Il progetto
di Andrea Inglese
Enzo sapeva benissimo di non avere le carte in regola, insomma non tutte, ma quel desiderio così forte sì, una spinta che sembrava non cessare mai, neppure durante le ore dedicate al sonno, insinuandosi persino nei sogni, e spingendo oltre pure loro, dall’interno, ampliando le situazioni, rendendole più terse, trasparenti, con panorami ampi, discese, grandi specchi d’acqua dalle forme regolari. In virtù di quella stessa spinta, lui si presentava quasi ogni pomeriggio da quelli dell’associazione, giocava un po’ a calcetto con i giovani che ne frequentavano i locali e poi andava da Anselmo o da Rita, o addirittura dal loro capo, e spiegava meglio del giorno precedente le sue idee, i nuovi accorgimenti che avrebbero facilitato il progetto. Sapeva che queste sue proposte arrivavano tardi, che il capo era occupato da faccende più gravi, da quando la sua foto compariva su molti giornali e gli avvocati gli stavano intorno come spasimanti, senza mai abbandonarlo con gli occhi. Ma per il capo Enzo era come una breve e serena parentesi, lo costringeva a non pensare a sé, a quali sarebbero state le mosse dei nemici, e così si rassegnava a sedersi e a fingere un ascolto accigliato, e qualche volta accadeva che decifrasse per davvero le frasi che uscivano dalla bocca di Enzo e intervenisse a tono, come di soprassalto, a disfarne il castello di carte, a mostrare senza sforzo e particolare perspicacia che i punti deboli erano tanti, che nulla davvero poteva tenere in quel discorso, che era una proposta irrealistica, un tentativo da abbandonare subito, per passare oltre, a cose vere, realizzabili, come succedeva a lui ogni giorno, scavalcando le leggi, schiacciando gli avversari dentro e fuori la propria associazione, come insomma succedeva a tutti, ovunque, quello era il rumore di fondo, non le parole veloci, smisurate di Enzo. Ma a sera tardi Enzo correva all’uno o all’altro bar, che costituivano il vestibolo ad un diverso tempo, il tempo puro della giornata, quello in cui ogni abbozzo o resto, ogni germe carbonizzato o ferita non rimarginata, tutto quanto era rimasto incompiuto, isolato o sospeso, veniva di colpo riagguantato, e spinto in un cerchio di concentrata esaltazione. Le miserie si riscattavano lì, con un amico, Santo, nel bar della zona Nord, o con l’altro amico, Emil, nel bar dei “ruffiani”, vicino al canale. Mai con i due amici assieme, in quanto questo avrebbe annoiato Enzo, anzi gli sarebbe apparso come un tentativo di fuga impossibile, e si sarebbe sentito come lo scorpione che, nel cerchio di fuoco, è costretto a inarcare la coda e a piantarsi nel dorso il proprio pungiglione. Alternando bar e amici, i discorsi ripetuti, sempre gli stessi, relativi al viaggio, a tutte le sue fasi preparatorie e a quelle successive, postume, tutte quelle precisazioni così simili, di sera in sera, e di bevuta in bevuta, apparivano negli anni, grazie a questi piccoli giochi d’inversione, a questa combinatoria minima, qualcosa di inaspettato, di tremendamente attuale, parole sputate fuori per cominciare qualcosa di diverso, di mai pensato, una vita priva delle vecchie immagini, tutta sollevata in un’altra luce.
Bortolottiano.
Sì, sono d’accordo: molto bortolottiano, nel tono, nel mood.
Ma non ho capito in che senso lo intendi tu: dal mio punto di vista è un pregio.
Non solo perchè mi piacciono molto i lavori di Gherardo, ma anche perché questo testo me li ricorda senza però essere derivativo, senza diventarne una sterile copia.
non sono d’accordo, in bortolotti – che a me piace molto – i personaggi non hanno psicologia, qui invece sì, sebbene tagliata dall’assurdo. invece a me, così d’emblée, viene in mente buzzati…
saluto caro :)
r
Certo, questa è sicuramente una differenza, ma io mi riferivo al tono, non alla psicologia dei personaggi. Comunque condivido pienamente il fatto che ci siano delle differenze: proprio per questo ho precisato che il testo non è derivativo.
Ringrazio gli jacopi e renata delle letture ravvicinate.
Le risonanze bortolottiana possono solo farmi piacere. Qui credo che siano sopratutto tematiche: la questione dei resti, delle possibilità non realizzate, dei grandi spazi bianchi di cui è disseminata la nostra esistenza. Cose di cui trattano impietosamente ed esemplarmente le prose di Gherardo.
Quello che ci distingue, anche in questo caso, penso sia le forme ereditate entro le quali avviamo l’esplorazione. Gherardo è in discontinuità forte sia con la poesia che con le forme narrative, e usa in modo nuovo il frammento, rifacendosi più alla tradizione del saggismo novecentesco. Io in queste serie mi calo finto-ingenuamente nella forma più tradizionale della novella.