«Continue chiamate di emergenza»
di Antonio Sparzani
Qui nella via sono o latinos o cinesi o africani. Tra loro non si piacciono, questo è un problema. Non che succeda alcunché di drammatico, qualche urla di scherno, o di insulto, non capisco mai cosa urlino, ma poi si vede che ridono tra loro, che è sempre una conclusione accettabile. Si fanno i dispetti di notte ma io credo che un po’ alla volta impareranno ― o si rassegneranno ― a tollerarsi; a tollerarsi, sì, ma a capirsi anche un po’?
Non ci son più tante ronde di notte come ai tempi di quell’altro vicesindaco, prima del 29 maggio dell’anno scorso, che aveva la ronda facile, quella della “polizia urbana”, s’intende. E poi i negozi che vogliono adesso stanno aperti fino a tardi, vuoi comprare due gambe di sedano per far loro gaddianamente incontrare la culatta del bue, alle dieci di sera, qui non c’è problema, non si sa mai, metti che ti arrivino degli amici sul tardi.
Adiacente al mio portone c’è un ragazzotto cinese che fa il barbiere, di giorno spesso ha clienti, tutto intento con rasoio e pettine, non so quanto si paghi un bel taglio scolpito alla cantonese, non ho ancora osato. Però quando non ha nessuno in negozio è sempre sulla soglia col cellulare all’orecchio, ma sempre, difficile capire come sia possibile, a parte la spesa, voglio dire, ma quante cose da comunicare avrà mai.
Passando dieci minuti dementi a fare zapping su youtube ho trovato una scenetta di un quiz americano nel quale chiedono a un giovane obeso dall’aria felice e spensierata quale di queste parti del discorso, avverbi, verbi, nomi, aggettivi, possano assumere la forma attiva o passiva; il giovane obeso suda, è tutto ben messo, doppio petto marrone cravatta regolamentare, ma non ha la minima idea neppure del senso della domanda, allora chiede un aiutino, gli cancellano due risposte possibili, rimangono avverbi e verbi, ma ancora suda, allora gli fanno fare la telefonata a casa, ecco la linea, trenta secondi di tempo, a casa sudano ancor di più, patema, angoscia, neanche il nonno lo sa, e allora, infine, si butta: avverbi! Peccato, la sorte è proprio avversa. Mi chiedo, è così incolmabile la distanza tra questa domanda e quello che la gente mediamente sa; forse in Italia, mi dico, qualche vago ricordo scolastico è più diffuso, ma supponete di fare la stessa domanda a un latino di questi qua sotto….
No, la vera difficoltà di comprensione tra le culture, quand’anche convivano affiancate in modo relativamente pacifico, è questa distanza abissale della formazione remota, che va ben oltre la grammatica, per carità. Io non mi immagino neppure vagamente le esperienze e le conoscenze remote di nessuno di questi che mi passano vicino tutti i momenti nella strada, anche se ci sorridiamo volentieri: timide vicinanze di superficie, abissi giù nelle pance. L’arsura del deserto o le favelas delle megalopoli dell’America latina io non le ho sfiorate mai, e se anche le sfiorassi sarebbe da turista, per quanto curioso e rispettoso e “voglioso di capire”, non da chi le ha sofferte sulla pelle per chissà quanti anni.
Pensate a cosa viene raccontato ai bambini palestinesi e ai bambini israeliani, che vivono a pochi chilometri di distanza: occorre scalare montagne per superare una così diversa “educazione sentimentale”, qualcuno la scala, naturalmente, ma a prezzi alti e con risultati troppo esigui.
Penso molto, di questi tempi all’insegnamento di Paul K. Feyerabend, grande filosofo della scienza, ma anche intellettuale a tutto tondo, molto attento alla “situazione complessiva dell’uomo” per così dire. Ecco ad esempio quanto scriveva nel 1992 in un pezzo inaugurale del primo numero della nuova e promettente rivista «Common knowledge», al cui comitato editoriale apparteneva:
«Nel leggere articoli che parlano della decostruzione, delle correlazioni in meccanica quantistica, o della terribile maledizione dell’irrazionalismo, spesso mi chiedo: che cosa ha a che fare tutto ciò con quanto ho appena visto e sentito sulla gente che muore per le malattie imposte dal potere in Sudan, per il colera in Perù, per le repressioni in Iraq e in Israele, per i maltrattamenti nei confronti dei rifugiati in Austria, Svizzera e altre “nazioni civilizzate”? E non sarebbe un’eccellente idea ricordare ogni tanto a queste sublimi menti quanto poco piacevole si prospetti il futuro del mondo in cui esse pur vivono e che asseriscono di conoscere?
Porre questa domanda non significa rinunciare a una riflessione intellettuale: Fanon non rinunciò. Significa bensì la presenza, in ogni numero di Common Knowledge, di un segnale che ― attraverso idee e argomenti intellettuali anche ristretti ― non ci siamo dimenticati dei nostri fratelli umani. Da questo punto di vista le parole sono deboli; l’interesse degli uomini spesso svapora in “umanitarianesimo” intellettualistico. Io chiedo per questa rivista fotografie o comunque immagini che ricordino agli intellettuali le malattie, la fame, le distruzioni della guerra oltre allo spietato sfruttamento dell’ambiente al servizio del lusso e del “progresso”.
Abbiamo bisogno di continue chiamate di emergenza.»
Purtroppo Feyerabend moriva nel febbraio 1994, appena concluso l’ultimo capitolo della sua coinvolgente autobiografia “Ammazzando il tempo“.
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ciao sparz, non avrei saputo dirlo meglio. grazie
grazie sì, anche per aver ricordato Feyerabend, a volte dimentichiamo che non siamo né i primi né, si spera, gli ultimi
Un grande problema, Sparz. E c’è da rabbrividire al pensiero che il mondo non se n’è mai dato pena, ed è arrivato fin qui attraversando Medioevi, carestie, guerre e catastrofi.