nessuno osa riconoscere nel timore di rappresaglie. Chi sa non parla. E chi prova a parlare, come la madre di una studentessa sedicenne uccisa un paio di anni fa da un sicario degli Zetas, una delle bande più feroci dei signori della droga, viene messo a tacere per sempre. Lei è stata abbattuta a raffiche di mitra mentre andava a denunciare i presunti assassini della figlia.
È stata coniata qui, in questo deserto senza pietà né legge, la definizione di femminicidio, e il mistero delle migliaia di donne vittime di omicidi sessuali, che spesso niente hanno a che fare con il narcotraffico, seppure narcotrafficanti si presume siano i loro carnefici, è stato oggetto di denunce e reportage, ha ispirato grandissimi scrittori come Roberto Bolaño ed è stato raccontato dal cinema con Bordertown, una pellicola del 2009 con Antonio Banderas e Jennifer Lopez.
All’origine della mattanza si pensava a un’unica mano, quella di un serial-killer, poiché le vittime avevano caratteristiche comuni: erano donne appariscenti, brune, e di poverissima estrazione sociale. Ma questa ipotesi è durata poco. Dopo centinaia di femminicidi (ma solo negli ultimi cinque anni sono morti anche un migliaio di minorenni), si è propensi a credere che se il genocidio è iniziato con uno o più maniaci sessuali seriali, sia in seguito scattata un’emulazione perversa che ha coinvolto decine di assassini, legati alla produzione di snuff movies o alla tratta delle bianche. Persino la polizia si ritiene implicata in numerose morti, e se le autorità hanno cominciato a uscire dal letargo è solo grazie alle campagne di opinione portate avanti da associazioni di donne.
Oggi, il parere unanime è che in questa terra di confine sia esplosa una misoginia criminale, dove gli uomini uccidono per un gioco crudele, per puro e sadico divertimento, come se si fossero scelti un luogo, e che si tratti di una terra al limite, «sul bordo», è una metafora potente, dove regnano le pulsioni più feroci e l’impunità più assoluta. Insomma, uno spazio di libertà in cui gli uomini odiano, indisturbati, fino alle estreme conseguenze, le donne. E se sull’orlo di questo baratro si stia consumando l’ultimo, macabro massacro di una misoginia morente, e per questo tanto più spietata, o si stia verificando la terribile riconferma di un’avversione inestirpabile ce lo dirà la storia.
Tuttavia, che dall’origine della civiltà la violenza rappresenti un nodo irrisolto del rapporto uomo-donna si può affermare ancora oggi, forse, oggi più di ieri. Perché non solo le donne continuano a morire, vittime della violenza maschile, ma la prima causa di morte e invalidità permanente per le donne dai sedici ai quarantacinque anni è legata all’ambiente domestico a ai rapporti familiari. Ed è così tutto il mondo, compreso il civilissimo vecchio continente, come ha rivelato un’indagine del Consiglio d’Europa del 2005. Dunque, colui che dà la morte è marito, amante o padre. Come se la violenza fosse, nonostante tutto, la faccia nascosta dell’amore, una possibile conseguenza, un rischio sempre in agguato. E nel nostro Paese i femminicidi sono in aumento, più del 70 per cento avvenuti in famiglia. Tra i delitti che si consumano tra le mura domestiche, le donne sono vittime in un caso su quattro. Lo testimoniano i dati dell’ultimo rapporto Eures-Ansa, la più esaustiva ricerca su «L’omicidio volontario in Italia»: le donne uccise sono passate dal 15,3 per cento del totale, nel biennio 1992-1994, al 23,8 del 2007-2008. E l’incremento si registra proprio nel ricco e sviluppato nord: dove, nel 2008, ultimo anno disponibile, le vittime di sesso femminile sono state il 47,6 per cento, contro il 29,9 per cento del sud e il 22,4 del centro.
L’elenco delle vittime è impressionante, praticamente ogni tre giorni una donna nel nostro Paese muore di morte violenta. E se almeno ogni sei mesi una vittima massacrata dai parenti o ritrovata morta dopo settimane, soprattutto giovanissima, circondata dal mistero e da dettagli inquietanti, diventa un «caso di cronaca», un feuilleton a puntate seguito da milioni di telespettatori ormai trasformati in pornografi della morte e in appassionati necrofili, tutte le altre finiscono in un trafiletto sulle pagine locali e vengono presto dimenticate.
Chi ricorda più Jennifer, una ventenne di Olmo di Martellago, picchiata e uccisa dall’amante per l’unica ragione di essere incinta e di aver deciso di tenere il bambino, anche senza di lui? Una decisione ferma, senza volontà di ricatto né di rivalsa, eppure l’uomo ha creduto che l’eliminazione fisica della ragazza fosse l’unico modo per non correre rischi: stava per sposarsi lui, non voleva guai con la sua fidanzata. E Ahmad Khan Butt un pachistano che a Novi ha ucciso la moglie, Begm Shnez, a colpi di mattone perché aveva difeso la figlia Nosheen che rifiutava un matrimonio combinato, mentre il figlio della coppia, Umair, diciannovenne, prendeva a sprangate sua sorella riducendola in coma? Chi li ricorda? Solo un mese dopo, siamo nel novembre del 2010, in provincia di Pordenone, è Sanaa, una giovane marocchina a essere uccisa dal padre che non accetta la sua relazione con un italiano. Sono insieme in macchina, Sanaa e Massimo, appartati ai margini di un bosco quando il padre con un’arma da taglio l’ha aggredita. La ragazza tenta di scappare, ma viene raggiunta e finita a coltellate. El Ketawi Da ha compiuto la sua vendetta. La lascia a terra sanguinante e scappa.
«Ho perso il controllo, l’ho colpita e non riuscivo a fermarmi. Poi l’ho guardata mentre moriva» sono queste le parole con le quali un grafico ventottenne della provincia di Milano confessa l’omicidio della sua ex compagna. Erano stati insieme qualche mese, poi la relazione era finita, ma continuavano a vedersi ogni tanto, per riprendersi e lasciarsi ancora. Il corpo martoriato di Monica Savio, madre di un bambino, verrà trovato con il volto sfigurato per i pugni ricevuti, abbandonato in un parco dell’hinterland milanese.
A Milano, due fratelli, Ilaria e Gianluca Palummieri, vengono selvaggiamente uccisi dall’ex fidanzato di lei, Riccardo Bianchi. Un ragazzo come tanti, figlio unico, tranquillo, è un ventenne che vive ancora in famiglia. Non è un bullo e neppure un violento. Almeno fino alla notte in cui, nell’estate del 2011, ammazza Gianluca e poi si presenta a casa di Ilaria: la picchia, la tortura, la violenta più volte e la ammazza strangolandola lentamente, vuole vederla agonizzare. Arrestato, Riccardo dà varie e controverse versioni di un delitto che viene pianto da decine di amici comuni increduli, atterriti, che non riescono ad accettare quelle due morti atroci. Lui, l’assassino, può solo balbettare l’assurdo: amava ancora Ilaria, e non riusciva a rassegnarsi che tra loro fosse finita. Ed era pure grande amico di Gianluca, aveva cercato la sua complicità per riconquistarla. Il rifiuto dell’una e dell’altro lo trasforma in un aguzzino.
Nel 2010, in soli due mesi, sono morte dodici donne per mano di stalker.
A Salerno, Antonio Farina, che da anni tormenta la sua ex convivente Elettra Rosso, e con lei ha in corso una battaglia legale per l’affidamento della figlia di dodici anni, si introduce nello studio legale dove la donna lavora, estrae una calibro 38 e le spara quattro volte, uccidendola. Poi si toglie la vita. Elettra il giorno prima era andata in Questura per denunciare l’uomo per stalking, ma la polizia le aveva consigliato di rivolgersi a un legale per stilare la querela, sarebbe dovuta tornare il giorno dopo. Che non è mai arrivato.
A Cesena, si consuma il triste copione del fidanzato abbandonato che non ne vuol sapere di accettare la fine di un rapporto: lei, Stefania Garattoni, è una studentessa di vent’anni, va ancora a scuola, lui, Luca Lorenzini, di anni ne ha 28. Alle tre del pomeriggio del 9 marzo 2011, Stefania sta per entrare in classe, chiacchiera con un’amica quando si trova ancora una volta davanti quel ragazzo che da mesi alterna suppliche e minacce. Più che impaurita, sembra seccata, e non fa niente per nascondere il fastidio che le provoca la presenza di Luca. I testimoni dicono di aver fatto caso alla coppia perché discuteva ad alta voce, ma niente di più. Pochi minuti dopo, il ragazzo tira fuori un coltello dal giubbotto e colpisce la ragazza alla gola e al volto. Stefania muore qualche ora dopo in ospedale. Lorenzini viene arrestato il giorno stesso, mentre vaga in bicicletta nella periferia di Cesena.
A pochi giorni di distanza, questa volta alla periferia di Mestre, tocca a Eleonora, che ha solo 16 anni, anche lei colpevole di aver detto basta a una relazione che non la convinceva più. Lui, Fabio Riccato, un trentenne neo-laureato in Biologia, l’aspetta seduto sulla sua Vespa: sa che Eleonora a quell’ora passa da lì per andare a trovare la nonna. Sembra la favola di Cappuccetto Rosso, e Fabio è proprio il lupo cattivo che vuole interpretare quella mattina. Lei lo vede, si ferma, e un uomo che sta leggendo il giornale nel suo giardino, a pochi metri di distanza, dirà che ha fatto caso distrattamente alla coppia per pochi istanti: sente che parlano e si rimmerge nella lettura. Passa solo qualche minuto, e quando alza gli occhi si trova davanti a una scena irreale, troppo rapida perché possa reagire: Fabio ha estratto una Magnum dal bauletto della Vespa e spara tre colpi a bruciapelo. Il primo colpisce Eleonora alla tempia, il secondo al torace e l’ultimo le trapassa il braccio con il quale la ragazza ha tentato di proteggersi. L’assassino guarda negli occhi quell’unico testimone terrorizzato, punta l’arma nella sua direzione, poi si spara alla testa.
Infine, a Collegno, in provincia di Torino, una coppia si incontra in un ufficio dei servizi sociali. Non un accenno di litigio, nessuno scontro. Cristina e Gianpiero, trentenni, lui impiegato della Fiat, lei professoressa di matematica, separati da due anni, stanno parlando con assoluta calma delle visite delle due figlie. Sempre conversando serenamente, Gianpiero prende la sua ventiquattrore e la apre, un gesto a cui nessuno fa caso. Solo che dalla valigetta estrae un coltello da cucina, si alza in piedi e si getta su Cristina. Riesce a infierire con cinquanta coltellate senza che nessuno arrivi a fermarlo né a salvare la donna.

Si potrebbe continuare ancora a lungo, per pagine e pagine, solo ripercorrendo un paio d’anni di ordinaria violenza sulle donne. Invece bisogna fermarsi, perché come la pornografia, anche l’orrore nell’accumulo rende indifferenti, diventa banale. E tuttavia di ovvio non c’è niente: se il genere femminile cominciasse a uccidere con la stessa frequenza è probabile che il mondo si fermerebbe, non parlerebbe d’altro, si evocherebbe un’emergenza umanitaria, una catastrofe a cui porre rimedio nel più breve tempo possibile, e con ogni mezzo. Se fossero le donne ad ammazzare.
Quando le guerre di mafia o di camorra raggiunsero l’acme del terrore, arrivando a fare duecento vittime in un solo anno, si parlò di fenomeno criminale, lo Stato intervenne con misure estreme; e si sparsero fiumi di inchiostro, si scrissero libri, inchieste, reportage, ci furono interrogazioni parlamentari e fiaccolate di intere comunità, ancora oggi all’argomento si dedicano dibattiti e trasmissioni televisive. E allora perché la violenza omicida degli uomini verso le proprie compagne o figlie o amanti non riesce a diventare allo stesso modo una questione urgente, pressante, angosciosa? A interrogare le coscienze? A trasformarsi in un’emergenza?
Nel 2006, sempre stando ai dati del rapporto Eures-Ansa, le donne uccise furono addirittura 181; nel 2008 ne sono state ammazzate 147, e di queste ben 104, il 70,7 per cento del totale, all’interno di contesti familiari. Così che non basta chiedersi perché gli uomini uccidono le donne. La domanda è: perché gli uomini uccidono le donne che amano?
È certo che ci troviamo di fronte a delle costanti che circoscrivono e determinano il fenomeno. Sempre più spesso, quasi immancabilmente, la causa scatenante l’omicidio è un abbandono o una separazione, una messa in crisi del rapporto, un’affermazione di autonomia e di libertà delle vittime. E dunque, quel che muove al crimine è l’incapacità di questi uomini di sopportare la frustrazione del rifiuto, di governare la rabbia e metabolizzare la perdita, addirittura, di vivere l’esperienza stessa del dolore. Ma nessuno, o quasi, si è ancora azzardato ad affermare che ci troviamo davanti a un’inedita questione maschile, tutta da decifrare e comprendere. Vero, le violenze sulle donne ci sono sempre state, delitto passionale e delitto d’onore sino a poche decine di anni fa erano all’ordine del giorno, e proprio per garantire al genere maschile se non impunità assoluta, almeno attenuanti e clemenza, erano una volta reati verso i quali il Codice penale prevedeva indulgenza e comprensione. Ma oggi, più che l’affermazione di una forza e di un dominio, più che frutto di un’idea delle donne come esseri inferiori, più che retaggio di incultura e degrado, questa violenza pare nascere dalla disperata opposizione a un cambiamento femminile, dall’incapacità di accettarlo e comprenderlo; dal panico provocato dalla nuova libertà e autonomia delle donne. Dunque, una violenza che colpisce non chi si ritiene inferiore e subalterna, ma al contrario una donna che sceglie, che decide, che pone problemi e crea conflitti. E che spaventa, perché quanto più cresce la capacità di affermazione femminile tanto più vengono denudate la fragilità o la dipendenza o l’inadeguatezza maschile.
Di fronte a un inarrestabile cambiamento, il gesto violento diviene l’estremo atto di un potere morente, la resa tirannica dinanzi all’impossibilità di sottomettere, lo sfregio di un’altrimenti incancellabile alterità. La negazione e, insieme, la massima affermazione, della propria vulnerabilità e parzialità. Così che oggi la violenza sulle donne appare il sintomo più drammaticamente eloquente del declino di un genere; l’unico mezzo a disposizione per quegli uomini che credono così di sventare il rischio della perdita.
Ma cosa c’entra la violenza di pochi con il resto degli uomini? Perché dovrebbe interrogare anche gli altri? E portarli a riconoscere che la violenza è parte di una storia comune? Che per quanti si abbandonano al gesto estremo di un crimine, tutti gli altri condividono una cultura delle relazioni e dell’amore dove ancora quel germe è annidato?
Adriano Sofri, in un lungo articolo intitolato «Quando gli uomini uccidono le donne», pare essere tra i pochi ad aver compreso l’esistenza di una «questione maschile» che chiama in causa tutti. «Gli uomini, anche quelli che si astengono con orrore dall’ammazzare e violentare e picchiare le donne» scrive l’intellettuale pisano su La Repubblica, «se non sono ipocriti con se stessi e sono disposti a frugare nella propria formazione, sentono di avere a che fare con l’impulso che spinge i loro simili a quell’orrore. Se ne tengono a distanza dandogli nomi di sicurezza come “raptus” e follie. Sono tentato di dire che gli assassinii di donne stanno al maschilismo come gli attentati contro gli ebrei stanno all’antisemitismo».
Una voce isolata, messa immediatamente a tacere come quella di uno scomodo grillo parlante. Meglio, molto meglio appassionarsi alla prossima vittima, entrare a far parte del set a cielo aperto del futuro delitto, e fingere di indignarsi, e scandalizzarsi, di temere l’orco e compiangere un’innocente che promette di rendere più interessanti le nostre serate televisive, così generose di dettagli intimi e di segreti inquietanti. Perché tanto più riusciremo a credere che i mostri sono altrove, lontani ed estranei, tanto più possiamo stargli vicino, a un passo dai loro cuori di tenebra, a un soffio dal sangue, dalla paura e dal dolore, e continuare a illuderci che noi, comunque, siamo salvi.

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9 Commenti

  1. 8 Marzo
    Woman Day

    Il pisello è il re
    e quand’anche il re
    fosse scemo
    Viva il re.

    La patata è la regina
    e quand’anche la regina
    fosse scema
    Viva la regina.

  2. Sulla “questione maschile” vorrei segnalare a chi già non lo conoscesse “Essere maschi: tra potere e libertà”, di Stefano Ciccone, che, tra le altre cose, pone un accento su quelle campagne televisive contro la violenza sulle donne dove, a ben guardare, il volto dell’uomo – colui che cova la causa scatenante la violenza – non appare mai (ma solo della donna ferita, umiliata, debole) rimanendo così un’entità sconosciuta, non identificabile, una sorta di mostro da fiaba che basta aprire gli occhi per vedere che nella realtà non c’è.

  3. Ianua Coeli

    Guance ruvide
    le bocche dei maschi
    vanno su di loro
    nude aperte
    generose superfici
    dove i baci
    cercano il possibile,
    abitare il tempo
    arredato da cose fantastiche
    ereditate poi da un terzo
    titolare di guance preziose
    dove le bocche dei maschi
    con guance ruvide
    trovano nuovi argomenti
    per il vaniloquio fantastico della vita.

  4. Sono d’accordo con Mirfet: il fenomeno viene ampiamente sottovalutato. In tv, alla Rai, servizio pubblico, la trasmissione a cui credo Mirfet faccia riferimento, in particolare, si chiamava “Amore criminale” (per ora è sospesa ma la materia non manca per una nuova serie, purtroppo) e insisteva con sadismo sulle scene di violenza sulla donna, con l’uomo di spalle, di cui si vedevano solo le braccia all’opera mentre lei appare in atteggiamento supplichevole e incapace di difendersi…un modo davvero distorto di rappresentare la violenza sulle donne, quasi con un sottile compiacimento di fondo, tipico del resto della conduttrice, tale Raznovich ora migrata alla Sette con un programma d’insofferenza di essere genitori (sempre negativa questa donna…). Aspetto di vedere la serie incredibilmente rinviata, prodotta da Claudia Mori: tra i registi c’è Liliana Cavani, conto su di loro molto di più che sull’orrido “Amore (che poi che amore è?) criminale”…morboso e nocivo!!!

    • Non mi riferivo in particolare a quella trasmissione (e credo neppure Ciccone nel suo libro lo faccia) bensi a quelle campagne dette “progresso” promosse anche dal ministero per le pari opportunità, rendendo quindi la mancanza di attenzione e di analisi del problema ancora più grave.

      Comunque sì, direi che il discorso si estende benissimo anche alla morbosa e nociva ex-trasmissione della Raznovich.

      Il faro dovrebbe essere puntato sull’uomo, gli uomini stessi dovrebbero puntarselo addosso.

  5. Grazie mille, Gianni Biondillo, per aver pubblicato questo testo, e a l’autrice per averlo condiviso.
    Qui, in Spagna, è da qualche anno che si vive la questione della violenza contro le donne come un problema molto preoccupante. Sono state create le leggi per combatterla, e anche se il numero di donne ammazzate ora è minore di quello di prima, continuano ad essere circa 100 l’anno. Pensavamo fosse un problema culturale, storico, abituale nella Spagna in particolare e nei paesi mediterrani in generale ma non è così. La Spagna è, oggi, uno dei paesi in Europa dove meno donne muoiono ammazzate in questo modo. Invece è proprio nei paesi nordici, quelli in cui la donna è, in teoria, più independente e libera, dove più assassini di questo tipo ci sono. Lo trovo qualcosa di veramente preoccupante.

  6. Certo che con “Amore criminale” nuova serie, le cose non sono poi cambiate di molto. Vorrei segnalare l’episodio di una povera Maria Rita Russo del catanese, a cui il marito dà fuoco con l’accendigas (scena ripetuta più volte come a spiegare come si fa…) orrore puro! Lei torcia umana (che trucco la messa in scena) e parenti intervistati ormai quasi liberi dalla pena. Quelle che mi stupiscono di più sono le “suocere”: restano sempre allibite, meravigliate di questi generi che escono pazzi all’improvviso, mentre i suoceri sembrano più consapevoli. Come mai?

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gianni biondillo
gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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